venerdì 11 maggio 2012

MARIANTHI


MARSA ALAM
Si tratta dell'inizio di un romanzo che avevo cominciato a scrivere nel febbraio 2011. Non ho cambiato nulla. E' stranamente attuale. Se avete pazienza, vale la pena leggerlo.


Il dono

Prologo

Prima di entrare nella ressa della vita, Ol’ga aveva trascorso due giorni a contare i nei sul suo corpo. Aveva scoperto di averne un numero talmente alto, da segnarli accuratamente in un quaderno dalla copertina blu, per non rischiare, in futuro, di confonderli con semplici bolle:

sotto il mio vestitino di jersey sono nati tre nei lungo la linea naso-commessura labiale, uno nel solco sottonasale, due nei pressi della fossetta del mento, uno sul lobo dell’orecchio sinistro, uno su quello dell’orecchio destro [attenzione a quando lo bucherai] direi quindici tra spalle e seno, attorno ai capezzoli niente, qualcosa sulla fossa iliaca, uno per l’ombelico, ventitré tra ipogastrio e pube e dodici sulle natiche. Le cosce e i piedi ne ospitano solo quattro, ma uno, il più bello, si trova appena dietro il mignolo del destro.

Ol’ga, però, era morta presto e non c’era stato futuro. Aveva lasciato un padre, una madre, una sorella gemella e un moroso, Luca. La morte era sopraggiunta improvvisa; una di quelle malattie che neanche i medici sanno definire in modo appropriato e parlano di qualcosa fulminante. Fu tutto così rapido, che Luca non la vide morire. Tornò a Pietroburgo che Ol’ga era già cenere. Pianse a lungo con i genitori di lei, tentò senza successo di contattare la sorella, Miriam, che da tempo abitava a Mosca nella casa di uno scrittore capo di un partito fuorilegge, poi attese. Quando il tempo fu maturo, partì per l’Italia.



Capitolo 1
La Tigre

Lo stabilimento Fiat di San Nicola, 18 chilometri da Melfi, provincia di Potenza, è una Tigre. 7000 addetti si muovono dentro due milioni di metri quadrati e producono ogni anno 450.000 auto. L’eccellenza mondiale della fabbrica postfordista.
Una Punto Evo, millequattro di cilindrata, 105 cavalli, rosso Ferrari, è stata la cinquemilionesima auto uscita dallo stabilimento. Era un 17 di maggio e i vertici del Lingotto avevano preparato con cura l’evento. Invitarono i notabili locali, i professori universitari della vicina Calabria che, entusiasti, promisero una laurea ad honorem, e installarono una mostra fotografica. Riproduceva nel dettaglio pezzi delle auto prodotte nei quasi venti anni precedenti.
In realtà lo stabilimento si chiama Società Automobilistica Tecnologie Avanzate, SATA. È l’evoluzione della fabbrica ad Alta Automazione, il superamento del modello classico di Ford. La fabbrica modulare integrata. Il business ha cambiato la faccia della Tigre, le ha modellato le unghie e rifinito i denti. Perché il mercato vuole qualità, prezzi bassi e tempi contenuti. La vecchia fabbrica è morta e il postfordismo non è solo produzione.
È vita nuova. Certificata da premi internazionali di cui Melfi è orgogliosa, riconoscimenti a livello mondiale per l’organizzazione del ciclo produttivo, la logistica e la riduzione dei costi. Produzione snella, integrazione delle funzioni e dei compiti, decentramento del potere decisionale, maggiore controllo sugli operai e accorciamento della catena gerarchica. La modulazione permette maggiore varietà del prodotto finale e riduce la complessità produttiva grazie alla minore quantità di parti da assemblare. Operazioni semplici. Tempi misurati. Meritocrazia. Ingegneria sociale. Spaccarono, allora, la solidarietà operaia, e la fabbrica smise di essere considerata un elemento identitario. La Tigre ha dilaniato il passato, e il passato è passato. Si è portata via anche il padrone, che oggi non sai più chi è. Prima c’erano i Falck, i Pirelli, gli Agnelli. Oggi sono pacchetti azionari e cognomi stranieri.
La globalizzazione ha annullato i confini. La Tigre ha sbranato la vecchia fabbrica e ne ha lasciato la carcassa in mezzo a un prato. Due milioni di metri quadrati dove entrano fornitori, dealer, nuove imprese e nuovi ricchi che decidono ogni cosa. Scopano in mezzo a quel prato e tutto è organizzato come un grande partito comunista, l’Internazionale integrata modulare.
“A me sembra tutto uguale a prima”, fece Antonio masticando il pane al volante della sua Punto nel parcheggio di Melfi. “La produzione non è rimasta di massa? L’efficienza dell’operaio non è richiesta come prima? E i costi? Anche a quelli ci stavano attenti”.
“No. Non è come prima”, rispose Rosario, che gli sedeva accanto. “Oggi sei qui, dove c’è il lavoro. Domani sei ancora qui, ma il lavoro l’hanno spostato altrove. Dove costa meno. E se gli va, ancora oltre, dove costa quasi nulla. Per poi tornare indietro da te, che sei un miserabile, uno pronto a venderti per qualsiasi prezzo. Non sei più della Pirelli. Non sei più della Falck. Non sei della Breda. Non appartieni a nessuno. Sei un pezzo del mercato. Forza lavoro sottopagata. A tempo determinato. Laico. Atipico. Flessibile”.
“Un tempo vedevi l’acciaio fondersi”, proseguì Rosario, “e i forni non si fermavano mai. Ogni tanto, per pulirli, per cambiare le pietre refrattarie. Lavoravi due ore e una riposavi. Laminavi l’acciaio inossidabile, e non era un’operazione facile, dovevi essere esperto. Ma quando il lavoro era ben fatto e riusciva, che gioia ti dava. Però, se sbagliavi, ti portava via le gambe. O la vita. Perché la fabbrica era la vita, era lì che veniva fuori il salario, ed era lì che si facevano le lotte per i diritti. C’era un cuore, prima. E ogni acciaieria aveva un sistema diverso di colaggio, per cui potevi sempre risalire al produttore di un qualsiasi pezzo: la Thyssen, l’Ilva, la Falck”.
Rosario aveva la sua ragione. Giorgio Falck era uno fatto così: la notte scendeva nei reparti e andava a parlare con gli operai, magari mangiava con loro durante la pausa. E gli operai abitavano al villaggio Falck, o al villaggio della Marelli, o a quello della Breda. Poi si facevano le tavolate di natale, con l’uvetta e il vino, a damigiane. E magari si cucinava direttamente nel reparto.
“Te lo lasciavano fare”, concluse Rosario.
Rosario si sforzava, ma non è facile risalire alla nascita della Tigre, perché i passaggi erano stati tanti. Forse le specializzazioni fecero tagliare una serie di attività. Ma gli esuberi, quelli furono il vero elemento di rottura. La cassa integrazione, che oggi è routine, prima era vissuta con vergogna. Gli operai si vergognavano a stare a casa e uscivano come se dovessero fare il turno. Perché non avevano il coraggio di dirlo in famiglia e non si volevano fare vedere al bar assieme a quelli che non avevano voglia di lavorare.
“La dismissione degli impianti”, riprese Rosario, “fu il passo successivo. E l’hanno pure dovuta curare gli operai che prima ci lavoravano. Hanno tolto alle macchine la pelle, il fegato e le budella. Come un tumore che ti mangia dentro, hanno spolpato vivo il lavoro e dieci anni fa, mentre nasceva Melfi, questa cosa qui che abbiamo di fronte, al Nord non hanno lasciato che gli scheletri”. Tacque, poi riprese.
“Eppure, sono tutti lì. Li hai visti alle primarie di Torino. Le prime file piene di notabili per il signor Filùra. Mentre tiravano fuori dal contratto nazionale i nostri colleghi, che non avranno presto neanche una rappresentazione sindacale, il signor Filùra raccontava di essersi speso per il sì al referendum. Perché, ha detto, la crisi ha cambiato la fabbrica e poi stronzate sulla responsabilità della Fiat per i lavoratori che hanno votato contro. I servi e gli uomini”
Antonio finì il panino e mise in moto. “Come cazzo si fa a votare sì in lastratura e verniciatura? Solo se sei diventato un servo puoi votare insieme agli impiegati. Siamo lavoratori anche noi, hanno detto. Certo, che cambia se invece di tre pezzi ne devono tirare fuori quattro nello stesso tempo? L’impiegato deve solo modificare la cifra con la penna. Ma a te che il pezzo lo devi preparare, tu che fai il turno di notte, come fai a votare assieme a loro?”
“Sai quale è la cosa più sorprendente? Che tutti quelli che in altri tempi urlavano, in coro, "non bisogna cedere al ricatto", agli operai di Mirafiori hanno consigliato di cedere”.
Fuori era buio e mentre lasciarono il parcheggio sentirono gli occhi della Tigre dietro la schiena.



Capitolo 2
Il Fronte della controrivoluzione

Non appena Luca ebbe finito di dare di stomaco, tirò lo sciacquone e rientrò nello studio. La sera prima aveva bevuto troppo ed era stato male. Ora la nausea si stava dissolvendo e il terminale lucido che aveva davanti agli occhi non gli sembrava più così accecante, come qualche momento prima. Le carte sulla scrivania gli davano maggiore pena. Composti, di fronte a lui, gli articoli di giornale raccolti dagli altri membri del Fronte della controrivoluzione riguardavano tanti argomenti ed era difficile trovare il punto di cesura in quel vasto mondo dell’alta finanza che il piccolo gruppo armato, del quale Luca faceva parte, aveva deciso di attaccare. Siamo sempre impegnati a riempire gli spazi vuoti, si diceva, mentre la terminologia del vittimismo si sarebbe presto arricchita di nuove parole. Le vedeva già volteggiare nell’aria. Ci sperava.
Cercò di concentrarsi. Spiegò altri fogli, li pose accanto ai pezzi già pronti e cominciò a fotografarli. L’Ipod suonava un brano di Vladimir Visockij, un artista morto nel 1980 nel pieno della festa per le Olimpiadi di Mosca. Gli tornarono alla mente i racconti degli amici di Pietroburgo, che da bambini passavano le ore davanti al televisore per vedere un famoso sceneggiato, nel quale Visockij recitava la parte di un investigatore. Trascorse così qualche istante, sognando e tamburellando ritmicamente con la mano, quando arrivò una email. Guardò l’ora d’invio e ne ricavò il giorno dell’appuntamento. Ogni giorno era già associato a un luogo: doveva recarsi l’indomani in un parco romano a fare jogging, alle 14.
A forza di sciogliere con dolcezza i fili delle cuffie e dei carica batteria dei suoi apparecchi digitali, che dentro lo zaino si intrecciavano invariabilmente, aveva imparato ad essere delicato con le mani. Ciò aveva aumentato la sua abilità con la macchina fotografica. Con cautela riprese la Canon e continuò l’archiviazione degli articoli. Finiti gli scatti, estrasse dall’apparecchio la minicard, la inserì nel computer e ricopiò le foto sul disco fisso. Collegò l’Iphone e lo sincronizzò. Il materiale sarebbe presto finito nell’archivio dell’organizzazione, un Ipad gestito dalla direzione strategica, tenuto sempre scollegato dalla rete.
Staccò tutto, prese un bicchiere e una bottiglia dallo sportello della scrivania, si versò del vino e lo bevve d’un sorso.
Luca era un precario. Altamente specializzato, passato con una certa dose di fortuna dalla scuola all’università, dove insegnava lingua e letteratura russa: a contratto, senza certezza di stabilizzazione. Il lavoro gli piaceva, anche se sottopagato rispetto ai colleghi di ruolo. Prendeva 2.500 euro netti ogni trenta ore di lezione. Teneva tre corsi e metteva insieme 7.500 euro l’anno, che arrotondava con traduzioni, lezioni private e i rimborsi per le ricerche all’estero.
I suoi amici del muretto lo chiamavano “il professore” già negli anni Ottanta, perché era stato l’unico a continuare gli studi. Tutti avevano un soprannome: Gattone, Puma, Mezzagallina, Muflone, Babba, Varechina. Di tanto in tanto si facevano un appartamento. In due occasioni Mezzagallina, il palo, sempre sconvolto dall’effetto dell’hashish, si era allontanato a cercare non si sa bene cosa e avevano dovuto picchiare i proprietari. Sebbene si definissero comunisti, rappresentavano il sottoproletariato urbano più reazionario e alla fine quasi tutti entrarono nelle forze armate, chi in marina, chi nell’esercito, chi nella guardia di finanza e chi nei carabinieri. Tutti, tranne Mezzagallina, che comprò un taxi.
All’epoca del muretto nessuno era stato all’estero e la partenza di Luca per la Russia diede un senso al suo soprannome: avrebbe davvero fatto il professore, dissero gli amici. Tornava a Roma di tanto in tanto, soprattuto nei mesi estivi e quando aveva portato Ol’ga con sé, il muretto la chiuse intorno: «E da dove vieni e come ti chiami e quanto ti fermi e come sei bella», le dicevano in coro. Tutto trafelato giunse anche Gattone che, saputa la notizia, si era preso il pomeriggio alla pompa di benzina dove lavorava. Era caldo, un luglio rosso, romano. Gattone fece la sua risatina sinistra per richiamare l’attenzione e gli altri, a malincuore, si staccarono da Ol’ga. Egli baciò quella che sembrava una sposa e raccontò la sua nuova scoperta: l’onanismo fatto con due bistecche. Era meglio che andare con le prostitute e rideva come un isterico dandosi manate in fronte e farfugliando «ma guarda che scemo che sono stato, pensa i soldi che ho buttato, mi potevo comprare due fettine al giorno, giocarci un po’ e farmele alla griglia invece di dare tutti quei soldi alle mignotte». Ol’ga non capiva le ragioni di quel baccano e Luca fece una certa fatica a spiegargliele. Insomma, doveva anche inquadrare antropologicamente il Gattone, altrimenti lei avrebbe frainteso. E in qualche modo ci riuscì.
Lo Straniero, con la maiuscola, era il nome che l’organizzazione aveva dato al nuovo capo carismatico del sistema produttivo italiano. Anche lui aveva un soprannome, ma non era innocuo come gli amici del muretto, pensava Luca. Invece di svaligiare appartamenti, toglieva diritti ai lavoratori e aveva già spaccato la classe operaia attraverso continue forzature, favorite da un governo compiacente e da un’opposizione più che liquida. Era l’obiettivo che l’organizzazione sognava, ma raggiungerlo, credeva Luca, andava oltre le forze, se paragonate ai mezzi in mano allo Stato. Genova aveva rappresentato l’inizio di una nuova epoca: la repressione era cresciuta per la volontà politica di centrodestra e centrosinistra, in questo uniti, di aprire la strada a un’ulteriore svolta nel processo di globalizzazione del capitale, quella della competitività a livello mondiale. Che significava, aumento della produzione e livellamento dei diritti dei lavoratori in linea con quelli cinesi o indiani. Non avevano ancora imparato la lezione di Nietsche, per il quale tutti gli imperi non sono che sciocchezze e Bismarck, il grande cancelliere che aveva unito la Germania, non aveva fatto altro che regalarne al mondo una nuova.
Il vino stava nuovamente confondendo i pensieri di Luca: il passato, con Ol’ga e i nomi dei suoi vecchi amici, scomparve in un sonno profondo e senza immagini. Si svegliò che fuori era buio e di fronte a lui c’era solo il presente. Un treno senza macchinista.

