mercoledì 2 maggio 2012

DIAZ. RIMORSI? NO. "LA STAMPA"

Jennifer Ulrich durante una scena del film "Diaz"




Parla un celerino che ha partecipato all'assalto della Diaz (o Sandro Pertini, com'era stata ribattezzata). E' di Genova. L'articolo appare sulla "Stampa" del 27 luglio, quando tutto il mondo conosce ormai lo svolgimento dei fatti e le violenze inferte ai giovani che stavano dormendo nella scuola in attesa di ripartire il giorno dopo. Era già più difficile nascondere gli accadimenti.




ERO dentro la scuola, ho partecipato all'inferno di Genova. Adesso siamo finiti noi sulla graticola, accusati per tutto quello che è successo a Genova. A che serve parlare? Vuoi sapere delle nostre violenze? Sì, ci sono state, ma perché vi siete dimenticati di quello che hanno fatto le tute nere? Ormai a difenderci c'è solo il capo della Polizia e il ministro dell'Interno. Voi non avete capito che a Genova c'è stata una guerra». Che brutto clima si respira in questura e nei suoi paraggi. Nessuno vuole parlare, persino nella forma anonima, preoccupato di diventare «vittima» di una «caccia alle streghe». I poliziotti che hanno garantito lo svolgimento del GB si sentono stretti dalla morsa di una tenaglia: da una parte il Gsf e l'opposizione, dall'altra i «colleghi». Il poliziotto ha riflettuto a lungo se parlare o meno, se raccontare la perquisizione all'interno della scuola Pertini, ex Diaz. E alla fine si è fatto vivp. L'incontro avviene in un bar, nei paraggi della rianimata piazza De Ferrari, ex zona rossa. «Io c'ero quando siamo entrati nella scuola Pertini, che voi signori della stampa chiamate Diaz, che non era la sede del centro stampa del Genoa Social Forum. Il Gsf si trovava, invece, nella scuola di fronte, la vera Diaz. Ma prima di parlare della scuola e di quello che è accaduto - sì, abbiamo picchiato, è volata qualche manganellata di troppo - vorrei gridare che noi venivamo da due giorni d'inferno». Mastica rabbia il poliziotto: «Qualcuno ha scritto che avevamo l'infiltrato nella scuola, che ci eravamo preparati nei giomi precedenti per fare questo blitz. Questo non lo so, ma dubito che sia andata cos'i». Fa una smorfia che sembra un sorriso: «Perché non avete scritto che i miei capi vi avevano convocati per assistere alla perquisizione? Se volevamo picchiare l'avremmo fatto alle tre di notte, senza testimoni». Ricorda: «Respiravo lacrimogeni e mi difendevo dagli assalti delle tute nere da due giomi. C'era l'inferno a Genova e adesso ve la prendete con noi». Sabato sera, gli scontri erano finiti, il corteo del Gsf (200.000 persone) stava defluendo, migliaia di ragazzi cercavano di entrare nella stazione di Brignoie per prendere il treno e tomare a casa. «Verso le undici, il mio dirigente ci avvisa di stare pronti: "li andiamo a beccare". Noi di Genova eravamo pochi, si aggregano il reparto mobile di Roma e i carabinieri, che ci dovevano coprire le spalle. Se l'operazione fosse stata pianificata un giorno o due giomi prima, ci saremmo organizzati diversamente. E invece ci portano su come quando arriva la chiamata d'emergenza al 113». Il «celerino» sorseggia una birra. Non è testimone o protagonista di quello che è accaduto prima dell'irruzione alla Pertini. La versione ufficiale parla di un «pattuglione» di quattro auto, due in borghese e due volanti, che intomo alle dieci si trovano a passare tra le due scuole, non erano di Genova e avevano avuto la segnalazione che in via Trento, e non alla Diaz o alla Pertini, c'era un gruppo di tute nere. Passano tra le due scuole e vengono bersagliati da pietre e bottiglie. E' stato allora che in questura si è pianificato l'intervento. «Nel cellulare il capo ci dice di stare attenti, che nostri colleglli erano stati assaliti, che ci dovevamo aspettare il lancio di pietre, di bottiglie incendiarie. Che erano tanti. Eravamo nervosi, stanchi e l'adrelina ci teneva svegli. Ero lucido? Non lo so. L'importante, in questi casi, è che i nostri dirigenti lo siano. Arriviamo sul posto. In testa ci sono funzionari in borghese. Si mettono da parte, un nostro mezzo sfonda il cancello. E' buio, sentia- ino grida. Entriamo in quella palestra, accolti da una pioggia di pietre. Non si capisce più nulla. In quegli attimi - non so dire se dopo un minuto o un'ora, non so quanto tempo siamo stati dentro - sento i colleghi che' dicono che uno dei nostri era stato accoltellato. Il primo che mi capita sotto tiro è un ragazzo. Impugno il manganello». Si ferma, i suoi occhi sono come dei laser: «Vuoi sapere se ho picchiato? Sì, l'ho fatto. Nessuno mi ha fermato». Perché lo hai fatto? Cosa ti aveva fatto quel ragazzo? Un sospiro profondo prima della risposta: «Non lo so. Sentivo gridare, vedevo che loro si difendevano, che cercavano di darcele. E io sono stato più veloce di lui». Ma è vero che i ragazzi dormivano? «Quando sono entrato nella palestra, no. Non so se prima o nelle aule dei piani superiori c'era chi dormiva». Quando tutto finisce, e si può entrare nella scuola, il sangue sulle pareti della palestra documenta quello che è successo. Il bilancio ufficiale dell'operazione: su 93 presenti nella scuola, 68 devono far «ricorso alle cure mediche». Rimangono feriti anche 17 poliziotti. Sei giomi dopo quella perquisizione, hai qualche rimorso? Il poliziotto risponde fulmineo: «Rimorso no, rabbia tanta». «Respiravo lacrimogeni e mi difendevo dalle tute nere da due giorni»

Nessun commento: