Il giornale al quale era destinata tarda. Intanto, per pochi intimi.
Sono
trascorsi più di due anni da quando il presidente di una commissione
concorsuale per un posto all’Università di Catania mi chiese come mai fossi
così convinto che le Brigate Rosse non erano state eterodirette, al punto da
dedicare alla loro storia una monografia di quasi 400 pagine. Al di là della
risposta e dell’esito del concorso, che il lettore può facilmente immaginare,
l’episodio è indicativo del fatto che a molti, in questo paese, quella vicenda
proprio non è andata giù. Accademia, politica, giornalismo – nei posti in cui
si riflette sulle cose italiane trovi sempre qualcuno che ti si para davanti agitando
il nome di un servizio segreto. Sta difendendo il suo passato, che peraltro
nessuno mette in discussione parlando di Br. Sta indicando il responsabile
della propria sconfitta politica (o della sua parte), avvenuta grosso modo all’inizio
degli anni Ottanta del secolo scorso. L’Italia è un paese strano. Ha
metabolizzato guerre di aggressione, l’uso dei gas in Eritrea, il tintinnio di
sciabole e le bombe di natale, ma non riesce proprio ad ammettere una cosa
semplice e all’occorrenza poco sconvolgente. Ossia che in questo paese per una
quindicina di anni una generazione si è armata e ha certato di sovvertire il
sistema. E che tra le centinaia di
gruppi che nascono e muoiono nel giro di mesi o qualche anno, quello delle
Brigate Rosse è stato il più longevo e il più attivo. Certo, viene da pensare
che avrebbero metabolizzato anche le Br se non avessero ucciso Moro e la sua
scorta. Viene da credere che quella vicenda – l’aver osato contro un
“intoccabile” – sia la spina rimasta per traverso. Tanto che oggi si sente
parlare addirittura di due nuove “Commissioni Moro”, una alla Camera e una al
Senato, commissioni che si vorrebbe mettere in piedi durante la legislatura in
corso. Ma come avrò fatto a convincermi che le Br non siano mai state
eterodirette? Forse perché ho in mente le biografie di quelli che stavano in
via Fani? È un modo per partire, questo delle biografie. Poi, magari, non ci si
trova d’accordo, ma è un punto. La pensa così anche Andrea Casazza, un
giornalista del Secolo XIX che in questi giorni esce in libreria con il volume
“Gli imprendibili. Storia della colonna simbolo delle Brigate rosse”, edito da
DeriveApprodi [496 pp.]. È la storia della colonna genovese delle Br, la
colonna più complessa e anomala rispetto al resto dell’organizzazione. Una
storia che è parte integrante del tessuto sociale cittadino, che si intreccia
con il vasto mondo extraparlamentare dell’epoca e che Casazza cerca di
ricostruire anche attraverso le biografie dei militanti. Il libro, per forza di
cose, è un testo complesso, ma si legge fortunatamente con facilità, a parte
qualche ripetizione. Ed è un testo che nella sua struttura già contiene una
risposta – indiretta – a chi dubita dell’originalità del fenomeno della lotta
armata. Il volume, che va avanti in un bel modo diacronico, si apre e si chiude
con una vicenda cominciata il 17 maggio del 1979, quando vengono effettuati 14
ordini di cattura, 9 fermi giudiziari e una quindicina di fermi per
accertamenti. Finiscono in carcere militanti dell’autonomia genovese come
Giorgio Moroni, e figure non certo di primo piano delle Br, come Enrico Fenzi.
È trascorso poco più di un anno dall’assassinio di Aldo Moro: secondo alcuni
magistrati di Genova tutta la sinistra extraparlamentare costituisce una banda
armata che di volta in volta assume un nome diverso. Un teorema, simile, ma
meno famoso, a quello cosiddetto “Calogero” [che condusse alla ben più
conosciuta retata del 7 aprile ‘79], che grazie a Casazza siamo ora obbligati a
mettere insieme. Erano anni che si cercavano le Br di Genova e finalmente, dopo
Padova, ci si fa coraggio e le si trova un po’ così, andando a naso. In prima
istanza vengono tutti prosciolti (l’ingiustizia che assolve, avrebbe commentato
il generale Dalla Chiesa), ma in appello e Cassazione gli autonomi sono
condannati come brigatisti (l’ingiustizia che condanna, ricorda l’autore). Ci
sarebbero voluti decenni perché Moroni e
altri che mai avevano fatto parte dell’organizzazione armata venissero infine riconosciuti
innocenti e ricevessero un indennizzo dallo Stato italiano per la galera fatta
ingiustamente. Perché conoscere e frequentare un brigatista, non è essere uno
di loro. Ed è in questo mondo disomogeneo, dove tutti conoscono tutti, che le
Br di Genova agiscono per anni senza che le forze dell’ordine riescano a
trovare un punto di partenza. Imprendibili e sconosciuti. Questi sono i
brigatisti di Genova. Al punto che, dopo la strage di via Fracchia del 28 marzo
1980, quando i carabinieri di Dalla Chiesa uccidono 4 brigatisti senza che
questi reagiscano al fuoco (fu trovato un solo bossolo partito da una loro
pistola), sono le stesse Br a rendere nota l’identità di uno di loro: Riccardo
Dura. Imprendibili al punto che uno dei magistrati impegnati nella lotta contro
il terrorismo nella città ligure, nel corso degli anni ha ripetutamente scritto
e detto che la colonna genovese nasce solo nel 1980. L’anno, invece, in cui
praticamente si disgrega. Genova, la città in cui compie la sua parabola
“l’organizzazione” XXII Ottobre, il primo tentativo di organizzare militarmente
il proletariato, dove le Br nel 1974 sequestrano il pm Mario Sossi,
l’accusatore di Mario Rossi e compagni. La città dove una compartimentazione
strutturata è possibile, ma non si può non partecipare all’occupazione delle
case, alla distribuzione gratuita di medicinali e dove la fabbrica non può non essere
il centro gravitazionale dell’azione politico-militare dei brigatisti. Una
città in cui le contraddizioni sociali e politiche sono più forti che altrove: dove
un professore universitario come Gianfranco Faina entra ed esce dalla colonna
perché è troppo anarchico per quel mondo e un suo stimato collega, il petrarchista
Fenzi, distribuisce volantini. Dove un operaio sindacalista del Pci, Guido
Rossa, è ucciso nel gennaio 1979 per aver denunciato un altro militante delle
Br che quegli stessi volantini li distribuiva nella sua fabbrica, l’Italsider.
Una città nella quale padre e figlio militano in tempi e modi diversi nelle Br
e dove nel 1976 le stesse portano a termine il primo omicidio programmato della
loro storia: quello del giudice Francesco Coco. E dove, infine, chi viene
arrestato può tranquillamente non dichiararsi prigioniero politico e difendersi
(tanto da essere alla fine assolto), pur continuando in carcere la propria
militanza brigatista. Casazza si muove bene dentro la matassa, solo scivolando,
quasi per inerzia in alcuni – pochissimi e nel complesso ininfluenti – luoghi
comuni della dietrologia. E ci ricorda, perché ce lo siamo davvero dimenticati,
che dal 1976 al 1981 l’occupazione a Genova si riduce del 40% e sempre dal 1976
le giornate lavorative al porto ligure crollano in dieci anni del 54%. Molto,
del perché di quella lotta armata, si trova in queste cifre.
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