***

Le vie di Roma sono di ferro e impediscono il contatto tra gli uomini. Questo pensava Luca e ciò lo aiutava negli incontri con gli altri militanti. Che si svolgevano secondo precise norme di sicurezza: si parlava d’altro, mentre le informazioni venivano scambiate in forma scritta, su fogli immediatamente distrutti.
La procedura, macchinosa ma efficace, non era necessaria correndo in un parco. Molti parlano correndo. Anzi, spesso si corre proprio per dire due parole durante la pausa pranzo. Si raccontano le cose più sconce, o si parla di calcio. Luca e Andrea facevano entrambe le cose. E quando rimanevano isolati, mettevano la sostanza. Andrea era un compagno di Firenze. Luca non ne conosceva il cognome, né era sicuro che quello fosse il suo vero nome. Nessuno dell’organizzazione, però, era in clandestinità. Ognuno conduceva la propria vita in modo normale: non partecipava a manifestazioni politiche né ad assemblee, se non sul posto di lavoro. E, nel caso, era pronto a contrastare le teste più calde quando, durante una vertenza, volevano portare i lavoratori allo scontro frontale con l’azienda anche in assenza di prospettive di vittoria, come in un caso recente a Melfi.
Andrea era un operaio della concia e ogni mattina si recava a Prato a lavorare. Lì la concorrenza cinese era particolarmente forte e il margine di profitto delle aziende italiane aveva cominciato a risentirne, con inevitabili ripercussioni sui lavoratori.
Luca, invece, aveva scoperto la propria coscienza di classe attraverso la precarietà. Era stata una rivelazione profonda. In poco tempo aveva contribuito a creare un piccolo ma agguerrito gruppo che riuniva i precari di molte Facoltà romane e durante una riunione in cui si discuteva di globalizzazione e lavoro in fabbrica aveva conosciuto un ex operaio di Melfi, Simone, che ora faceva il custode all’Università e con il quale aveva avuto molti altri incontri. Attraverso questi era entrato nell’organizzazione.
«La direzione strategica ha deciso di far saltare la casa dello Straniero. Devi partire», gli disse Andrea. «Sei l’unico che ha disponibilità di tempo e che può lasciare l’Italia per un motivo legato al lavoro»
«Per dove?»
«Egitto. Andrai a Marsa Alam, in un villaggio turistico. Sai dov’è?»
«No»
«Sul Mar Rosso, sotto Hurgada. È pieno d’italiani che vanno in vacanza ogni settimana per le immersioni. Come te la cavi sott’acqua?»
«Apnea» rispose Luca con un certo orgoglio.
«Bene. Dopo Marsa Alam torni in Italia. Ti inventi una ricerca e ti sposti in Grecia, ad Atene»
«A fare?»
«A Marsa Alam ti condurranno da una compagna greca. Lei ti spiegherà»
«Quando dovrei partire?»
«Subito. Devi prenotare un viaggio nell’albergo El Quseir. Lo trovi sui depliant di qualsiasi agenzia turistica. Appena sei pronto manderai per email una copia della prenotazione a questo indirizzo, che devi memorizzare: tamatia@yahoo.gr. Creati una casella di posta su gmail che cominci con ‘gliocchi’ tutto attaccato. Ho messo sotto la tua macchina, in una busta, duemila euro in contanti».
Andrea si fermò a bere. Luca riprese fiato e memorizzò le informazioni. Fecero ancora un giro del parco e si salutarono, dandosi un falso appuntamento per il giorno dopo alle 13. A voce alta, vicino a due poliziotti a cavallo che presidiavano casualmente l’ingresso. Luca andò alla macchina, trovò i soldi, si cambiò sotto una grande caserma dei carabinieri e raggiunse un’agenzia di viaggi.


Capitolo 3
Marsa Alam


Dentro l’aereo che lo portava a Marsa Alam, Luca pensava all’evanescenza del giudizio umano. L’Italia vista in un charter sembrava innocua e i turisti gli apparivano come filosofi irresponsabili, pronti a calarsi in un mare caldo e distante dai problemi, sperando di trovarli risolti al ritorno. La mente andò alle organizzazioni che avevano combattuto lo Stato per quasi un ventennio. Il sistema di reclutamento e il funzionamento della sua venivano da quella storia. Si entrava singolarmente, solo compagni conosciuti che già avevano svolto un ruolo nel movimento; nessuna faccia nuova, nessun amico degli amici. Non era una questione personale.
L’ossatura dell’organizzazione era formata da una direzione strategica e tre Fronti, quello di Luca, il logistico e il Fronte di combattimento. Vi lavoravano fino a cinque compagni e ognuno conosceva direttamente solo un membro di un altro Fronte. La direzione strategica comprendeva quattro persone; di loro Luca aveva incontrato Simone, mentre degli altri sapeva i nomi. Ogni mese, rappresentanti dei Fronti si riunivano per scambiarsi informazioni, ma ancora non era stata compiuta nessuna azione, neanche minore: non un volantino, non una risoluzione politica, non una sigla da regalare ai magistrati. Solo due rapine, per l’autofinanziamento, portate a termine dal logistico e dal Fronte di combattimento. Ora, però, sembrava giunto il momento della sfida allo Stato.
Andando in bagno, in fondo al vettore, gli venne in mente la sera del 18 aprile 1996. Il centrosinistra aveva vinto le elezioni e una folla si era radunata sotto Botteghe Oscure. Sul balcone del terzo piano uscirono una ventina di dirigenti di quello che era stato il Pci e salutarono il popolo come Luca aveva visto fare ai sovietici decine di volte dal Mausoleo di Lenin, sulla Piazza Rossa. Sembravano quelle teste di clown con la molla al posto del collo quando escono dalla scatola e mentre in strada cominciarono a scandire il nome di Berlinguer, Luca si allontanò convinto di aver assistito alla fine di una storia.
Vicino alla porta del bagno sedeva una bella ragazza con il fidanzato. Era convinta di avere la vita di fronte. Dopo aver perso Ol’ga si chiedeva con frequenza quanto avrebbe avuto ancora lui da vivere. Non per la paura di morire. Per dare un senso alle cose. E se lo avesse saputo, cosa avrebbe dovuto dire alla nonna quella domenica di luglio: “Ciao nonna ti restano tre giorni”? Perché tanto visse.
“Nel ventre dell’arcipelago siamo tutti fratelli”, pensava. E quel ventre aveva le sembianze di Luca. In fondo, che importanza aveva la vita se la sua bontà era tutta nelle opere di persone che non avevano mai ottenuto un successo? Ma era vero? La scoperta del mondo doveva avvenire attraverso l’uso della violenza. Era sempre stato così, si diceva. La ragione, concluse, viene dopo, per valutarne il grado. «Che tu possa trovarti altrove, amore mio, che tu possa sentire ancora». Il comandante pregò i passeggeri di prepararsi per l’atterraggio e Luca tornò al suo posto.

