MARSA ALAM |
Il dono
Prologo
Prima di entrare nella ressa della vita, Ol’ga aveva
trascorso due giorni a contare i nei sul suo corpo. Aveva scoperto di averne un
numero talmente alto, da segnarli accuratamente in un quaderno dalla copertina
blu, per non rischiare, in futuro, di confonderli con semplici bolle:
sotto
il mio vestitino di jersey sono nati tre nei lungo la linea naso-commessura
labiale, uno nel solco sottonasale, due nei pressi della fossetta del mento,
uno sul lobo dell’orecchio sinistro, uno su quello dell’orecchio destro
[attenzione a quando lo bucherai] direi quindici tra spalle e seno, attorno ai
capezzoli niente, qualcosa sulla fossa iliaca, uno per l’ombelico, ventitré tra
ipogastrio e pube e dodici sulle natiche. Le cosce e i piedi ne ospitano solo
quattro, ma uno, il più bello, si trova appena dietro il mignolo del destro.
Ol’ga,
però, era morta presto e non c’era stato futuro. Aveva lasciato un padre, una
madre, una sorella gemella e un moroso, Luca. La morte era sopraggiunta
improvvisa; una di quelle malattie che neanche i medici sanno definire in modo
appropriato e parlano di qualcosa fulminante. Fu tutto così rapido, che Luca
non la vide morire. Tornò a Pietroburgo che Ol’ga era già cenere. Pianse a
lungo con i genitori di lei, tentò senza successo di contattare la sorella,
Miriam, che da tempo abitava a Mosca nella casa di uno scrittore capo di un
partito fuorilegge, poi attese. Quando il tempo fu maturo, partì per l’Italia.
Capitolo 1
La Tigre
Lo stabilimento Fiat di San Nicola, 18 chilometri da
Melfi, provincia di Potenza, è una Tigre. 7000 addetti si muovono dentro due
milioni di metri quadrati e producono ogni anno 450.000 auto. L’eccellenza
mondiale della fabbrica postfordista.
Una Punto Evo, millequattro di cilindrata, 105 cavalli, rosso Ferrari, è stata la
cinquemilionesima auto uscita dallo stabilimento. Era un 17 di maggio e i
vertici del Lingotto avevano preparato con cura l’evento. Invitarono i notabili
locali, i professori universitari della vicina Calabria che, entusiasti, promisero
una laurea ad honorem, e installarono una mostra fotografica. Riproduceva nel
dettaglio pezzi delle auto prodotte nei quasi venti anni precedenti.
In realtà lo stabilimento si chiama Società
Automobilistica Tecnologie Avanzate, SATA. È l’evoluzione della fabbrica ad
Alta Automazione, il superamento del modello classico di Ford. La fabbrica
modulare integrata. Il business ha
cambiato la faccia della Tigre, le ha modellato le unghie e rifinito i denti.
Perché il mercato vuole qualità, prezzi bassi e tempi contenuti. La vecchia
fabbrica è morta e il postfordismo non è solo produzione.
È vita nuova. Certificata da premi internazionali di
cui Melfi è orgogliosa, riconoscimenti a livello mondiale per l’organizzazione
del ciclo produttivo, la logistica e la riduzione dei costi. Produzione snella,
integrazione delle funzioni e dei compiti, decentramento del potere
decisionale, maggiore controllo sugli operai e accorciamento della catena
gerarchica. La modulazione permette maggiore varietà del prodotto finale e
riduce la complessità produttiva grazie alla minore quantità di parti da
assemblare. Operazioni semplici. Tempi misurati. Meritocrazia. Ingegneria
sociale. Spaccarono, allora, la solidarietà operaia, e la fabbrica smise di
essere considerata un elemento identitario. La Tigre ha dilaniato il passato, e
il passato è passato. Si è portata via anche il padrone, che oggi non sai più
chi è. Prima c’erano i Falck, i Pirelli, gli Agnelli. Oggi sono pacchetti
azionari e cognomi stranieri.
La globalizzazione ha annullato i confini. La Tigre ha
sbranato la vecchia fabbrica e ne ha lasciato la carcassa in mezzo a un prato.
Due milioni di metri quadrati dove entrano fornitori, dealer, nuove imprese e nuovi ricchi che decidono ogni cosa.
Scopano in mezzo a quel prato e tutto è organizzato come un grande partito
comunista, l’Internazionale integrata modulare.
“A me sembra tutto uguale a prima”, fece Antonio
masticando il pane al volante della sua Punto nel parcheggio di Melfi. “La produzione non è rimasta
di massa? L’efficienza dell’operaio non è richiesta come prima? E i costi?
Anche a quelli ci stavano attenti”.
“No. Non è come prima”, rispose Rosario, che gli
sedeva accanto. “Oggi sei qui, dove c’è il lavoro. Domani sei ancora qui, ma il
lavoro l’hanno spostato altrove. Dove costa meno. E se gli va, ancora oltre,
dove costa quasi nulla. Per poi tornare indietro da te, che sei un miserabile,
uno pronto a venderti per qualsiasi prezzo. Non sei più della Pirelli. Non sei
più della Falck. Non sei della Breda. Non appartieni a nessuno. Sei un pezzo
del mercato. Forza lavoro sottopagata. A tempo determinato. Laico. Atipico.
Flessibile”.
“Un tempo vedevi l’acciaio fondersi”, proseguì
Rosario, “e i forni non si fermavano mai. Ogni tanto, per pulirli, per cambiare
le pietre refrattarie. Lavoravi due ore e una riposavi. Laminavi l’acciaio
inossidabile, e non era un’operazione facile, dovevi essere esperto. Ma quando
il lavoro era ben fatto e riusciva, che gioia ti dava. Però, se sbagliavi, ti
portava via le gambe. O la vita. Perché la fabbrica era la vita, era lì che
veniva fuori il salario, ed era lì che si facevano le lotte per i diritti.
C’era un cuore, prima. E ogni acciaieria aveva un sistema diverso di colaggio,
per cui potevi sempre risalire al produttore di un qualsiasi pezzo: la Thyssen,
l’Ilva, la Falck”.
Rosario aveva la sua ragione. Giorgio Falck era uno
fatto così: la notte scendeva nei reparti e andava a parlare con gli operai,
magari mangiava con loro durante la pausa. E gli operai abitavano al villaggio
Falck, o al villaggio della Marelli, o a quello della Breda. Poi si facevano le
tavolate di natale, con l’uvetta e il vino, a damigiane. E magari si cucinava
direttamente nel reparto.
“Te lo lasciavano fare”, concluse Rosario.
Rosario si sforzava, ma non è facile risalire alla
nascita della Tigre, perché i passaggi erano stati tanti. Forse le
specializzazioni fecero tagliare una serie di attività. Ma gli esuberi, quelli
furono il vero elemento di rottura. La cassa integrazione, che oggi è routine,
prima era vissuta con vergogna. Gli operai si vergognavano a stare a casa e
uscivano come se dovessero fare il turno. Perché non avevano il coraggio di
dirlo in famiglia e non si volevano fare vedere al bar assieme a quelli che non
avevano voglia di lavorare.
“La dismissione degli impianti”, riprese Rosario, “fu
il passo successivo. E l’hanno pure dovuta curare gli operai che prima ci
lavoravano. Hanno tolto alle macchine la pelle, il fegato e le budella. Come un
tumore che ti mangia dentro, hanno spolpato vivo il lavoro e dieci anni fa,
mentre nasceva Melfi, questa cosa qui che abbiamo di fronte, al Nord non hanno
lasciato che gli scheletri”. Tacque, poi riprese.
“Eppure, sono tutti lì. Li hai visti alle primarie di
Torino. Le prime file piene di notabili per il signor Filùra. Mentre tiravano
fuori dal contratto nazionale i nostri colleghi, che non avranno presto neanche
una rappresentazione sindacale, il signor Filùra raccontava di essersi speso
per il sì al referendum. Perché, ha detto, la crisi ha cambiato la fabbrica e poi
stronzate sulla responsabilità della Fiat per i lavoratori che hanno votato
contro. I servi e gli uomini”
Antonio finì il panino e mise in moto. “Come
cazzo si fa a votare sì in lastratura e verniciatura? Solo se sei diventato un
servo puoi votare insieme agli impiegati. Siamo lavoratori anche noi, hanno
detto. Certo, che cambia se invece di tre pezzi ne devono tirare fuori quattro
nello stesso tempo? L’impiegato deve solo modificare la cifra con la penna. Ma
a te che il pezzo lo devi preparare, tu che fai il turno di notte, come fai a
votare assieme a loro?”
“Sai quale è la cosa più
sorprendente? Che tutti quelli che in altri tempi urlavano, in coro, "non
bisogna cedere al ricatto", agli operai di Mirafiori hanno consigliato di
cedere”.
Fuori era buio e mentre lasciarono il parcheggio
sentirono gli occhi della Tigre dietro la schiena.
Capitolo 2
Il Fronte della controrivoluzione
Non appena Luca ebbe finito di dare di stomaco, tirò
lo sciacquone e rientrò nello studio. La sera prima aveva bevuto troppo ed era
stato male. Ora la nausea si stava dissolvendo e il terminale lucido che aveva
davanti agli occhi non gli sembrava più così accecante, come qualche momento
prima. Le carte sulla scrivania gli davano maggiore pena. Composti, di fronte a
lui, gli articoli di giornale raccolti dagli altri membri del Fronte della
controrivoluzione riguardavano tanti argomenti ed era difficile trovare il
punto di cesura in quel vasto mondo dell’alta finanza che il piccolo gruppo
armato, del quale Luca faceva parte, aveva deciso di attaccare. Siamo sempre
impegnati a riempire gli spazi vuoti, si diceva, mentre la terminologia del
vittimismo si sarebbe presto arricchita di nuove parole. Le vedeva già
volteggiare nell’aria. Ci sperava.
Cercò di
concentrarsi. Spiegò altri fogli, li pose accanto ai pezzi già pronti e
cominciò a fotografarli. L’Ipod suonava un brano di Vladimir Visockij, un
artista morto nel 1980 nel pieno della festa per le Olimpiadi di Mosca. Gli
tornarono alla mente i racconti degli amici di Pietroburgo, che da bambini
passavano le ore davanti al televisore per vedere un famoso sceneggiato, nel
quale Visockij recitava la parte di un investigatore. Trascorse così qualche
istante, sognando e tamburellando ritmicamente con la mano, quando arrivò una
email. Guardò l’ora d’invio e ne ricavò il giorno dell’appuntamento. Ogni
giorno era già associato a un luogo: doveva recarsi l’indomani in un parco
romano a fare jogging, alle 14.
A forza di
sciogliere con dolcezza i fili delle cuffie e dei carica batteria dei suoi
apparecchi digitali, che dentro lo zaino si intrecciavano invariabilmente,
aveva imparato ad essere delicato con le mani. Ciò aveva aumentato la sua
abilità con la macchina fotografica. Con cautela riprese la Canon e continuò
l’archiviazione degli articoli. Finiti gli scatti, estrasse dall’apparecchio la
minicard, la inserì nel computer e ricopiò le foto sul disco fisso. Collegò
l’Iphone e lo sincronizzò. Il materiale sarebbe presto finito nell’archivio
dell’organizzazione, un Ipad gestito dalla direzione strategica, tenuto sempre
scollegato dalla rete.
Staccò tutto,
prese un bicchiere e una bottiglia dallo sportello della scrivania, si versò
del vino e lo bevve d’un sorso.
Luca era un
precario. Altamente specializzato, passato con una certa dose di fortuna dalla
scuola all’università, dove insegnava lingua e letteratura russa: a contratto,
senza certezza di stabilizzazione. Il lavoro gli piaceva, anche se sottopagato
rispetto ai colleghi di ruolo. Prendeva 2.500 euro netti ogni trenta ore di
lezione. Teneva tre corsi e metteva insieme 7.500 euro l’anno, che arrotondava
con traduzioni, lezioni private e i rimborsi per le ricerche all’estero.
I suoi amici del
muretto lo chiamavano “il professore” già negli anni Ottanta, perché era stato
l’unico a continuare gli studi. Tutti avevano un soprannome: Gattone, Puma,
Mezzagallina, Muflone, Babba, Varechina. Di tanto in tanto si facevano un
appartamento. In due occasioni Mezzagallina, il palo, sempre sconvolto
dall’effetto dell’hashish, si era allontanato a cercare non si sa bene cosa e
avevano dovuto picchiare i proprietari. Sebbene si definissero comunisti,
rappresentavano il sottoproletariato urbano più reazionario e alla fine quasi
tutti entrarono nelle forze armate, chi in marina, chi nell’esercito, chi nella
guardia di finanza e chi nei carabinieri. Tutti, tranne Mezzagallina, che
comprò un taxi.
All’epoca del muretto nessuno era stato
all’estero e la partenza di Luca per la Russia diede un senso al suo
soprannome: avrebbe davvero fatto il professore, dissero gli amici. Tornava a
Roma di tanto in tanto, soprattuto nei mesi estivi e quando aveva portato Ol’ga
con sé, il muretto la chiuse intorno: «E da dove vieni e come ti chiami e
quanto ti fermi e come sei bella», le dicevano in coro. Tutto trafelato giunse
anche Gattone che, saputa la notizia, si era preso il pomeriggio alla pompa di
benzina dove lavorava. Era caldo, un luglio rosso, romano. Gattone fece la sua
risatina sinistra per richiamare l’attenzione e gli altri, a malincuore, si
staccarono da Ol’ga. Egli baciò quella che sembrava una sposa e raccontò la sua
nuova scoperta: l’onanismo fatto con due bistecche. Era meglio che andare con
le prostitute e rideva come un isterico dandosi manate in fronte e farfugliando
«ma guarda che scemo che sono stato, pensa i soldi che ho buttato, mi potevo
comprare due fettine al giorno, giocarci un po’ e farmele alla griglia invece
di dare tutti quei soldi alle mignotte». Ol’ga non capiva le ragioni di quel
baccano e Luca fece una certa fatica a spiegargliele. Insomma, doveva anche
inquadrare antropologicamente il Gattone, altrimenti lei avrebbe frainteso. E
in qualche modo ci riuscì.
Lo Straniero,
con la maiuscola, era il nome che l’organizzazione aveva dato al nuovo capo
carismatico del sistema produttivo italiano. Anche lui aveva un soprannome, ma
non era innocuo come gli amici del muretto, pensava Luca. Invece di svaligiare
appartamenti, toglieva diritti ai lavoratori e aveva già spaccato la classe
operaia attraverso continue forzature, favorite da un governo compiacente e da
un’opposizione più che liquida. Era l’obiettivo che l’organizzazione sognava,
ma raggiungerlo, credeva Luca, andava oltre le forze, se paragonate ai mezzi in
mano allo Stato. Genova aveva rappresentato l’inizio di una nuova epoca: la
repressione era cresciuta per la volontà politica di centrodestra e
centrosinistra, in questo uniti, di aprire la strada a un’ulteriore svolta nel
processo di globalizzazione del capitale, quella della competitività a livello
mondiale. Che significava, aumento della produzione e livellamento dei diritti
dei lavoratori in linea con quelli cinesi o indiani. Non avevano ancora
imparato la lezione di Nietsche, per il quale tutti gli imperi non sono che
sciocchezze e Bismarck, il grande cancelliere che aveva unito la Germania, non
aveva fatto altro che regalarne al mondo una nuova.
Il vino stava
nuovamente confondendo i pensieri di Luca: il passato, con Ol’ga e i nomi dei
suoi vecchi amici, scomparve in un sonno profondo e senza immagini. Si svegliò
che fuori era buio e di fronte a lui c’era solo il presente. Un treno senza
macchinista.
***
Le vie di Roma
sono di ferro e impediscono il contatto tra gli uomini. Questo pensava Luca e
ciò lo aiutava negli incontri con gli altri militanti. Che si svolgevano
secondo precise norme di sicurezza: si parlava d’altro, mentre le informazioni
venivano scambiate in forma scritta, su fogli immediatamente distrutti.
La procedura,
macchinosa ma efficace, non era necessaria correndo in un parco. Molti parlano
correndo. Anzi, spesso si corre proprio per dire due parole durante la pausa
pranzo. Si raccontano le cose più sconce, o si parla di calcio. Luca e Andrea
facevano entrambe le cose. E quando rimanevano isolati, mettevano la sostanza.
Andrea era un compagno di Firenze. Luca non ne conosceva il cognome, né era
sicuro che quello fosse il suo vero nome. Nessuno dell’organizzazione, però,
era in clandestinità. Ognuno conduceva la propria vita in modo normale: non
partecipava a manifestazioni politiche né ad assemblee, se non sul posto di
lavoro. E, nel caso, era pronto a contrastare le teste più calde quando,
durante una vertenza, volevano portare i lavoratori allo scontro frontale con
l’azienda anche in assenza di prospettive di vittoria, come in un caso recente
a Melfi.
Andrea era un
operaio della concia e ogni mattina si recava a Prato a lavorare. Lì la
concorrenza cinese era particolarmente forte e il margine di profitto delle
aziende italiane aveva cominciato a risentirne, con inevitabili ripercussioni
sui lavoratori.
Luca, invece,
aveva scoperto la propria coscienza di classe attraverso la precarietà. Era
stata una rivelazione profonda. In poco tempo aveva contribuito a creare un
piccolo ma agguerrito gruppo che riuniva i precari di molte Facoltà romane e
durante una riunione in cui si discuteva di globalizzazione e lavoro in
fabbrica aveva conosciuto un ex operaio di Melfi, Simone, che ora faceva il
custode all’Università e con il quale aveva avuto molti altri incontri.
Attraverso questi era entrato nell’organizzazione.
«La direzione
strategica ha deciso di far saltare la casa dello Straniero. Devi partire», gli
disse Andrea. «Sei l’unico che ha disponibilità di tempo e che può lasciare
l’Italia per un motivo legato al lavoro»
«Per dove?»
«Egitto. Andrai
a Marsa Alam, in un villaggio turistico. Sai dov’è?»
«No»
«Sul Mar Rosso,
sotto Hurgada. È pieno d’italiani che vanno in vacanza ogni settimana per le
immersioni. Come te la cavi sott’acqua?»
«Apnea» rispose
Luca con un certo orgoglio.
«Bene. Dopo
Marsa Alam torni in Italia. Ti inventi una ricerca e ti sposti in Grecia, ad
Atene»
«A fare?»
«A Marsa Alam ti
condurranno da una compagna greca. Lei ti spiegherà»
«Quando dovrei
partire?»
«Subito. Devi
prenotare un viaggio nell’albergo El Quseir. Lo trovi sui depliant di qualsiasi
agenzia turistica. Appena sei pronto manderai per email una copia della
prenotazione a questo indirizzo, che devi memorizzare: tamatia@yahoo.gr. Creati una casella di
posta su gmail che cominci con ‘gliocchi’ tutto attaccato. Ho messo sotto la
tua macchina, in una busta, duemila euro in contanti».
Andrea si fermò
a bere. Luca riprese fiato e memorizzò le informazioni. Fecero ancora un giro
del parco e si salutarono, dandosi un falso appuntamento per il giorno dopo
alle 13. A voce alta, vicino a due poliziotti a cavallo che presidiavano
casualmente l’ingresso. Luca andò alla macchina, trovò i soldi, si cambiò sotto
una grande caserma dei carabinieri e raggiunse un’agenzia di viaggi.
Capitolo 3
Marsa Alam
Dentro l’aereo che lo portava a Marsa Alam, Luca
pensava all’evanescenza del giudizio umano. L’Italia vista in un charter
sembrava innocua e i turisti gli apparivano come filosofi irresponsabili,
pronti a calarsi in un mare caldo e distante dai problemi, sperando di trovarli
risolti al ritorno. La mente andò alle organizzazioni che avevano combattuto lo
Stato per quasi un ventennio. Il sistema di reclutamento e il funzionamento
della sua venivano da quella storia. Si entrava singolarmente, solo compagni
conosciuti che già avevano svolto un ruolo nel movimento; nessuna faccia nuova,
nessun amico degli amici. Non era una questione personale.
L’ossatura dell’organizzazione era formata da una
direzione strategica e tre Fronti, quello di Luca, il logistico e il Fronte di
combattimento. Vi lavoravano fino a cinque compagni e ognuno conosceva
direttamente solo un membro di un altro Fronte. La direzione strategica
comprendeva quattro persone; di loro Luca aveva incontrato Simone, mentre degli
altri sapeva i nomi. Ogni mese, rappresentanti dei Fronti si riunivano per
scambiarsi informazioni, ma ancora non era stata compiuta nessuna azione,
neanche minore: non un volantino, non una risoluzione politica, non una sigla
da regalare ai magistrati. Solo due rapine, per l’autofinanziamento, portate a
termine dal logistico e dal Fronte di combattimento. Ora, però, sembrava giunto
il momento della sfida allo Stato.
Andando in bagno, in fondo al vettore, gli venne in
mente la sera del 18 aprile 1996. Il centrosinistra aveva vinto le elezioni e
una folla si era radunata sotto Botteghe Oscure. Sul balcone del terzo piano
uscirono una ventina di dirigenti di quello che era stato il Pci e salutarono
il popolo come Luca aveva visto fare ai sovietici decine di volte dal Mausoleo
di Lenin, sulla Piazza Rossa. Sembravano quelle teste di clown con la molla al
posto del collo quando escono dalla scatola e mentre in strada cominciarono a
scandire il nome di Berlinguer, Luca si allontanò convinto di aver assistito
alla fine di una storia.