***

Attraverso il vetro della hall giunse un tipo strano. Parete-plurielementi, stand con foto del Mar Rosso, piedi di italiani in alto sopra un divano, fodera di traliccio dei cuscini bianchi, l’alzata a scaffale dietro alla testata delle poltrone, la specchiera, enorme, la guida della tenda, un candelabro da tavola, la composta di frutta, il codolo del coltello e la ghiera, tutto sembrò scomparire. Riacquistò un aspetto discreto, quindi sguaiato. Lo strano tipo gli era scivolato accanto e Luca si era ripreso dall’imbarazzo. Si diede dello stupido. Dopo una breve coda alla reception ricevette le chiavi della stanza e una spiegazione su come arrivarci attraverso quel dedalo di stradine che a una prima impressione sembrava la caratteristica principale del villaggio.
Sebbene amasse il mare, Luca non era mai stato sul Mar Rosso e aveva anche poca dimestichezza con i villaggi turistici. Aveva trascorso una settimana in un Club Med a Tunisi, ma tanto tempo prima, quando non era maggiorenne, e si muoveva goffamente, vestito e pallido in mezzo ai turisti abbronzati che affollavano le cinque piscine del complesso. Giunto in stanza trovò la valigia di fronte alla porta ed entrò. Diede uno sguardo attento, sbirciò nel bagno, ampio e pulito e si diresse verso il balcone, che si affacciava sul mare. Era caldo, ma la mancanza di umidità lo rendeva sopportabile. Tolse la scheda dall’Iphone e lo accese. Si era segnato delle cose che voleva rileggere prima di andare in spiaggia, ma si rese conto di perdere tempo. Si cambiò e uscì. Ci mise un po’ a capire il sistema per ottenere il telo da mare, ma alla fine si sistemò sotto un ombrellone di bambù, aprì un libro e attese. Passò così una mezz’ora e si diede del cretino. Era un turista, come tutti gli altri. Il più stupido italiota della terra e tale doveva comportarsi. Prese la maschera, il boccaglio e le pinne e si buttò in mare.
Fu come entrare in uno degli acquari che aveva visto a Lisbona e Vienna, il mare dei documentari, quello che aveva sempre sognato. Nuovata e rideva e quasi gli venivano le lacrime per tanta bellezza. La barriera corallina era altissima e il blu del mare profondo confinava con l’estremità del reef opposta alla spiaggia. Prese un po’ di fiato e scese giù, abbagliato dalle tonalità di rosso dei coralli, dalle spugne gigantesche e dalla folla di pesci di ogni forma e mantello che gli nuotavano accanto. Sembrava un pazzo. Fece fatica a uscire dall’acqua e non appena si distese sul lettino fu tentato di rientrare. Guardava il mare, il pontile con un paio di grossi yacht ormeggiati, i turisti che giocavano a pallavolo dietro di lui, quelli che giravano con i piatti pieni di cibo tra gli ombrelloni e si ricordò che non mangiava da ore. Trovò il buffet e si mise in fila. Una donna con il velo sfornava panini tondi e soffici pieni di spezie, che gli diedero un piacere simile a quello appena lasciato dentro il mare dei diecimila colori. Prese un piatto e lo riempì di pane, aggiunse la carne e si sedette a un tavolo.
Era imbambolato, scioccato, e quasi aveva dimenticato il motivo della missione. Mangiando piano, riprese il controllo delle emozioni. Lasciò il tavolo e tornò verso le sue cose.
Dopo un altro bagno, prima di cena fece un giro per il villaggio. Si recò al centro Scuba e affittò una muta e una cinta con i pesi per le immersioni. Passando di fronte ad alcuni negozi di souvenir incrociò lo sguardo di un giovane, che lo invitò a entrare. Si chiamava Adam, e gestiva la bottega dei profumi e delle essenze assieme al fratello, Anton. Entrambi parlavano italiano, come tutti gli egiziani che lavoravano nel villaggio. Adam lo fece accomodare e gli offrì del tè. Gli spiegò che normalmente gli italiani conoscevano solo la loro lingua. Luca alzò gli occhi e un po’ si vergognò. Cercò goffamente di difendere i suoi connazionali, ma lasciò stare quando entrò una coppia che con una certa presunzione si rivolse ad Adam direttamente in italiano. La donna comprò un profumo e Adam riprese la conversazione. Aveva 27 anni e abitava a una ventina di chilometri dall’albergo, in una cittadina sul mare. Gli raccontò che fino a quindici anni prima c’era solo deserto e che Luca si trovava nella prima struttura turistica costruita allora. In seguito, era arrivato un uomo d’affari dal Kuwait, aveva finanziato l’aeroporto e tre alberghi di lusso e la località era entrata nel giro delle più richieste dagli europei. Gli chiese cosa facesse nella vita e se fosse la prima volta che veniva in Egitto. Luca aveva preparato una versione credibile per giustificare quelle ferie e Adam gli rispose che era un uomo fortunato a fare il professore. Non era lui il contatto, pensò Luca, ma non gli fu facile uscire dal negozio. Alla fine comprò un profumo per la sua immaginaria fidanzata che lo aspettava a New York e tornò in stanza.
Neanche a cena accadde nulla. Luca osservava i turisti conquistare un posto lungo il buffet e all’angolo delle bevande; riempì il suo piatto e scelse un tavolo parzialmente occupato. Parlò del più e del meno, fumò una sigaretta in compagnia e verso le dieci andò a dormire.
Il giorno seguente trascorse veloce. Il sole era già alto quando scese in spiaggia. Salutò qualche faccia incontrata la sera precedente o vista in aereo, fece le sue immersioni, tornò da Adam per bere un tè, cenò, come la sera precedente, con nuovi sconosciuti e ritornò in stanza. Giocò un paio di partite a scacchi contro il computer e cercò di dormire.
Passò un altro giorno, ma nessuno lo avvicinava, nonostante il movimento continuo di egiziani. Ogni pomeriggio, verso le tre, scendevano in spiaggia massaggiatori, venditori di souvenir, giovani con un prontuario di tatuaggi che, promettevano, sarebbero durati un mese, e un uomo di mezza età che portava davanti al campo di beach volley tre cammelli. Mentre gli altri giravano tra i turisti, cercando di convincerli a comprare qualcosa, il cammelliere se ne stava tranquillo vicino agli animali. Luca aveva già notato l’italiana che quel giorno ci si mise a discutere, perché indossava sempre una maglietta con la bandiera del Brasile e per lui era una cosa inconcepibile: o si era dei brasiliani, o la si portava a casa propria: mai in un paese terzo. La signora aveva da ridire sul prezzo della passeggiata in cammello, che durava un’ora e costava 15 euro.
«A Milano» - diceva al cammelliere «non costa così neanche un taxi»
«Questo è il prezzo», rispondeva l’uomo.
«Sì, sarà il prezzo, ma è fuori mercato. Quanto ti può costare mantenere l’animale? Mica è una macchina? Mica la paghi l’assicurazione. Non va a benzina».
«Vero signora, ma le mie bestie mangiano»
«E quanto mangeranno!»
La discussione proseguiva su questo tono e la donna diventava sempre più aggressiva. Luca, che non sopportava quelle manifestazioni degenerate di italianità, decise che era troppo e intervenne, anche perché si era unito il marito a sostenerla:
«Scusi signora, se mi posso permettere, ma il suo discorso non ha senso. Cosa c’entra il costo della vita? Questo è un servizio che viene offerto ai turisti e tra l’altro il prezzo è deciso dall’albergo. Nella hall, se guarda, lo trova in bacheca. Lo ritiene conveniente? Ne usufruisce. Al contrario, non fa il giro in cammello. Sa quanto si pagano quaranta minuti di gondola a Venezia? Cento euro. È giustificato dal costo della vita? E provi a prendere una carrozzella a Roma. Il signore dovrebbe obiettare, se capita a Milano, che è il nostro taxi troppo caro rispetto ai suoi cammelli».
Il cammelliere sorrise, il marito si grattò la testa e la signora apparve spaesata. Provò a tornare sugli stessi argomenti, ma lasciò perdere e si allontanò. Luca fece per andare, ma si sentì chiamare.
«Fallo tu un giro»
«Mi dispiace, ma non so andare neanche a cavallo. Figuriamoci su un cammello»
«Ti sbagli. È più facile. Sali»
Vista la situazione, si sentì senza scelta. Partirono verso Nord, il cammelliere davanti, Luca dietro seguito dal terzo animale. In effetti, non era difficile starci sopra e, a suo modo, era divertente. Andarono avanti per una ventina di minuti, finquando Tariq (così si chiamava il cammelliere) non fermò la carovana.
«Guarda che bello il mare, Luca»
«Bello, bellissimo, siete davvero fortunati a vivere qui»
«Dovresti fare una gita, invece di stare tutto il giorno al villaggio»
«Hai ragione, ma non so dove andare», cercò di giustificarsi.
«Appena torniamo vai dentro quella casetta che sta al confine tra i due alberghi, quella gialla, l’hai presente?»
«Sì »
«Bene. Prenota per domani mattina la gita sotto Hurgada. La greca è arrivata»
Non si dissero altro. Tariq girò gli animali e dopo mezz’ora furono di nuovo di fronte all’albergo. Luca pagò i quindici euro, gliene diede altri cinque di mancia sotto lo sguardo attento degli altri turisti e si recò nella casetta gialla.
Sopra un lettino riposava un tipo smilzo e scuro con un nome curioso, Manty, stampato su un cartellino che portava al petto. Sul tavolino due bicchieri pieni di un tè ormai freddo.
«Ciao», cominciò Luca in inglese «vorrei prenotare una gita per domani».
«Sei italiano?
Luca alzò di nuovo gli occhi al cielo, ma ormai si era abituato a sentirsi un cretino di fronte agli egiziani.
«Sì»
«Anche io»
«Come anche tu?»
«E perché no?»
«Non sembri italiano». La riposta era un po’ razzista, troppo esplicita sui tratti somatici di Manty e Luca cercò di spiegarsi meglio.
«Insomma, lavori qui, ti ho sentito nei giorni scorsi parlare arabo, sei un egiziano, E poi che nome è Manty?».
«Manty? Un nome italiano. Sono italiano, di madre egiziana a padre italiano. Sono cresciuto nelle Marche. A 19 anni, dopo la scuola, sono venuto in Egitto. Prima al Cairo, ora qui. Al Cairo c’è troppa povertà. Che gita ti serve?»
«Quella sotto Hurgada. L’ho vista su un depliant»
«Sì, domani la facciamo. Dunque, vediamo. Mi dispiace, non c’è posto»
«Come non c’è posto?»
«Siamo pieni. La gita in barca non parte da qui. Si arriva a un porto a cinquanta chilometri da Hurgada con dei minibus e siamo pieni».
«No Manty, ci devo proprio andare. Gli altri giorni non posso. Trova qualcosa. Quanto costa?»
«Trenta euro»
«Te ne dò altri quindici, per te».
Manty si rasserenò.
«D’accordo, ti metto accanto al guidatore. Portami le fotocopie del passaporto e del visto. Ci vediamo domani mattina alle 8, qui».
Luca uscì soddisfatto dalla casina gialla. Fece un cenno con gli occhi a Tariq e si avviò verso la sua stanza.
Cenò nervosamente. Fumò una sigaretta dietro l’altra e si ritirò. Ma non erano neanche le dieci e non poteva prendere sonno. Uscì nuovamente e fece un ampio giro, quindi raggiunse le luci che si intravedevano dietro l’albergo vicino al suo. Si trattava di un centro commerciale dove vendevano soprattutto spezie, tappeti e quadri. Contrattò un tappeto, tanto per passare il tempo, ma rischiò di doverlo comprare e solo con un certo sforzo riuscì a tornarsene a mani vuote. Si sedette sul bordo di una piscina e guardò l’edificio principale, illuminato e silenzioso. Era l’una. Tra sette ore doveva essere alla casina gialla e si disse che in qualche modo doveva dormire. Tornò in stanza, si spogliò e regolò la sveglia dell’Iphone alle sette, alle sette e un quarto e alle sette e mezza. Prese un libro, ma non riuscì a concentrarsi. Spense la luce. L’ultima volta che guardò l’ora erano le tre passate.


Capitolo 4
Marianthi


Fecero un bel tratto di strada prima di raggiungere il porto sotto Hurgada e Luca dormì quasi tutto il tempo. La barca era grande e ben organizzata. I tedeschi costituivano la maggioranza dei turisti, ma c’era anche qualche francese e una coppia di russi, con la quale Luca parlò a lungo. Dopo due immersioni in posti diversi, un ragazzo dell’equipaggio scattò alcune foto che i turisti avrebbero potuto comprare direttamente su un cd-rom alla fine della gita. Salirono su una barca più piccola con il fondo di vetro per vedere un pezzo di barriera corallina. Quindi, li condussero su un isolotto, una piccola lingua di terra dove giungevano in continuazione scafi pieni di gruppi provenienti da Hurgada. Avevano un’ora per fare un ultimo bagno, prima di rientrare in porto.
Luca sedeva sulla sabbia bianca e l’accarezzava con la mano, provandone piacere. Un egiziano, la guida delle immersioni, dalla riva teneva d’occhio i turisti che stavano in acqua. Rimasto solo, si avvicinò a Luca e gli indicò una ragazza seduta a una ventina di metri da loro, verso il centro dell’isolotto.
“La greca. Ti sta aspettando”
Luca si alzò e la raggiunse. A un primo sguardo doveva avere superato da poco i trent’anni. Occhi neri, capelli scuri, la pelle bianca e un seno prosperoso. Luca non ne fu contento. In quei casi, lo sapeva bene, non riusciva a resistere dal guardare e per evitare di farlo fissava negli occhi la sua interlocutrice, cosa che lo rendeva rigido e poco simpatico. Era tempo che combatteva questa sua debolezza.
La ragazza lo salutò con cordialità, come si fa con un amico, e in un discreto italiano gli disse di sedersi. Formarono una delle tante coppie che prendevano il sole su quei pochi metri quadrati di sabbia, tra il rumore delle barche e il brusio dei turisti. La ragazza disegnò un fiore sulla sabbia e gli chiese se gli piacesse. Abbassò il tono della voce:
“Ci sono altri italiani?”
“Due”. Luca si guardò intorno. “Ma non li vedo. Staranno in acqua”.
“Dobbiamo essere veloci. Ora mi ascolti. Dopo potrai farmi qualche domanda, se non sono chiara”
Luca annuì.
“Mi chiamo Marianthi e sono una militante di un gruppo anarchico di Atene. Ci avete incaricato di trasportare in Italia dell’esplosivo, molto esplosivo. Simone mi conosce da anni, da quando abbiamo frequentato lo stesso campo di addestramento in Libano. Siamo diventati amici e abbiamo mantenuto i contatti, incontrandoci durante i social-forum. Ma non è questo il punto. Il punto è che ieri ho parlato a Hurgada con due compagni libanesi: sono pronti a fornire l’esplosivo. Lo consegneranno tra due settimane esatte a partire da oggi in un porto di Creta. Dovrai venire ad Atene. Partiremo in auto per il Peloponneso, dove abbiamo una barca con cui raggiungeremo Creta e torneremo in Italia. Per venire in Grecia prenderai un traghetto. Ogni giovedì alle 18 ne parte uno da Brindisi della compagnia Agoudimus. Devi salire su quello della prossima settimana, quindi rientrato a Roma non hai molto tempo. Come stai messo con il lavoro? Hai già avvertito che devi fare una ricerca?”
“Sì, è tutto a posto. E comunque sono un precario. In teoria posso fare un po’ quello che voglio, esaurito il contratto”
“Niente strappi, nessun comportamento anomalo. Se hai sistemato le cose va bene così. A Brindisi andrai in treno. Portati uno zaino con gli effetti personali e niente computer, documenti dell’organizzazione o altre cose da giustificare in caso di controllo della polizia sui vostri treni o alla dogana”. Marianthi aprì la borsa da mare che teneva sulle ginocchia incrociate.
“In questa busta ci sono tre schede telefoniche. Ognuna ha memorizzato un solo numero di telefono a nome Dimitri. Prendi con te un cellulare vecchio, perché lo dovrai distruggere. La scheda italiana lasciala a Roma dentro un altro cellulare acceso, non ti servirà. Appena arrivi a Brindisi usa la prima scheda, la riconosci dal numero progressivo più alto, quindi la togli e la butti in acqua in mare aperto. Ti risponderà uno dell’equipaggio, che nella sala del check-in ti farà avere un biglietto intestato a un greco e una carta d’identità. La foto l’abbiamo. Te l’hanno fatta oggi in barca. Riceverai le chiavi di una cabina singola; meno occasioni hai di parlare con qualcuno, meglio è. Per il resto, comportati come un normale viaggiatore”.
“Arrivato a Patrasso, prima di scendere, usa la seconda scheda. È quella con il numero progressivo più basso. Ti risponderà il compagno che ti sarà venuto a prendere. Ti darà il numero della targa e il modello dell’auto. Togli la scheda dal telefono e buttala in mare assieme alla terza, che a quel punto non avrai usato. Serve solo se rinunciate all’azione, se incontri problemi durante il viaggio per Brindisi o per qualsiasi altro motivo tu non riesca a prendere la nave. Ricorda che le schede devono andare in fondo al mare, quindi inventati un sistema. Magari porta dei sassi, qualcosa di pesante e fissale con un elastico. Da questo momento, e fino alla vigilia della partenza per l’Italia con l’esplosivo, che chiameremo sempre il dono, per noi sarai il solo riferimento dell’organizzazione. Se qualcuno prova a contattarci significa che volete rinunciare. A quel punto si bloccherà l’intera operazione, indipendentemente dal suo stadio. Con Simone siamo rimasti d’accordo così. È tutto chiaro?”  
“Sì”
“Domande?”
“Nessuna”
“Allora resta qui qualche minuto e raccontami quanto ti piace il Mar Rosso”
Luca fece uno sforzo per mostrarsi confidenziale; le disse dei pesci che aveva visto quel giorno, di come il caldo non gli desse fastidio, tanto che neanche usava il condizionatore in camera e che la sua abbronzatura avrebbe suscitato l’invidia di tutti gli amici romani. Si alzarono, si scambiarono un bacio sulla guancia e Marianthi tornò verso un gruppo rumoroso di giovani turisti che, a un primo sguardo, sembravano russi.
Luca restò seduto a fissare Marianthi, che non si girò più. Il gruppo con cui stava era certamente formato da russi. Ce lo avevano scritto in faccia, e ne poteva captare qualche battuta, perché alcuni di loro quasi urlavano. Adam lo aveva avvertito che Hurgada era diventata una specie di colonia slava. Ci abitavano e lavoravano in migliaia e da Mosca voli giornalieri sempre pieni collegavano i due paesi. Ragazze un po’ sguaiate flertavano con le guide egiziane. Si lasciavano prendere in braccio e gettare in mare, ridendo. Marianthi parlava con due donne più grandi di lei e sembrava a suo agio. Giunse la loro barca e lasciarono l’isola.
Luca distolse lo sguardo dal seno di Marianthi, si alzò e andò verso la sua guida, circondata da alcuni turisti avvolti negli asciugamani.
“La nostra barca sta arrivando”, disse, e indicò un cabinato che stava conquistando la riva tra i bagnanti. Raccolse una cima, che tenne in tensione, e due egiziani saltarono giù per aiutare il gruppo a salire.
Rientrati in porto, Luca salutò l’equipaggio, lasciò una mancia di dieci euro e si avviò con gli altri verso i minibus. Era il crepuscolo mentre passarono il posto di blocco che si trovava a metà strada con l’albergo, formato da una decina di poliziotti in tenuta antisommossa. Guardava fuori, verso il deserto, cercando di cogliere le differenze che l’imbrunire tendeva a cancellare, rendendo uniformi e scure le piante e le colline lontane. Voleva affrontare i problemi uno per volta, in ordine di importanza. L’obiettivo dell’azione gli sembrava il più consistente. Dopo venivano le modalità, la partecipazione dei greci, e infine il Libano. O prima il Libano e poi i greci? O Marianthi? C’era qualcosa di familiare in lei, ostico ma nello stesso tempo così vicino; che però gli sfuggiva. La sua sicurezza gli aveva fatto impressione. Ma non era quello il punto. Era inserita in un meccanismo che sembrava perfetto: non poteva che mostrare sicurezza. Altro lo aveva turbato. Di personale, non di politico. Non sembrava una greca. Il suo accento non era greco. Quando studiava in Russia aveva avuto colleghe che venivano da Atene. Parlavano un russo molto più dolce degli altri stranieri. D’accordo, non aveva mai sentito un greco parlare italiano, ma Marianthi sembrava qualcun’altra, qualcosa di altro. Era come se la conoscesse già, se l’avesse incontrata anni prima, anche se non ricordava dove. Pensò che le somiglianze sono sempre una cosa scivolosa e decise di lasciar perdere.
Si svegliò mentre il minibus svoltò per entrare in albergo. Salutò i suoi compagni di viaggio, lasciò cinque euro all’autista e avviandosi in camera si accese una sigaretta.
Trascorse i giorni restanti a fare immersioni. Ogni volta riusciva a scendere più in profondità rispetto alla precedente e a vedere parti di barriera corallina che dall’alto restavano nascoste dal blu del mare. Incontrò un grosso barracuda dal mantello scuro. Se ne stava fermo sotto i quindici metri, probabilmente nei pressi della tana. Era un adulto, perché i giovani si muovono in branco e solo in seguito diventano solitari. Si immerse e lo avvicinò. Il pesce non s’innervosì, ma la seconda volta che Luca gli fu sopra preferì entrare in una fessura della barriera. Cercò di seguirlo ma il fiato era esaurito e dovette risalire in mezzo a un branco di grosse cernie, che nel frattempo lo avevano circondato. In superficie provò a toccarle, ma si muovevano quel tanto che bastava a evitare il contatto, restandogli intorno. Tornando si accorse che l’orologio non segnava più l’ora. La pressione doveva averlo danneggiato. Nei giorni precedenti non era mai successo, ma questa volta forse era andato troppo sotto. L’aveva pagato venti euro e non si trattava di un grosso danno, ma in quel momento ne aveva bisogno e sperò di risolvere il problema asciugandolo con il phon.
Nonostante i tentativi che faceva per distrarsi, il pensiero ritornava inevitabilmente a Marianthi e alla missione di Creta. Avrebbe voluto portare con sé una pistola, ma per il momento nessuno dei suoi era armato. Perché una pistola, gli aveva spiegato Simone, ti costringe a vestire in un certo modo; è un pezzo di ferro e in qualche modo i tuoi movimenti si devono adeguare al peso e al posto che occupa sul tuo corpo, e un occhio esperto li sa riconoscere. Le armi, però, le avevano. Erano nascoste in Svizzera, a pochi chilometri dal confine con la Lombardia. Erano pulite, diceva Simone. Provenivano dai canali non controllati da mafia o servizi. Ora Luca capiva che probabilmente le avevano avute dai libanesi.
 L’operazione con il phon si rivelò un fallimento. Invece di limitarsi a sballare l’ora, l’orologio passava da una modalità all’altra, emettendo in continuazione un bip fastidioso, tanto che Luca fu costretto a lasciarlo sul terrazzo per prendere sonno. Era l’ultima sera a Marsa Alam. L’indomani sarebbe rientrato in Italia. 













Capitolo 5
Atene


Dopo aver conosciuto Luca, Ol’ga scappò di casa. Era scalza e disse al marito che andava in bagno. Invece, infilò la porta e scese in strada. Si rifugiò dall’amica pittrice che li aveva presentati e che abitava vicino. Il giorno dopo tornò dai genitori. Divorziò prima che Luca rientrasse dalle vacanze estive, trascorse in Italia. Anche se si sentivano al telefono, non aveva saputo nulla del divorzio e ne fu felice. Andarono a vivere insieme, nella casa che Luca aveva in affitto al centro di Pietroburgo.
Il rientro di Luca in Italia e il suo viaggio verso Brindisi si svolsero senza problemi. Di fronte al check-in del molo inserì la prima scheda nel telefono e chiamò. Dopo cinque minuti arrivò un marinaio con una busta e lo accompagnò all’imbarco per i pedoni. Luca estrasse il biglietto, mostrò la carta d’identità falsa e salì sul ponte principale. Dimitri, o qualunque fosse il suo nome, lo accompagnò in cabina, dove si sistemò per la notte. Mangiò qualcosa al self service della nave, buttò la scheda in mare legata a un peso da un chilo per le immersioni, e si ritirò. Uscì il mattino dopo in prossimità di Patrasso. Inserì la seconda scheda. Gli rispose una voce da uomo, in inglese:
“Volvo rossa. L’ultima cifra della targa è 5”
Gettò in mare le schede rimaste e si preparò a sbarcare. Quattro poliziotti greci con i cani al guinzaglio erano schierati in modo da formare un muro sulla banchina di attracco, ma Luca non si impressionò. Passò loro vicino e si diresse verso la Volvo. Dall’auto uscirono due giovani che in inglese lo salutarono calorosamente e gli chiesero come avesse viaggiato. Uno di loro prese il suo zaino, mentre l’altro lo invitò a salire sul sedile posteriore. Viaggiarono a velocità moderata, senza rischiare di superare i limiti, e in due ore furono ad Atene. Gli spiegarono che avrebbe dormito da Marianthi, presso un caseggiato occupato nel quartiere anarchico di Exarchia, in centro. La situazione in città era molto tesa, gli dissero, e le manifestazioni contro il governo si ripetevano con frequenza e spesso finivano in violenti scontri. L’indomani ce ne sarebbe stata un’altra, molto grande, alla quale avrebbero partecipato tutte le organizzazioni politiche di sinistra, compreso il Partito comunista, che fino ad allora era rimasto a guardare. Ma adesso la questione riguardava tutti, perché si protestava contro l’informazione della Televisione di Stato, che da mesi, da quando durante una manifestazione era stato ucciso un alunno delle scuole superiori, forniva false ricostruzioni dell’accaduto e cercava di gettare la responsabilità sui manifestanti. Luca pensò immediatamente al divieto della sua organizzazione di prendere parte a scontri di piazza, ma la cosa lo attirava e si riservò di decidere.
A un primo sguardo, nel caseggiato dove viveva Marianthi non c’era nessuno. Neanche per fare a sassate, pensò Luca. Ovviamente sbagliava. Erano tutti fuori, chi per una riunione, chi per un incontro con gli extracomunitari, chi a lavoro. Gli aprirono l’appartamento di Marianthi e gli indicarono le due stanze dove abitava la ragazza: “Con Spiro, suo figlio”, gli disse l’autista, “ma ora è alla scuola materna. Marianthi si scusa, aveva un impegno e arriverà tra un’ora. Tu, nel frattempo, puoi farti una doccia e rilassarti”. Si salutarono e Luca restò solo.
La notizia del figlio lo sorprese. Ci mancava un bambino, si disse, ma si rese conto che in quell’appartamento c’erano tante stanze e di fronte a ogni porta erano accatastati tricicli, biciclette e scatoloni pieni di giocattoli. Si trovava in una comune per famiglie.
Entrò in una delle due stanze di Marianthi. Notò immediatamente la riproduzione di un quadro, il Gioco, perduto al tempo in cui Guenter Brus volle fare un omaggio a Egon Schiele, una donna con i capelli tenuti assieme da una fascia nera, come quella che portava sua nonna da giovane. Il quadro lo conosceva bene, perché piaceva molto a Ol’ga, e si ricordò che proprio lei gli aveva fatto notare lo spazio inerte tra lo stupore della bocca e quello degli occhi, quasi fosse l’intervallo tra due note distanti di una stessa opera. Fu distratto dal rumore incessante delle automobili che, come pendoli, passavano da una parte all’altra della finestra accanto alla quale era appesa la riproduzione. Si stese sul letto cercando di riposare, ma era nervoso e andò in bagno a fare la doccia. Non avendo un asciugamano e avendo dimenticato di prenderlo in camera, si asciugò con la sua maglietta che stese sul davanzale della cucina. Trovò da Marianthi una maglia della squadra di calcio del Panathinaikos e la indossò. Doveva comprare dei vestiti prima di partire per il Peloponneso.
Marianthi rientrò di lì a poco assieme al piccolo Spiro. Sorrise per la maglia e gli chiese se era andato tutto bene.
“Lo vuoi un caffè?”
“Un caffé greco?”
“Turco, greco, qui ognuno lo chiama come vuole. Comunque, sì, quello”.
“Va bene, grazie”.
“Vieni in cucina allora”.
Si era tolta le scarpe ed era andata a cambiare Spiro, che prima di seguirli aveva preso il necessario per disegnare. Si mise seduto al tavolo, vicino a Luca, e gli disse qualcosa in greco.
“Vuole che disegni con lui”, sorrise Marianthi. “Spiro l’ho avuto dal mio ex compagno. Vive a pochi passi da qui e viene spesso a vedere il figlio. Gli vuole molto bene. E ne vuole anche a me, ma sai come vanno queste cose”
A dire il vero, Luca non sapeva come andavano quelle cose. I suoi genitori erano morti quando aveva dodici anni, in un incidente stradale. Era cresciuto con la nonna, ma se n’era andata anche lei, durante i giorni di Genova, ai quali Luca non aveva partecipato per assisterla.
Marianthi versò il caffè. Il suo seno ballò di fronte a Luca.
“È tutto pronto. Partiremo domenica. Ma i dettagli te li dirò domani. Ho la testa alla manifestazione, di cui forse ti hanno detto. Qui la polizia ha ucciso un ragazzino qualche mese fa, lo sai”.
Luca fece di sì con la testa.
“Da quel giorno siamo scesi in piazza ogni sabato e ogni volta ci sono stati scontri e arresti. Puoi non venire, ma io ci devo essere. Cercheremo di sfondare la zona rossa intorno alla televisione di Stato, che da quel giorno distorce l’informazione”
“Ma se cercherete di sfondare la zona rossa”, obiettò Luca “lo scontro sarò duro. Te la senti di rischiare prima di partire?”
“Me la sento. Tu, lo capisco, puoi restare a casa”.
Luca avrebbe voluto insistere sulla pericolosità della cosa; avrebbe voluto dirle che tra la manifestazione e la loro missione era più importante la seconda, ma non volle compromettere il rapporto appena iniziato e cercò una mediazione. Con se stesso, prima di tutto. Pensò che era meglio partecipare alla manifestazione, per stare con Marianthi, per vedere il mondo in cui viveva, chi erano i suoi compagni e come si comportavano in determinate situazioni. Ma a lei disse solo:
“Verrò anche io. Che ci faccio a casa da solo mentre voi siete in piazza”. Provò una battuta: “O preferisci che resti qui con Spiro?”.
“Spiro da stasera e fino al mio ritorno starà con il padre”. Marianthi fece una pausa: “Ma sei sicuro di voler venire? Guarda che non devi”.
“Ma sì, sarà meglio così”.
Marianthi si mise a preparare il pranzo per Spiro, che nel frattempo aveva coinvolto Luca nei suoi giochi. Gli dava in mano una matita e gli indicava un punto sul foglio dove aveva disegnato una casa o un animale. Si trattava di un villaggio con una fattoria.
“È quella dei nonni”, disse Marianthi, mentre ripose i colori, che sostituì con un piatto di pasta al burro. “Tu cosa vuoi da mangiare? Ti va bene la pasta se ci aggiungo della salsa?”.
“Va bene Marianthi, grazie”
Marianthi. Era la prima volta che Luca la chiamava per nome. Per pronunciarlo bene si deve infilare la lingua tra i denti prima della “i” finale. E il farlo, se riesce, provoca un piacere particolare. Lo fece ancora, e la ragazza lo guardò interdetta.
Mangiarono e passarono nella stanza grande. Marianthi gli spiegò come funzionava quella comune, gli raccontò dell’occupazione, dei tentativi di sfrattarli e dell’accordo raggiunto con il municipio. Gestivano anche un centro sociale chiamato “Diktio”, la Rete, dove tra l’altro, aggiunse la ragazza, ogni mercoledì si riuniva un gruppo di italiani chiamato Bella Ciao.
“A proposito, come mai parli italiano così bene?”, le chiese Luca.
“Perché l’ho studiato”
  “Ti deve piacere molto. Sei mai stata in Italia?”
“Certo che ci sono stata”
Luc cambiò discorso.
“Ho visto quella riproduzione nell’altra camera, è molto bella. Ti piace Egon Schiele? Conoscevo una persona che passava le giornate intere sui suoi disegni”
“Amo tutti gli artisti della Secessione, ma lasciamo stare le discussioni colte, se non hai nulla in contrario. Mi riposo mezz’ora. Dovrei anche scendere per gli ultimi dettagli della manifestazione. Ci saranno pure quegli stronzi del kappakappaepsilon che proveranno a gestirla con il loro servizio d’ordine. I comunisti. Sono rimasti fermi al 1949 senza capire che la felicità si basa solo su una grande invenzione: l’abbraccio. L’abbraccio di un uomo, di un figlio, dei compagni. Domani un lungo abbraccio prenderà l’intera città. E io sarò felice”.
“Voi italiani non siete stati molto diversi. I comunisti intendo. Vi hanno riempito la testa di stupidaggini. Il lavoro fisso”, proseguì Marianthi, “ne hanno fatto un feticcio. Non il lavoro, senza attributi, ma il lavoro fisso. Vi spezzate la schiena alla linea di montaggio perché volete una casa di proprietà. E non vi rendete conto di vivere nell’epoca del commercio costrittivo totale, la cagata che chiamano globalizzazione. Occupate le case, invece di comprarle, e la macchina si fermerà. Ma ormai non potete tornare indietro. Siete così tragici, voi italiani, eppure capaci di ridurre tutto a farsa. Perché il tragico si lascia scavare, e ne avete paura. Avete ragione a temerlo; in fondo è sempre un po’ vittima di se stesso”
“L’Italia è il secondo paese più industrializzato d’Europa dopo la Germania”, rispose Luca. “Siamo pieni di fabbriche. E quindi di operai. Il lavoro sta in fabbrica. Ci deve essere un luogo simbolo, ci devono essere dei diritti simbolici, una dignità particolare e una via di emancipazione differenti dall’uomo della strada. Chi dice che in una democrazia un metalmeccanico è uguale agli altri lavoratori, è un populista. Vuole rompere la solidarietà di classe per sostituirla con una non meglio identificata “urgenza del bisogno”, cui venire incontro con il welfare globalizzato”.
“Ma li conosci gli operai? Sono gente che va dritta all’obiettivo e non appena lo raggiunge ti molla. Che fine ha fatto la solidarietà, dovresti davvero chiedertelo. In Italia la classe operaia si è lasciata spaccare in due”.
“Era sotto ricatto” provò a difendersi Luca. “E nonostante questo quasi la metà ha votato contro l’accordo”
“Ma l’altra metà? L’altra metà ha tradito se stessa. Pur di conservare il privilegio di uno sviluppo che non ha senso. E nel farlo, ha ridimensionato i diritti degli altri lavoratori. La tua Italia è la fabbrica degli orrori. Sperimentano da voi ed esportano. Non è la prima volta che accade”
La discussione si contorse su se stessa; le posizioni di Luca e Marianthi a volte si avvicinavano, altre si allontanavano. Il seno della ragazza lo distraeva terribilmente e alla fine Luca si lasciò coinvolgere da Spiro in nuovi disegni, mentre Marianthi andò a riposare. Riapparve sulla porta un’ora più tardi, presero insieme il piccolo e lo portarono dal padre.