Vicino alla porta del bagno sedeva una bella ragazza
con il fidanzato. Era convinta di avere la vita di fronte. Dopo aver perso
Ol’ga si chiedeva con frequenza quanto avrebbe avuto ancora lui da vivere. Non
per la paura di morire. Per dare un senso alle cose. E se lo avesse saputo,
cosa avrebbe dovuto dire alla nonna quella domenica di luglio: “Ciao nonna ti
restano tre giorni”? Perché tanto visse.
“Nel ventre dell’arcipelago siamo tutti
fratelli”, pensava. E quel ventre aveva le sembianze di Luca. In fondo, che
importanza aveva la vita se la sua bontà era tutta nelle opere di persone che
non avevano mai ottenuto un successo? Ma era vero? La scoperta del mondo doveva
avvenire attraverso l’uso della violenza. Era sempre stato così, si diceva. La
ragione, concluse, viene dopo, per valutarne il grado. «Che tu possa trovarti
altrove, amore mio, che tu possa sentire ancora». Il comandante pregò i
passeggeri di prepararsi per l’atterraggio e Luca tornò al suo posto.
***
Attraverso il vetro della hall giunse un tipo strano.
Parete-plurielementi, stand con foto del Mar Rosso, piedi di italiani in alto
sopra un divano, fodera di traliccio dei cuscini bianchi, l’alzata a scaffale
dietro alla testata delle poltrone, la specchiera, enorme, la guida della
tenda, un candelabro da tavola, la composta di frutta, il codolo del coltello e
la ghiera, tutto sembrò scomparire. Riacquistò un aspetto discreto, quindi
sguaiato. Lo strano tipo gli era scivolato accanto e Luca si era ripreso
dall’imbarazzo. Si diede dello stupido. Dopo una breve coda alla reception
ricevette le chiavi della stanza e una spiegazione su come arrivarci attraverso
quel dedalo di stradine che a una prima impressione sembrava la caratteristica
principale del villaggio.
Sebbene amasse il mare, Luca non era mai stato sul Mar
Rosso e aveva anche poca dimestichezza con i villaggi turistici. Aveva
trascorso una settimana in un Club Med a Tunisi, ma tanto tempo prima, quando
non era maggiorenne, e si muoveva goffamente, vestito e pallido in mezzo ai
turisti abbronzati che affollavano le cinque piscine del complesso. Giunto in
stanza trovò la valigia di fronte alla porta ed entrò. Diede uno sguardo
attento, sbirciò nel bagno, ampio e pulito e si diresse verso il balcone, che
si affacciava sul mare. Era caldo, ma la mancanza di umidità lo rendeva
sopportabile. Tolse la scheda dall’Iphone e lo accese. Si era segnato delle
cose che voleva rileggere prima di andare in spiaggia, ma si rese conto di
perdere tempo. Si cambiò e uscì. Ci mise un po’ a capire il sistema per ottenere
il telo da mare, ma alla fine si sistemò sotto un ombrellone di bambù, aprì un
libro e attese. Passò così una mezz’ora e si diede del cretino. Era un turista,
come tutti gli altri. Il più stupido italiota della terra e tale doveva
comportarsi. Prese la maschera, il boccaglio e le pinne e si buttò in mare.
Fu come entrare in uno degli acquari che aveva visto a
Lisbona e Vienna, il mare dei documentari, quello che aveva sempre sognato.
Nuovata e rideva e quasi gli venivano le lacrime per tanta bellezza. La
barriera corallina era altissima e il blu del mare profondo confinava con
l’estremità del reef opposta alla spiaggia. Prese un po’ di fiato e scese giù,
abbagliato dalle tonalità di rosso dei coralli, dalle spugne gigantesche e
dalla folla di pesci di ogni forma e mantello che gli nuotavano accanto.
Sembrava un pazzo. Fece fatica a uscire dall’acqua e non appena si distese sul
lettino fu tentato di rientrare. Guardava il mare, il pontile con un paio di
grossi yacht ormeggiati, i turisti che giocavano a pallavolo dietro di lui,
quelli che giravano con i piatti pieni di cibo tra gli ombrelloni e si ricordò
che non mangiava da ore. Trovò il buffet e si mise in fila. Una donna con il
velo sfornava panini tondi e soffici pieni di spezie, che gli diedero un piacere
simile a quello appena lasciato dentro il mare dei diecimila colori. Prese un
piatto e lo riempì di pane, aggiunse la carne e si sedette a un tavolo.