***

 Il giorno dopo alle 8 del mattino Luca era in piedi. La manifestazione sarebbe cominciata alle 10, partendo da piazza Omonia. L’obiettivo era sfondare i cordoni della polizia e raggiungere il parlamento; e anche il picchetto dei comunisti del KKE, se fosse stato necessario.
In piazza Exarchia stavano preparando gli ultimi striscioni, molti dei quali, spiegò Marianthi, erano contro la globalizzazione e la Nato. Un anarchico mangiava nervosamente un panino accanto a un compagno che suonava uno strumento a forma di dirigibile con dei buchi laterali. Si lasciò cadere le lenti sul naso e tirò su un fazzoletto nero che ricoprì il volto. Molti indossavano maschere antigas e caschi da motociclista. Luca, una felpa con il cappuccio e aveva la netta sensazione di essersi imbarcato senza biscotto. Marianthi gli aveva anche dato un fazzoletto nero e una bottiglia d’acqua, unica difesa contro i lacrimogeni.
Il corteo partì alle dieci. Una ragazza con i capelli rossi gridò subito qualcosa in faccia ai celerini che attendevano al primo incrocio, ne spinse uno prendendolo per lo scudo di plexiglas e ricevette una manganellata. Luca fece per buttarsi nella mischia, ma Marianthi lo fermò. Si sentirono spingere e videro volare manganelli. Luca si frappose tra la ragazza e un celerino e con l’aiuto di altre mani riuscì portarlo dentro al corteo, che lo atterrò riempiendolo di calci. Giunsero i rinforzi e la prima fila dei manifestanti serrò il passo tenendosi unita con dei bastoni corti e tozzi.
I comunisti del KKE aspettavano di fronte al Parlamento per porsi alla testa del corteo. La polizia continuava ad aumentare e con cautela gli anarchici cominciarono a indietreggiare. Marianthi si teneva a Luca. Il corteo ripartì, di corsa, cercando di sfondare il blocco. Da dietro cominciò un fitto lancio di uova e pomodori e una parte si defilò sotto gli archi, sulla destra, superando la prima linea della polizia inseguita da giornalisti e telecamere, invasati come mosche in un carnaio. Luca contò i caschi dei celerini che poteva vedere: erano circa trecento. “Sai celerino che posso leggere sul tuo volto quanto ti resta da vivere?” urlò in faccia a uno di loro. “Pare dipenda dagli emisferi. Quando diventano uguali stai all’erta perché vuol dire che ci siamo”. Quello non capì una parola e lo guardò sorpreso. Luca gli mollò un pugno, rompendogli il setto nasale. Uno studente perse la lente da un occhiale legato con uno spago dietro alla nuca ma continuò a picchiare come nulla fosse. Marianthi tirò Luca per la felpa. I lacrimogeni erano troppi e non si vedeva più niente. La gola cominciò a infiammarsi. Il corteo si divise ulteriormente e una parte consistente prese di corsa una via laterale, libera dalla polizia. C’era un rumore assordante di chiavi e fischietti. Marianthi correva e spingeva, o si appoggiava a Luca, che le era davanti. Passarono dietro Omonia per il mercato generale di Atene e risalirono una delle vie commerciali più importanti. Arrivati in piazza Sintagma, dove attendevano i comunisti, qualcuno sparò dei fumogeni da stadio in direzione del picchetto, in modo da aprire un varco.
Un giovane cosparse di benzina un cartellone pubblicitario, dandogli fuoco; le fiamme si trasformarono presto in un fumo nero e la confusione aumentò. Andarono in frantumi le vetrate della Posta. Altri anarchici cominciarono a rompere il marmo del marciapiede vicino al Parlamento con delle mazze di ferro per farne pietre, che tiravano verso la polizia. Il traffico era bloccato, ma invece di correre verso il palazzo presidenziale, sul viale parallelo al Parlamento, che era presidiato, la parte di corteo con Marianthi e Luca si diresse nella direzione opposta, proprio dove gli automobilisti erano rimasti imbottigliati. In molti saltarono sopra le auto e la carica della polizia perse ogni efficacia. Qualcuno sparò un altro razzo, stavolta ad altezza d’uomo. Il corteo entrò di corsa dentro i giardini nazionali. C’era fumo ovunque; qualche poliziotto riuscì a raggiungere le retrovie, colpendo alle spalle gli ultimi, ma l’idrante che era stato preparato meticolosamente per fermarli non poté essere usato, perché avrebbe inondato principalmente le auto. Luca sentì in bocca del sangue caldo e gli occhi che si riempivano di lacrime. I celerini colpivano e tornavano indietro, cercando di chiudere in una morsa gli anarchici. Ci fu qualche minuto di tregua. Il fumo si diradò e tutti si diressero lungo una rotabile seguendo i binari del tram. La prima fila si unì dietro un bastone lungo alcuni metri che ognuno strinse a sé, e avanzò velocemente verso la televisione di Stato. A mezzo chilometro di distanza i celerini avevano formato due file compatte, con una terza a pochi metri dal cancello principale.
Il ticchettio della folla si lasciava respirare. Truppe motorizzate e un autoblindo con un altro idrante sul tetto attendevano gli eventi. Il corteo giunse a pochi metri dalle due file di poliziotti. Il fragore era enorme. Luca e Marianthi non si erano persi e restavano vicini. I minuti lievitarono, lentamente. Si sentivano agitare le chiavi, un suono lontano di tamburi. Finalmente un anarchico prese un megafono e cominciò a parlare. Il corteo si allargò per far passare i tamburi, che si misero tra la prima fila e la celere. Luca si calmò e mentre cresceva il rumore, davanti ai suoi occhi passarono altri strumenti, un sassofono, una tromba e qualche grande barile di vernice rovesciato. Erano arrivati anche i comunisti, che però rimasero in coda.
La musica diventò assordante e molti cominciarono a ballare. Marianthi si strinse a Luca poggiando le mani sul suo petto. Si tolse le scarpe e mise a danzare anche lei, scalza, come Isadora Duncan, di fronte ai celerini pronti a colpirla in qualunque momento. Luca li fissava. I loro volti muliebri protetti dalle visiere avevano la stessa espressione paralizzata. Amore, verginità e morte erano sul punto di confondersi dentro la gabbia della più grande protesta popolare contro la televisione di Stato nella storia della Grecia democratica e Luca vide l’orizzonte dei circoli incidenti e una luce pallida che veniva dalla periferia di Atene.
La battaglia urbana era finita e la manifestazione si esaurì dopo una mezz’ora di discorsi. Marianthi era sudata e in quella confusione aveva perduto le scarpe. Si avviarono a piedi verso casa perché i mezzi pubblici non circolavano. La polizia era ancora schierata, ma non si mosse. La tregua teneva. Ogni tanto i piedi di Marianthi incontravano sull’asfalto un lacrimogeno, vetri, pezzi di legno e i rifiuti rovesciati dai cassonetti. Le si sporcavano ad ogni passo, ma non se ne preoccupava.
Il sole era ancora alto e faceva caldo. Risalirono una scalinata accanto allo stadio antico, un anfiteatro dalle lunghe tribune laterali che si trova a pochi passi dai giardini nazionali. Alla fine delle scale, sulla destra, un cancello immetteva in un cortile e dopo una piccola salita si apriva una pista in terra battuta dove alcuni facevano jogging percorrendo l’anfiteatro da un lato all’altro, sopra alle tribune, per tornare indietro. C’erano dei punti di accesso, ma era vietato scavalcarli. Si poteva però restare a guardare lo stadio dall’alto, da dove si vedeva l’Acropoli, poco lontana.
“Non ti ho chiesto se eri mai stato ad Atene prima”
“No, è la prima volta”, rispose Luca.
“Questo stadio si chiama Kallimarmaro. Qui si svolsero le prime olimpiadi moderne, nel 1896. È come un tempio per gli ateniesi. A volte ci porto Spiro a giocare. Al tramonto il sole scende proprio dietro l’Acropoli e il cielo sembra un quadro, uno di quei dipinti dei naturalisti che giravano l’Europa all’inizio dell’Ottocento per riprodurre i monumenti classici. Molti andavano in Italia, a Napoli, a Pompei. A dire la verità, i tramonti sono più belli dei loro quadri”
Luca la guardò e rimase in silenzio, volutamente, per qualche istante:
“Oggi è accaduto qualcosa di strano”
 “Cosa?”
“Questo che è appena successo, la manifestazione, gli scontri con la polizia, l’ho già vissuto”
Marianthi sorrise: “Ma l’abbiamo già vissuto tutti!”
“Non in quel senso; voglio dire un’altra cosa. L’ho già vissuto nelle stesse modalità, a Vienna, una decina di anni fa. Anche allora attraversammo mezza città per andare a protestare di fronte alla televisione di Stato. Avevano formato un governo guidato dai democristiani, ma sostenuto da un partito ultranazionalista. Si svolse una grande manifestazione, perché i democristiani avevano promesso che mai e poi mai si sarebbero alleati con il partito xenofobo, ma fu attaccata dalla polizia e si trasformò in una giornata di scontri violentissimi. Quasi prendemmo il Parlamento e furono assaltate la sedi dei partiti di governo. La TV diede una versione di comodo e dopo due giorni la protesta si spostò sotto gli studi dei telegiornali. Non è strano?”
“Che ci facevi a Vienna? Da come ne parli sembra ci vivessi”
“In realtà cercavo una persona”
Luca guardò i piedi di Marianthi, incrociati alla maniera che aveva già visto sul Mar Rosso. La compressione della carne sull’asfalto li aveva rovinati. Non straziati, ma le dita più piccole erano consumate e scure. Lo smalto nero delle unghie si confondeva con la sporcizia e piccoli grumi di sangue si erano raccolti tra le pieghe.
“E l’hai trovata?”
“Non lo so. Mi ero illuso che fosse lei, ma ho voltato le spalle. Tanti anni prima avevo abitato in Russia, a Pietroburgo, assieme alla mia compagna. Morì a causa di una malattia e passato qualche anno cercai la sorella gemella. Ol’ga, così si chiamava la mia ragazza, era una stilista e in Italia avevo riportato i suoi disegni. Li facevo incorniciare un po’ alla volta, finché da uno non saltò fuori una lettera della sorella da Vienna, dove era scappata. A Mosca stava con un gruppo semiclandestino guidato da uno scrittore estremista. Quando lo arrestarono, da quello che raccontava nella lettera, era fuggita in Polonia e da lì a Vienna, aiutata da una specie di Soccorso Rosso internazionale”
“Ma tu la conoscevi?”
“No, non l’avevo mai vista. Forse è per questo che non l’ho trovata. Che matto, vero? Volevo mi raccontasse di Ol’ga, perché c’erano tante cose che non avevo capito. Quando morì ero in Italia, ma nessuno mi chiamò per dirmelo, neanche i genitori, che conoscevo benissimo. Era come se vivesse abbandonata e sola, nonostante la famiglia, tutte le sue amiche, e me. Dopo aver trascorso una notte nel suo studio, capii che aveva mantenuto un rapporto speciale con la sorella, anche dopo la sua partenza da Mosca. Ne parlava spesso in un diario e molti disegni che avevo, ma questo lo compresi più tardi, la ritraevano. Però, da un disegno o da una foto non riconosci nessuno se non l’hai visto camminare almeno una volta. A Vienna conobbi una serba di nome Elena. Le somigliava molto e pensai che fosse lei Miriam, la sorella, che avesse cambiato nome e che si nascondesse perché ricercata dall’Interpol. La seguii a Belgrado, dove ogni mese andava per un fine settimana, e lì le raccontai questa storia. Passammo la notte a parlare e il giorno seguente mi chiese di partire; mi disse che mi avrebbe chiamato a Vienna. Ma non lo fece. La cercai ancora; la vidi un paio di volte davanti casa sua, ma non ebbi il coraggio di fermarla. Lasciai la città. È una storia così, finita male”.
Marianthi lo aveva seguito con attenzione, ma non fece altre domande. Con uno sforzo Luca tornò al presente: “Ma perché vi siete lasciati con il padre di Spiro?”
Prima di rispondere raccolse le ginocchia sotto al mento:
“Non andava. Siamo troppo diversi. Dopo otto anni ci siamo resi conto di essere degli sconosciuti e che Spiro non ci aveva legato affatto, come credevamo. Ognuno di noi era rimasto uguale a quando non ci conoscevamo. Stavamo insieme per la politica. Capimmo che non era quella la nostra vita. Voglio dire, la nostra vita insieme”
“Come si chiama il padre di Spiro”
“Come pensi si possa chiamare un greco? Aristotilis”
Marianthi sorrise. Sorrise e accarezzò il volto di Luca.
“Che strano modo hai di affrontare la vita”, disse Luca. “Accetti tutto, come fosse un dono, un dono che non tradisce, anche quando è pronto a farlo”
“Il dono, caro Luca, abbiamo detto che per noi è un’altra cosa. Senti, qui vicino ci sono dei negozi di scarpe. Non credo che abbiano chiuso per la manifestazione, perché passava lontano. Mi accompagni? Per strada ti dico di domani. Che poi c’è poco da dire” aggiunse alzandosi, “perché si parte in auto per una regione del Peloponneso che si chiama Mani, dove fa molto caldo – preparati – e lì ci imbarchiamo sul nostro ‘panfilo’ alla volta di Creta. Sarà come una vacanza. Dovrà essere come una vacanza”.
Luca si accese una sigaretta: “Ma tu sai portare anche una barca?”
“E tu?”
“Io no”
“Beh, io neanche. Abbiamo un piccolo equipaggio, formato da due compagni del Mani, un mozzo e un nocchiero”, aggiunse sorridente. “Gente dura. Pensa che fu l’unica regione di tutta la Grecia a non essere occupata dai Turchi. Sessanta chilometri di costa e trenta di larghezza, per quattrocento anni libera dal giogo ottomano. Pagavano un tributo, quello sì, ma erano padroni in casa loro. Però ne morirono tanti lo stesso, anzi, forse ne morirono di più. Faide familiari, terminate solo nel secolo scorso”
“Tanto noi ci stiamo il tempo utile per salire in barca e salpare” scherzò Luca. “Ah, no, l’equipaggio. Questi uomini pericolosi ce li portiamo dietro. Vabbé, mi difenderai. A proposito, ma saremo armati?”
“Niente armi. Se ci ferma la guardia costiera prima del dono e perquisisce la barca sarebbe un casino. Se dovesse accadere dopo, si vedrà. Mi sa che dovremo buttare in mare l’esplosivo”. Marianthi guardò Luca:
“È questa l’unica parte del piano che suona imperfetta. Ma non siamo riusciti a fare di meglio. Però ci saranno diversi compagni a controllare la rotta. Con un po’ di esperienza, e di sorte, ce la faremo”
Dentro lo stadio c’era una fontanella e prima di uscire Marianthi si lavò. Comprò un paio di scarpe di pezza mentre Luca l’aspettava in strada, osservandola dalla vetrina del negozio. Quando uscì, sorridente, lo prese per mano.
“Ti andrebbe di mangiare qualcosa? Conosco una taverna qui vicino”
Si sedettero in una piazza dove i bambini giocavano a calcio. Era un campetto teorico, immaginario, senza porte o limiti. Ma prendevano la partita sul serio e avevano l’aria di chi si sente adulto. Ogni tanto la palla si infilava tra le gambe dei tavolini, ma nessuno degli avventori ci faceva caso. Marianthi ordinò una cena alla greca, con tanti antipasti e un piatto di carne mista alla brace. Presero anche del vino, che Luca non toccava da giorni, e la grappa locale, l’ouzo. Un po’ ubriachi, si avviarono finalmente verso casa.


Capitolo 6
La direzione strategica

Da quando Luca era partito per Atene, l’organizzazione aveva vissuto giornate difficili. Non solo perché la missione era entrata in un cono d’ombra dal quale sarebbe riemersa solo vicino alle coste pugliesi, ma perché si dovevano definire i dettagli dell’azione senza la sicurezza di poterla compiere. Con tutti i rischi che ciò comportava.
Per prima cosa Simone andò in Svizzera a recuperare le armi. Un venerdì prese il treno per Milano e la coincidenza per Lugano. Annette, la compagna di Zurigo che le aveva in custodia, lo portò in macchina vicino Saint-Moritz, in quel periodo dell’anno piena di suoi connazionali. Recuperarono le armi nel cortile di una vecchia casa e al mattino si mischiarono con i turisti che facevano trekking. I ferri stavano comodamente in due zaini da montagna, tra le maglie e i teli da usare in caso di pioggia. Conoscevano un passaggio pedonale non presidiato e all’imbrunire si ritrovarono in Italia. Li vennero a prendere Antonio e Rosario. Sistemarono gli zaini nel portabagagli della Grande Punto, scesero lungo la statale che conduce a Milano, tagliarono per Novara e raggiunsero Ivrea.
Antonio era alla guida. Rosario, che occupava il posto al suo fianco, avevano una pistola sotto il sedile. In Italia è facile incontrare posti di blocco in strade secondarie, ma solo in certi orari; sulle grandi magistrali sono rari e tra le otto di sera e mezzanotte quasi inesistenti. Riprendono sulle rotte delle discoteche, per i controlli del tasso alcolemico. Seguendo questa logica il viaggio andò bene e prima di mezzanotte erano giunti alla periferia di Ivrea. Svoltarono verso una grande casa isolata dietro al lago di Sirio, abitata da Claudia e Paolo, una coppia con tre figli, e si sistemarono per la notte.
Il mattino seguente Simone, Rosario, Antonio e Claudia riunirono la direzione strategica, mentre Annette e Paolo portarono i bambini a vedere gli struzzi e le api in una fattoria non lontana.
Cominciò a parlare Simone: “Dobbiamo essere pronti tra 21 giorni esatti. Due compagni del Fronte di combattimento hanno svolto sopralluoghi accurati nella zona per capire la parte più vulnerabile. Claudia vi ha già dato ieri sera il rapporto sulla sorveglianza”.
“In tutto serviranno dodici compagni” proseguì Simone, “circa un terzo delle nostre forze. È tanto, ma lo sapevamo. In quattro collocheremo l’esplosivo, mentre gli altri otto serviranno per neutralizzare la sorveglianza e controllare la via di fuga, che è qui”. Simone indicò un percorso sopra una pianta della città.  
“Allora” intervenne Antonio, “la sorveglianza va presa?”.
“Temo di sì”, rispose Simone. “Come potete vedere, ci sono diverse macchine che girano intorno all’edificio. Dai video fatti si ricava la frequenza dei passaggi. Stanno nel rapporto. Avete letto anche la parte che riguarda il grado di attenzione e capacità reattiva delle guardie?”.
“Letta. Ma da cosa è dedotta?” chiese Antonio.
“Età e aspetto. Se hanno la pancia, se fumano, elementi che di cui si è tenuto conto. Dopo il turno di giorno, inoltre, sono stati seguiti tutti: alcuni si ritrovano in un bar e tirano tardi. Bevono. Per noi è una buona cosa. Lavorano una notte e ne riposano tre. Ci sono turni apparentemente messi meglio. Ci organizzeremo per quello ritenuto il meno reattivo”.
“Ma che intendi per prendere le guardie, ucciderle?”, fece Claudia.
“Fermarle”.
“Fermarle. Che vuol dire? Che ce ne stiamo in strada con i mitra spianati e loro con le mani in alto?”
“Più o meno. Il gruppo incaricato blocca la prima auto, fa scendere la sorveglianza, la disarma e la carica su un pulmino con le mani legate dietro la schiena. Fa così con la seconda e con la terza auto. A quel punto piazziamo l’esplosivo, ci mettiamo in sicurezza e lo facciamo detonare”.
“Non lo so. Rischiamo lo scontro a fuoco. Secondo me questa storia della sorveglianza va risolta in un altro modo”, disse ancora Claudia. “Riprendiamo da capo. Quattro di noi devono piazzare la bomba. Due sono di copertura e due lavorano. Non va bene. In un modo o nell’altro, rischiamo la sparatoria”.
“Cosa proponi in alternativa?”, fece Antonio.
“Un’autobomba. Due, se necessario”.
“No”, fece Rosario, che fino a quel momento aveva ascoltato. “L’autobomba può fare una strage. Per ottenere consenso tra gli operai non ci devono essere vittime. Non in questa fase. Politicamente, non le possiamo sostenere”.
“Rosario ha ragione” fece Antonio. “Lasciamo perdere il muro di cinta e piazziamo il plastico dentro l’edificio principale”.
Claudia e Simone guardarono Antonio, ragionando sulle sue parole.
“In che modo?” chiese Simone.
“Dalle fognature. C’è un ingresso a due chilometri”, rispose Rosario, che aveva studiato la cosa con Antonio. “In quel caso non ci dovremmo avvicinare troppo all’obiettivo, ma controllare un raggio minimo, esterno e abbastanza defilato. E serviranno solo due compagni per piazzare l’esplosivo, proprio qui, al centro”.
Tutti guardarono i disegni che nel frattempo Antonio aveva aperto sul tavolo.
“Vedete, il canale principale porta direttamente all’altezza dei bagni. Piazzate la bomba e tornate indietro. La sorveglianza esterna non rischia nulla e faremo più danno. In settimana due compagni hanno avuto l’idea e si sono procurati lo schema. È fattibile”.
Simone ragionò. Guardò Claudia: “Mi sembra buona. Dovremmo scendere e controllare se tutto corrisponde e non ci sono accessi chiusi. Io penso che li incontreremo, ma non sarà un problema, a meno che non abbiano piazzato degli allarmi. Ci andrai tu”, fece rivolto a Claudia, “con Annette e Andrea. Lo facciamo salire da Firenze per il prossimo fine settimana”.
La ragazza annuì.
“Entri da sola. Devi filmare tutto da quando aprite il tombino fin sotto all’obiettivo. Tra due settimane ci riuniamo di nuovo. A quel punto ci saranno anche Luca e Marianthi e sentiremo il loro parere. Quello di Marianthi in particolare, che verrà con me a piazzare l’esplosivo. Lei è un’esperta e ne conosce potenza, detonazione, distanza massima. E decideremo. Però terrei in piedi anche il piano con cui abbiamo cominciato. Non si sa mai”.
“A proposito” chiese Claudia a Rosario, “notizie del viaggio?”.
“Tutto tace, quindi tutto bene. Aspettiamo un segnale con l’ora e il luogo dell’appuntamento. Una barca è ormeggiata sotto Lecce. Li aggancerà quando entreranno nelle nostre acque”.
“Va bene” riprese Simone, “torniamo all’azione. Le auto. Quante ne abbiamo?”
“Per ora nessuna” rispose Rosario, “perché non c’è un posto dove tenerle e lasciarle in strada a lungo è rischioso. Le rubiamo il giorno prima. Ne servono quattro. Abbiamo anche una targa svizzera con il libretto di una Bravo. Con quella porteremo Marianthi a Basilea, dove prenderà l’aereo per Atene. Si imbarcherà nella parte francese dell’aeroporto. Eviterà maggiori controlli”.
“Va bene” fece Simone, “ci aggiorniamo a fra due settimane. Terremo la riunione generale tre giorni prima dell’azione con tutti i compagni coinvolti. Anche se passiamo per il sistema fognario, serviranno comunque dodici persone. Noi quattro, Luca, Marianthi, Annette, Andrea, le due compagne di Torino e due di Genova. Piazzato l’esplosivo, Antonio e Marianthi partiranno per Basilea. Annette e Rosario scenderanno in macchina verso Roma, dove Annette prenderà un aereo per Zurigo. Rosario proseguirà per Lamezia Terme, dove incontrerà Antonio che sarà rientrato da Basilea. Andrea e Luca saliranno ognuno su una Freccia d’argento da Milano, dove li accompagnerai tu” fece a Claudia. “Alla stazione della metropolitana di Abbiategrasso si dividono, uno va in metrò, l’altro in tram. Io mi fermerò per due giorni dalle compagne di Torino e rientro a Roma in treno. I genovesi, che non parteciperanno direttamente all’azione, dovranno recuperare le armi e riportarle in Svizzera dallo stesso passaggio che abbiamo usato noi; Annette dovrà andargli incontro. Approvate?”
Gli altri tre fecero segno di sì. Prese la parola Claudia.
“Fin qui ci siamo. Ora veniamo alla parte dolente, quella politica. Gli italiani non vogliono più sentire parlare di fabbrica. Preferiscono ‘industria’, che fa pensare al made in Italy e non ai turni, alla linea e alla fatica. Noi, con questa azione, vogliamo si ritorni a parlare del lavoro in termini aderenti alla realtà. Il documento di rivendicazione deve essere chiaro e senza premesse ideologiche, che servono solo a farlo definire delirante dai telegiornali. Lo diranno lo stesso, ma cercheremo di costringerli a citarlo. Diremo chi sono i buoni e i cattivi. Molto schematici. E che colpendo lo Straniero proprio in casa sua vogliamo fermare l’avanguardia dell’ennesima ristrutturazione del capitale, che sta mettendo sul lastrico una generazione pur di aumentare una produttività, peraltro già altissima, e fondamentalmente inutile, visto che di macchine se ne vendono meno che in passato. Ci dobbiamo rivolgere agli operai, perché è attraverso loro che stanno passando i principali assetti della ristrutturazione; i quali, una volta consolidatisi in fabbrica, saranno adottati negli altri luoghi di lavoro. La fabbrica oggi non è più un punto di riferimento delle avanguardie, ma il nemico da abbattere. Se vuole tornare a essere un operaio, il lavoratore deve volerne una nuova, diversa da quella integrata modulare creata dello Straniero”.
Claudia si prese il tempo che mancava alla riunione seguente per stilare il comunicato di rivendicazione e portarlo in approvazione.
La mattina stava finendo. Era coperto, ma non sarebbe piovuto. Sciolsero la riunione e andarono in giardino per preparare il pranzo. I bambini sarebbero rientrati affamati e dopo aver preparato la brace misero sulla griglia bistecche, pancetta e pezzi di pollo. Stapparono del vino e apparecchiarono.
I ragazzini precedettero di corsa Annette e Paolo. Erano felici. Il piccolo Marco raccontò subito alla madre degli struzzi enormi che avevano visto, grandi e paurosi. “Ma io non ho avuto paura”, fece. “Maria Laura, invece, non è salita fino al recinto, li ha guardati da lontano”.
“Non è vero” obiettò Maria Laura, “papà mi ha detto che era pericoloso e siamo andati a vedere le api con Michele”
“No, Michele è venuto con me, vero Michi”, ribatté Marco.
“Diglielo tu, papà, che siamo andati a vedere le api e che Marco ha avuto paura che lo pizzicassero”
“Siete stati tutti coraggiosi”, provò a mediare Annette. “Gli struzzi sono grandi, ma le api tante e se ti avvicini troppo si innervosiscono. E Maria Laura ci è andata proprio a due passi, mostrando un coraggio enorme”.
“Dov’è la bici”, fece Marco.
“Niente bici adesso”, rispose Claudia. “Ora vi andate a cambiare, vi lavate le mani e scendete in giardino che si mangia. Potrai andare in bici una volta finito, ma senza allontanarti. Marsch”.
“Tanto”, fece Marco, “Maria Laura usa ancora una rotella perché sennò cade”.
Maria Laura prese il padre per mano ed entrò in casa. Si tolse le scarpe infangate e corse sopra a cambiarsi.
La carne era pronta. Rosario riempì un vassoio e lo mise in tavola. Antonio versò da bere. I bambini erano seduti e Claudia riempì i bicchieri di coca cola, quella che si vende nei discount. Maria Laura aveva portato una bambola e si aspettava i complimenti. Che non mancarono, specialmente da parte di Annette, che la lodò molto. Paolo portò un’insalata e tutti cominciarono a mangiare.
“Chi vuole il pollo”, disse Annette, “mi deve dare quel bacio che ha rifiutato alla fattoria”.
Marco arrossì. Si alzò, esortato dalla mamma, e si avvicinò ad Annette. Lei si chinò e lui la baciò sulla guancia. Gli altri si misero a ridere e Marco tornò al posto con un pezzo di pollo abbrustolito nel piatto. “L’insalata però non la voglio”.
“Se metti l’insalata assieme al pollo viene fuori lo stesso gusto dei fast food, che ti piace tanto”, disse Claudia. “Prova”.
“Solo se la mangiano anche Maria Laura e Michele”
“Io non la voglio”, fece Michele.
“Va bene” intervenne Paolo, “facciamo così. Prima mangiate la carne. Dopo, l’insalata. Due foglie, fate contenti mamma e papà e correte a giocare”.
“Lo sai” fece Maria Laura a Rosario, che gli sedeva vicino, “che a scuola ci hanno fatto studiare Giulio Cesare? Tu lo conosci?”
“Giulio Cesare? Certo, era un dittatore e l’hanno ucciso”.
“Ma era buono. Aveva fatto tante conquiste. Poi erano invidiosi e l’hanno assassinato. Pensa che è stato il figliastro. Dopo tutto il bene che gli aveva fatto”.
Claudia guardò Rosario.
“Hai ragione. Non dovevano coinvolgere il figlio. È una cosa brutta. Che altro avete studiato a scuola?”
“Io” fece Marco, “ho letto la storia dei castelli. Tutti si rifugiavano nei castelli quando arrivavano gli stranieri e si difendevano. La maestra dice che ne sono rimasti tanti anche in Italia. Qui da noi ce ne sono due, ma sono chiusi. Peccato, li volevamo visitare”.
“Questo è un Barolo del ’94”, disse Paolo riempiendo il bicchiere di Annette. “In Svizzera non lo trovi”.
“Certo che lo trovo. Ma costa caro. Dimentichi che siamo pieni di Italiani, e importano tutto”.
“La Svizzera è cara da morire. In realtà un po’ meno ora che c’è l’euro, ma è sempre cara”.
“Prima avevamo la lira”, disse Maria Laura. “La maestra ha portato in classe delle vecchie monete italiane. Dice che ora non ci puoi comprare nulla. Neanche una busta di figurine delle Wings”
“E nemmeno dei Gormiti”, aggiunse Marco.
Claudia si rivolse a Paolo: “Annette resta con noi tre settimane”.
“Che bella notizia”, fece Paolo. “Ci guarderai i nani e noi potremo andare al cinema!”
“A patto che una sera li guardi tu, e io e Claudia andiamo a ballare”
“A ballare? Alla vostra età?”
“Alla mia età”, fece Annette, ma si fermò. “Te lo dico dopo, quando non ci sono i nani”. 
Finito di mangiare Rosario e Antonio ripartirono. La strada per Melfi era lunga e sarebbero arrivati a notte fonda. Senza dormire, sarebbero entrati direttamente in fabbrica per il primo turno. Paolo e i bambini accompagnarono Simone a Torino, dove prese un treno per Roma. E visto che erano in città, entrarono in un cinema dove proiettavano l’ultimo episodio della sagra di Nanja.