Era imbambolato, scioccato, e quasi aveva dimenticato
il motivo della missione. Mangiando piano, riprese il controllo delle emozioni.
Lasciò il tavolo e tornò verso le sue cose.
Dopo un altro bagno, prima di cena fece un giro per il
villaggio. Si recò al centro Scuba e affittò una muta e una cinta con i pesi
per le immersioni. Passando di fronte ad alcuni negozi di souvenir incrociò lo
sguardo di un giovane, che lo invitò a entrare. Si chiamava Adam, e gestiva la
bottega dei profumi e delle essenze assieme al fratello, Anton. Entrambi
parlavano italiano, come tutti gli egiziani che lavoravano nel villaggio. Adam
lo fece accomodare e gli offrì del tè. Gli spiegò che normalmente gli italiani
conoscevano solo la loro lingua. Luca alzò gli occhi e un po’ si vergognò.
Cercò goffamente di difendere i suoi connazionali, ma lasciò stare quando entrò
una coppia che con una certa presunzione si rivolse ad Adam direttamente in
italiano. La donna comprò un profumo e Adam riprese la conversazione. Aveva 27
anni e abitava a una ventina di chilometri dall’albergo, in una cittadina sul
mare. Gli raccontò che fino a quindici anni prima c’era solo deserto e che Luca
si trovava nella prima struttura turistica costruita allora. In seguito, era
arrivato un uomo d’affari dal Kuwait, aveva finanziato l’aeroporto e tre
alberghi di lusso e la località era entrata nel giro delle più richieste dagli
europei. Gli chiese cosa facesse nella vita e se fosse la prima volta che
veniva in Egitto. Luca aveva preparato una versione credibile per giustificare
quelle ferie e Adam gli rispose che era un uomo fortunato a fare il professore.
Non era lui il contatto, pensò Luca, ma non gli fu facile uscire dal negozio.
Alla fine comprò un profumo per la sua immaginaria fidanzata che lo aspettava a
New York e tornò in stanza.
Neanche a cena accadde nulla. Luca osservava i turisti
conquistare un posto lungo il buffet e all’angolo delle bevande; riempì il suo
piatto e scelse un tavolo parzialmente occupato. Parlò del più e del meno, fumò
una sigaretta in compagnia e verso le dieci andò a dormire.
Il giorno seguente trascorse veloce. Il sole era già alto
quando scese in spiaggia. Salutò qualche faccia incontrata la sera precedente o
vista in aereo, fece le sue immersioni, tornò da Adam per bere un tè, cenò,
come la sera precedente, con nuovi sconosciuti e ritornò in stanza. Giocò un
paio di partite a scacchi contro il computer e cercò di dormire.
Passò un altro giorno, ma nessuno lo avvicinava,
nonostante il movimento continuo di egiziani. Ogni pomeriggio, verso le tre,
scendevano in spiaggia massaggiatori, venditori di souvenir, giovani con un
prontuario di tatuaggi che, promettevano, sarebbero durati un mese, e un uomo
di mezza età che portava davanti al campo di beach volley tre cammelli. Mentre
gli altri giravano tra i turisti, cercando di convincerli a comprare qualcosa,
il cammelliere se ne stava tranquillo vicino agli animali. Luca aveva già
notato l’italiana che quel giorno ci si mise a discutere, perché indossava
sempre una maglietta con la bandiera del Brasile e per lui era una cosa
inconcepibile: o si era dei brasiliani, o la si portava a casa propria: mai in
un paese terzo. La signora aveva da ridire sul prezzo della passeggiata in
cammello, che durava un’ora e costava 15 euro.
«A Milano» - diceva al cammelliere «non costa
così neanche un taxi»
«Questo è il prezzo», rispondeva l’uomo.
«Sì, sarà il prezzo, ma è fuori mercato. Quanto
ti può costare mantenere l’animale? Mica è una macchina? Mica la paghi
l’assicurazione. Non va a benzina».
«Vero signora, ma le mie bestie mangiano»
«E quanto mangeranno!»
La
discussione proseguiva su questo tono e la donna diventava sempre più
aggressiva. Luca, che non sopportava quelle manifestazioni degenerate di
italianità, decise che era troppo e intervenne, anche perché si era unito il
marito a sostenerla:
«Scusi signora, se mi posso permettere, ma il suo
discorso non ha senso. Cosa c’entra il costo della vita? Questo è un servizio
che viene offerto ai turisti e tra l’altro il prezzo è deciso dall’albergo.