Capitolo 6
Il Papagos


Partirono presto, in quattro. Guidava Panayotis, un compagno taciturno che fumava in continuazione e se parlava era per proporre una sosta caffè. Accanto a Panayotis sedeva Michalis, che Luca aveva conosciuto a Patrasso due giorni prima.
Il viaggio durò cinque ore. Passarono Corinto, Sparta, di cui non è rimasto nulla, come dicono le guide turistiche, quindi scesero lungo il terzo piede del Peloponneso. Alcuni tratti di strada costeggiavano il mare, altri, pieni di curve, si inerpicavano per colline brulle. Faceva molto caldo e c’era traffico, rallentato dalla frequente presenza lungo la strada di capre e mucche. A volte Panayotis rischiava un sorpasso, ma spesso si teneva a distanza di sicurezza, lasciando la strada agli altri greci, impazienti di raggiungere la destinazione. Ad Aeropolis, il capoluogo del Mani, si fermarono per un ultimo caffè, che presero nella piazza principale. Quando ripartirono comparvero le prime torri di pietra, che da quel momento non avrebbero più lasciato l’orizzonte. Erano case nuove, ma tirate su alla maniera tradizionale. La loro altezza, un tempo, indicava la fama e alla dignità del clan; ora, il denaro speso. In fondo, era cambiato poco.
Nei pressi di un grande golfo, dove sembrava che finisse il mondo, sorgevano cave di pietra, che era venduta al dettaglio. Luca si ricordò di un viaggio in Puglia, in agosto, dove sotto un caldo torrido aveva visto un uomo così grasso da occupare tutta la cabina di un’Ape carica di pietre e pensò che l’espressione una faccia una razza avesse un fondamento. Il golfo terminò e la strada, costeggiando nuovamente il mare, aprì un nuovo paesaggio. Risalì per un chilometro e condusse all’ultima, ripida discesa verso Porto Caghio, un piccolo villaggio di case basse e torri di tre piani, alberghi per turisti. La strada terminava lì, proprio davanti a una delle torri, diventando sabbia. Parcheggiarono sullo sterrato accanto a due caravan con targa francese e scesero. Porto Caghio sorgeva nella parte orientale di un promontorio, che formava due piccoli golfi speculari. Il golfo che guardava a occidente era pieno di bagnanti, mentre di fronte alle torri la spiaggia era così stretta che ci stava una sola fila di ombrelloni, praticamente a riva. Luca si gettò in acqua, mentre gli altri entrarono in una taverna. Si misero a sedere a un tavolo e ordinarono il pranzo. Quando li raggiunse, si erano uniti altri due greci, che Michalis gli presentò:
“Non ha saputo resistere alla calura il nostro italiano. Questi sono Andonis e Yorgos. E questo è Luca”.
Mangiarono e anche Panayotis finalmente si rilassò, ridendo assieme agli altri. Marianthi ogni tanto traduceva, ma la conversazione era banale e Luca troppo stanco per seguirla. Alla fine del pranzo si alzarono e si avviarono verso una delle torri. Salutarono un anziano ed entrarono in una stanza al piano terra. Accesero il condizionatore e chiusero la porta. Nuotando tra le barche ormeggiate, Luca aveva cercato quella con cui sarebbero partiti, ma non gli sembrò di vederne nessuna in grado di affrontare un viaggio in mare aperto. Solo vecchi scafi da diporto.
“La barca” disse Andonis, “è ormeggiata alla fine del golfo, dall’altra parte della costa. La raggiungeremo con un gommone. Abbiamo caricato i vestiti per Luca e le giacche a vento. Che esperienze hai di mare?”
“So portare un gommone”, rispose Luca.
“Niente vela?”
“No”.
“Imparerai, se serve. Le previsioni per i prossimi giorni sono buone, quindi non dovremmo avere problemi. Ci sono due cabine. Tu e Marianthi dormirete in una, io e Yorgos nell’altra. Ci fermeremo al tramonto e ripartiremo all’alba”. Aprì sul tavolo una carta nautica e segnò il percorso con il dito. “Ora siamo qui. Domani mattina alle sei ci dirigiamo verso quest’isola, Kithira; la doppiamo e raggiungiamo la seguente, Antikithira, dove passeremo la notte. Martedì ripartiremo per Creta e a Chanià ci fermeremo per la seconda notte. Da lì abbiamo due giorni per arrivare al nostro porto, all’estremo opposto dell’isola, Agios Nikolaos. Ricordatevi che siete dei turisti” fece a Luca e Marianthi. “Avete affittato una barca con skipper e la sera, quando saremo in porto, voi scenderete a mangiare in un ristorante; io e Yorgos rimarremo sulla barca”. Si rivolse a Panayotis e Michalis: “Potete restare per la notte, oppure ripartire, vedete voi. Dal momento che ci lasciamo non ci saranno più comunicazioni fino alla consegna del dono in Italia. Allora vi manderemo un segnale radio. I compagni che controlleranno la rotta”, fece rivolto a Luca, “interromperanno il silenzio radio solo per avvertici in codice della presenza della guardia costiera”. 
Gli autisti decisero di partire e tutti uscirono. Luca strinse loro le mani e li ringraziò. Panayotis lo guardò e in greco gli augurò buona fortuna. Andonis e Yorgos andarono via con loro, perché di strada abitava il compagno che al mattino li avrebbe portati alla barca. Luca e Marianthi, rimasti soli, rientrarono in camera per ripararsi dal sole. Si stesero sul letto, uno accanto all’altra, ma Luca era impaziente:
“Visto che siamo turisti” disse, “cambiati e andiamo in spiaggia”.
Marianthi era indecisa, ma alla fine accettò. Trovarono un ombrellone libero con due lettini. Provarono a intavolare un discorso sulla famiglia, ma vinto dal sonno Luca si addormentò. Quando si svegliò, Marianthi non c’era. Guardò in acqua, quindi verso la taverna. Attese qualche istante e si addormentò di nuovo. La ragazza lo svegliò un’ora più tardi. Andonis e Yorgos stavano ormeggiando il gommone. Con loro c’era una terza persona, che restò sullo scafo a fare qualcosa prima di scendere in mare e raggiungere la riva a nuoto. Erano le sette di sera. Il sole si era spostato e Luca si sentiva scottare un fianco.
“Devo aver dormito tutto il pomeriggio”
“Non sei stato di grande compagnia”, rispose Marianthi.
“Ho raccolto le forze per domani”
Marianthi sorrise e gli fece cenno di alzarsi. Dopo essersi presentati con il terzo compagno, che si chiamava Yorgos anche lui, tornarono in stanza e si vestirono per la cena, che consumarono alla stessa taverna del pranzo. Andarono a dormire sotto un cielo nero e pieno di stelle, come doveva essere quello che un tempo si vedeva in ogni parte di questo mondo, quando non c’erano le luci della città.
***

Marianthi e Luca si alzarono alle cinque e poco dopo uscirono. Andonis e i due Yorgos li stavano aspettando. Salirono in fretta sul gommone e con il motore al minimo raggiunsero la barca. Era una vecchia barca a vela di dodici metri rimessa a nuovo che batteva bandiera greca e si chiamava Papagos. “È il nome del generale che guidò la resistenza all’invasione italiana del 1940”, disse Andonis. Yorgos li salutò e si allontanò. Tolsero gli ormeggi, accesero il motore e richiamarono le ancore. Lasciarono Porto Caghio e virarono verso il mare aperto.
L’Egeo è un mare ventoso, non si tratta di una leggenda. La linea ideale di confine con l’Adriatico corre lungo il primo piede del Peloponneso e si racconta, ma questa è una leggenda, che ci sia un dislivello di qualche centimetro quando si passa dall’altra parte. Il fatto è che lì si nasconde una secca di pochi metri che nel corso dei secoli ha provocato centinaia di naufragi. “Al ritorno, quando ci dirigeremo verso Cefalonia e ci passeremo vicino, vi farò vedere il punto esatto”, disse Andonis, di ottimo umore. Ogni tanto indicava qualcosa sulla superficie del mare, un branco di tonni, delfini e altri pesci che Luca non sempre riusciva a distinguere. Doppiarono Kithira e proseguirono per Antikithira, dove giunsero verso il pomeriggio. Gettarono l’ancora in una baia, si fecero il bagno assieme ad altri velisti e ripresero la rotta per un porticciolo. Yorgos scese sulla banchina per ormeggiare la barca mentre il sole stava tramontando. Marianthi, che era stanca, invitò Luca a cambiarsi per andare al ristorante al più presto.
“Me l’ero dimenticato. Faccio subito”
Salirono una scalinata di fronte al porto e trovarono una taverna che guardava il mare. Ordinarono polpo alla brace, formaggio fuso e due insalate.
“Ti va del vino” chiese Luca?
“Rosso”.
Lo portarono freddo in una brocca di rame che sembrava coperta di rugiada. Andava giù veloce e forse era troppo rispetto al cibo.
“Hai fratelli?” chiese Luca.
“No. I miei non hanno potuto avere altri figli dopo di me”.
“Cosa fanno i tuoi?”
“Mio padre è un pittore, mia madre sta a casa. Non li vedo mai. Abitano a Salonicco. Una volta all’anno sento la mamma per sapere come sta. Parlo solo con lei. Con mio padre non riesco”.
“E Spiro? Non lo hanno visto”
“No. A dire il vero, non volevo neanche dirglielo. Mi ha convinto Aristotilis. Non sono scesi, e noi non siamo saliti”.
“Potevate incontrarvi a metà strada” fece Luca, ma si morse la lingua.
Marianthi si accorse del suo imbarazzo: “Forse hai ragione, potevamo. Ma la vita è complicata”.
“Quindi sei di Salonicco? Come si dice, tessalonicense?”
“Già. Ho fatto lì le scuole e a diciassette anni sono partita per Atene. Ho girato un po’ l’Europa, sono stata in Italia, come ti ho detto, a Bologna, dove ho provato a fare l’università. Alla fine mi sono ritrovata in un campo di addestramento in Libano. Dopo i fatti di Genova”.
“Eri a Genova?”
“Sì. Con quelli che chiamano black-blok. Gli anarchici. Non è vero che nessuno ci ha fermati, come hanno scritto. Ci cercavano per tutta la città, ma noi eravamo organizzati e ci muovevamo velocemente. Allora sono andati su quelli che non avevano fatto quasi niente, l’obiettivo più facile. Noi dormivamo sparsi, divisi in piccoli gruppi. Sempre in comunicazione attraverso i cellulari, in codice e in tutte le lingue del mondo. Anche se ci intercettavano, cosa avrebbero capito? Io vivo per camminare sulla testa dei re. Mi nutro di questa speranza. E per farlo si deve oltrepassare il confine”.
Lo guardò seria. “Non stai per farlo anche tu? Io, te e gli altri compagni italiani stiamo per mettere una bomba e distruggeremo qualcosa. Qualcosa di importante. E magari ci saranno dei morti. E poi? Tu che penserai, dopo? Quanti piangeranno? Vorrei essere con loro e chiedergli cosa vedono al di là del pianto. Tu lo sai, Luca?”.
“No. E vorrei non saperlo. È un fatto politico, non personale. Per questo non capisco il vittimismo ora in voga in Italia. Non mi riferisco solo alla lotta armata. Sembra che il Ventesimo secolo sia stato solo il secolo delle vittime. Dei buoni, dei giusti. Gli altri, tutti da escludere dal racconto, o al più da includere come carnefici. Mi fa schifo la storia raccontata in questo modo. Non ho ancora letto una costituzione che non sia stata scritta con il sangue. Il sangue c’è sempre stato. Ha segnato le svolte”.
“Loro sostengono che è sangue innocente”
“Può esserlo stato, in alcuni casi. Ma il più delle volte si è trattato di scelte. Scelte politiche. O da una parte, o dall’altra. Il carnefice poteva essere la vittima. Se così non fosse, non si spiega la banalità del male, che molti citano anche a sproposito. Se il male è davvero così banale, allora chiunque può commetterlo. Una questione di tempi, di opportunità. E comunque la testa al re l’hanno tagliata più di duecento anni fa”.
Luca offrì una sigaretta a Marianthi. Aveva tante domande ancora da farle, sul campo d’addestramento, su Spiro, sulla sua militanza. Ma tacque. Fumò e chiese il conto.
Al ritorno videro che Andonis e Yorgos avevano fatto amicizia con lo skipper della barca ormeggiata accanto. Stavano bevendo dell’ouzo insieme ma come salirono in barca lo skipper salutò e tornò sulla sua. Scesero in coperta e Luca, spostando una borsa, trovò una scacchiera. Salì di corsa e chiese di chi fosse. Erano mesi che giocava a scacchi contro il computer e voleva provare, finalmente, con un essere umano. Si fece avanti Yorgos e lo invitò a sedersi.
Luca era elettrizzato. Il greco versò dell’ouzo, sistemò i pezzi e attese la prima mossa. Luca aprì con il pedone della regina. Yorgos rispose con quello dell’alfiere. Luca mandò avanti il pedone del re e la partita si sviluppò su linee centrali, finché Luca non riuscì a mangiare una torre. Yorgos lo guardò e versò altro ouzo. Entrambi avevano perso quattro pedoni, ma i pezzi di Luca controllavano la maggior parte del quadrato, mentre quelli di Yorgos erano ammucchiati sulla destra. Quando Luca prese anche la seconda torre, Andonis si fece una risata e disse qualcosa in greco. Marianthi era salita sul ponte e li guardava. Versò dell’ouzo e si sedette con Andonis. Lo scacco matto giunse alla ventiseiesima mossa e Yorgos non fece una piega. Girò la scacchiera e aprì di cavallo. Con i bianchi resistette di più, ma alla sessantaquattresima mossa si ritrovò solo con il re contro due regine e abbandonò. Andonis e Marianthi si erano allontanati e parlavano. Yorgos e Luca provarono ad alzarsi, ma ormai erano ubriachi. Si guardarono e versarono altro ouzo.
“Può bastare”, intervenne Andonis. Prese Yorgos e lo aiutò a scendere in coperta. Fece lo stesso con Luca, che tentava di avviare un discorso un po’ sconnesso con Marianthi. Si ritrovò in cuccetta, con la testa pesante e la ragazza che si toglieva i pantaloni per la notte. Fu il suo ultimo ricordo.  
L’indomani partirono verso le 9. Il mozzo e il nocchiero, come li aveva chiamati Marianthi, erano molto abili. Le vele prendevano subito il vento e la barca correva via veloce. Ogni tanto incrociavano altre barche, che salutavano. Verso mezzogiorno Andonis provò a pescare. Gettò a poppa il filo con l’amo e chiese a Luca di tenerlo. Fece una manovra e rallentò lo scafo. Proseguivano lentamente e Luca osservava il mare, speranzoso. Non abboccava niente. Marianthi era in piedi vicino a lui. L’orizzonte sembrava tagliarle il volto. Un orizzonte retto, limpido, chiaro. Forse fu quello il momento in cui Luca si innamorò.
Da quando aveva perso Ol’ga era rimasto in balia dei sentimenti. Alcune donne lo avevano attratto, anche molto, ma la compagna scomparsa era troppo presente e ciò lo irrigidiva. Aveva avuto comportamenti strani, scatti d’ira che amplificava volutamente e che finivano per farlo sembrare un pazzo. Lui ne era allo stesso tempo contento e dispiaciuto, e la vita andava avanti. Solo a Vienna stava per lasciarsi andare con la ragazza di Belgrado, ma anche lì, alla fine, rovinò tutto e la perse. Aveva capito che quello era un modo per punirsi.
Con Marianthi era diverso. Era per via del seno? Anche quello di Ol’ga era bello, ma lei una volta gli aveva detto “attento, che quello che oggi sta in piedi un giorno potrebbe cadere”. Sapeva chiaramente dove cercare l’origine di questa sua fissazione. Era stato tanto tempo prima, quando i genitori lo avevano portato a fare una passeggiata lungo un fiume. Durante la sosta per il pranzo, la madre di un altro bambino che era con loro si tolse la camicia e restò in reggiseno. Era nero, diafano, e mostrava chiaramente i capezzoli scuri di quelle tette così grandi. Luca non ebbe la forza di voltare lo sguardo e la sera fu rimproverato dalla mamma. Ne era ancora condizionato e un giorno decise di affrontare la cosa come si trattasse di una malattia. Ma, nonostante gli sforzi, non era ancora guarito.
Comunque non era solo il seno di Marianthi ad attrarlo, ne era certo. Aveva qualcosa che non riusciva a focalizzare. Come se recitasse a teatro, davanti a un pubblico, ma solo per nascondere le quinte, dove custodiva la sua vera essenza. Di quella, di cui intuiva l’intensità, si stava innamorando.
Giunsero nel porto di Chanià poco prima del tramonto. Marianthi e Luca fecero un giro, mangiarono in un locale e tornarono al Papagos. Luca batté nuovamente due volte Yorgos e poi scomparve in coperta con Marianthi. Aprì una piccola bottiglia di ouzo che aveva comprato in uno spaccio e versò da bere.
“Brindiamo alla nostra missione”
I bicchieri di plastica si toccarono e Luca sfiorò la mano di Marianthi. Lei mandò giù l’ouzo d’un sorso e ne prese ancora. Come se durante il giorno avesse letto i pensieri di Luca, gli disse:
“Facciamo parte di una scena. Siamo sempre sulla scena, anche adesso, io e te, in questo istante. Svolgiamo il nostro ruolo con dedizione. In omaggio a qualcuno che ci ha messo qui”
“In omaggio, o in memoria di qualcuno?” chiese Luca. “La nostra è una società violenta. Secondo me siamo qui in memoria di qualcuno. Tutti abbiamo almeno un morto alle nostre spalle. Magari i miei sono un po’ troppi” fece patetico. Si fermò. Gli venne in aiuto Marianthi: “A cosa ti aggrappi quando ti accorgi che la Storia è crudele con il mondo?”
“A qualcosa di banale”
“Come a un salvagente, se questa barca dovesse affondare?”
“Sì”
“E non pensi che nella notte senza fine in cui ci hanno ridotto, i salvagente non si vedono?”
“No. Non ho paura del buio. Mi fa più paura la luce del giorno. È quella che ci ha reso schiavi. Solo le venature del giorno sono peste di sangue. Da noi, in Italia, gli arresti li fanno sempre all’alba, come un tempo impiccavano la gente”.
“Non ti senti mai come su un tavolo anatomico, con la pelle fredda su quella striscia di metallo e un bisturi sta per incidere il tuo stomaco, la gola, infine la fronte, per rovesciarti il cuoio dei capelli e lasciare che l’aria penetri nel tuo cervello?” Marianthi guardò fuori attraverso il vetro tondo della cabina. “Io mi ci sento spesso, smarrita in mezzo a tutte queste stagioni che si sovrappongono così velocemente da sembrare impalpabili, inesistenti”.
“Il tempo è malato di disordine” rispose Luca. “Ti costringe a scegliere costantemente come curarlo”. Si versò un altro bicchiere e le si fece più vicino.
“Per quanto tempo voi greci avete cercato di raggiungere il Bosforo, senza successo? Lo ritrovo nei tuoi occhi quel mare così duro, teso e nero come la notte di cui parlavi. Conosci i cinque colori?”
“Quali?”
“Quello di una conchiglia vuota, del centro della tua dorsale, di un uomo che non segue la tradizione, del corallo che abbiamo visto in Egitto e della testa smisurata dello spazio”
“Non ti capisco”, fece Marianthi. 
“Io sono cresciuto con mia nonna. Ho perso i genitori quando non ero nemmeno un adolescente e se non guardassi le loro foto, li avrei già dimenticati. Mi ha cresciuto, mi ha dato tutto quello che aveva. Eppure, gli ultimi anni li ha trascorsi da sola, seduta in cucina, perché io ero in Russia. La mattina guardava il sole, il pomeriggio guardava la sera. Avrebbe potuto mangiare per giorni pane inzuppato nell’acqua e zucchero e qualche patata. Come se la guerra non fosse mai finita. Forse teneva viva la speranza che tutto dovesse ancora cominciare, e che non avesse ancora perso il figlio e la nuora. Per farle compagnia le comprai un gatto. Lo chiamava Ciociò. Quando la faceva arrabbiare il suo nome si trasformava in Cioccia. Vattene sa, gli diceva, mo’ te pisto. E Ciociò scappava come un missile. Per questo non riusciva a prenderlo. Quando tornava, le si sedeva sopra le ginocchia, nell’ombra della cucina. Mia nonna lo accarezzava aspettando l’ora di cena, guardava un po’ di televisione e se ne andava a letto. Ogni giorno appiccicato all’altro, identico e assurdo. A Roma uscivo il minimo indispensabile, per recuperare il tempo nel quale ero mancato. Ma la persi. Oggi so che potevo fare di più, molto di più. A volte, mi capita sempre più spesso, la notte non prendo sonno; è come se dal cielo arrugginito piovesse sempre della polvere sottile che blocca lo scorrere del tempo. Ne cambia l’essenza. Il centro della tua dorsale lo immagino come una conchiglia vuota. Di quelle che ci ascolti il mare. Entra il vento, improvviso, ammanetta i morti e li porta via. Resta solo il corallo. Che non serve più a niente. Una volta Ol’ga, che era molto inquieta, urlò che il mio volto era desolato come le spiagge sporche d’inverno, come il luogo orrido e dimenticato dove uccisero Pasolini: Tu – mi disse – anima vaga e approssimata, grande opera incompiuta che costruisce la vita quasi fosse un meccano”.
Marianthi lo toccò: “Ti proteggerò. Ti restituirò quello che ti inquieta”.
Lo baciò. Si tolse la maglia e si abbandonò, incurante che Andonis e Yorgos potessero sentirli.
Si amarono come fossero stati insieme tanto tempo prima, come si fossero ritrovati adulti dopo un folle amore adolescenziale. Luca si perse in quei seni che tanto aveva sognato, tra le sue gambe e sulle onde profonde di quella pelle colore del Bosforo. Sudato, si tolse e la guardò negli occhi.
“Sento la vita stringermi e stringo forte anche io”, disse Marianthi. “Ma non si lascia serrare. Mi sfugge, come l’autunno che perde le sue foglie”.
Luca non rispose. Fece cenno di no con la testa, che questa volta non si sarebbero persi, e l’amò di nuovo.
Quando si addormentarono sognò Yorgos che stringeva un kalashinov sotto l’avambraccio e applaudiva ritmicamente. Il rumore solitario delle sue mani si scontrava contro la prua del Papagos e nel silenzio di Porto Caghio si sentiva un’eco metallica che esorcizzava la paura per il futuro e la quasi certezza che tutti avevano di uscire sconfitti. Una luce radente cadde sul suo volto e Luca si svegliò. Marianthi era distesa su un fianco. Era ancora buio, ma si sentiva il rumore di una barca in manovra. La luce illuminò di nuovo la cabina e Luca restò immobile a osservare la ragazza, fino a quando non ritornò l’oscurità.
Al mattino, Andonis e Yorgos tennero un comportamento dignitoso. L’avevano capito dal primo momento che sarebbe andata in quel modo ed erano sorpresi del ritardo con cui si erano realizzate le loro previsioni. Mentre fumavano tutti assieme, navigando lentamente lungo la costa, Andonis chiese a Marianthi cosa sarebbe accaduto ad Agios Nikolaos.
“Non lo so bene. Hanno detto che ci trovano loro. Dobbiamo portare la barca in porto e aspettare”.
“Bene. Siamo in anticipo di un giorno. Ci riposeremo”.




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