Nella hall, se guarda, lo trova in bacheca. Lo ritiene conveniente? Ne
usufruisce. Al contrario, non fa il giro in cammello. Sa quanto si pagano
quaranta minuti di gondola a Venezia? Cento euro. È giustificato dal costo
della vita? E provi a prendere una carrozzella a Roma. Il signore dovrebbe
obiettare, se capita a Milano, che è il nostro taxi troppo caro rispetto ai
suoi cammelli».
Il cammelliere sorrise, il marito si grattò la
testa e la signora apparve spaesata. Provò a tornare sugli stessi argomenti, ma
lasciò perdere e si allontanò. Luca fece per andare, ma si sentì chiamare.
«Fallo tu un giro»
«Mi dispiace, ma non so andare neanche a
cavallo. Figuriamoci su un cammello»
«Ti sbagli. È più facile. Sali»
Vista
la situazione, si sentì senza scelta. Partirono verso Nord, il cammelliere
davanti, Luca dietro seguito dal terzo animale. In effetti, non era difficile
starci sopra e, a suo modo, era divertente. Andarono avanti per una ventina di
minuti, finquando Tariq (così si chiamava il cammelliere) non fermò la
carovana.
«Guarda che bello il mare, Luca»
«Bello, bellissimo, siete davvero fortunati a
vivere qui»
«Dovresti fare una gita, invece di stare tutto
il giorno al villaggio»
«Hai ragione, ma non so dove andare», cercò di
giustificarsi.
«Appena torniamo vai dentro quella casetta che
sta al confine tra i due alberghi, quella gialla, l’hai presente?»
«Sì »
«Bene. Prenota per domani mattina la gita sotto
Hurgada. La greca è arrivata»
Non si dissero altro. Tariq girò gli animali e
dopo mezz’ora furono di nuovo di fronte all’albergo. Luca pagò i quindici euro,
gliene diede altri cinque di mancia sotto lo sguardo attento degli altri
turisti e si recò nella casetta gialla.
Sopra un lettino riposava un tipo smilzo e scuro con
un nome curioso, Manty, stampato su un cartellino che portava al petto. Sul
tavolino due bicchieri pieni di un tè ormai freddo.
«Ciao», cominciò Luca in inglese «vorrei
prenotare una gita per domani».
«Sei italiano?
Luca
alzò di nuovo gli occhi al cielo, ma ormai si era abituato a sentirsi un
cretino di fronte agli egiziani.
«Sì»
«Anche io»
«Come anche tu?»
«E perché no?»
«Non sembri italiano». La riposta era un po’
razzista, troppo esplicita sui tratti somatici di Manty e Luca cercò di
spiegarsi meglio.
«Insomma, lavori qui, ti ho sentito nei giorni
scorsi parlare arabo, sei un egiziano, E poi che nome è Manty?».
«Manty? Un nome italiano. Sono italiano, di
madre egiziana a padre italiano. Sono cresciuto nelle Marche. A 19 anni, dopo
la scuola, sono venuto in Egitto. Prima al Cairo, ora qui. Al Cairo c’è troppa
povertà. Che gita ti serve?»
«Quella sotto Hurgada. L’ho vista su un
depliant»
«Sì, domani la facciamo. Dunque, vediamo. Mi
dispiace, non c’è posto»
«Come non c’è posto?»
«Siamo pieni. La gita in barca non parte da
qui. Si arriva a un porto a cinquanta chilometri da Hurgada con dei minibus e
siamo pieni».
«No Manty, ci devo proprio andare. Gli altri
giorni non posso. Trova qualcosa. Quanto costa?»
«Trenta euro»
«Te ne dò altri quindici, per te».
Manty
si rasserenò.
«D’accordo, ti metto accanto al guidatore.
Portami le fotocopie del passaporto e del visto. Ci vediamo domani mattina alle
8, qui».
Luca
uscì soddisfatto dalla casina gialla. Fece un cenno con gli occhi a Tariq e si
avviò verso la sua stanza.
Cenò nervosamente. Fumò una sigaretta dietro
l’altra e si ritirò. Ma non erano neanche le dieci e non poteva prendere sonno.
Uscì nuovamente e fece un ampio giro, quindi raggiunse le luci che si
intravedevano dietro l’albergo vicino al suo. Si trattava di un centro
commerciale dove vendevano soprattutto spezie, tappeti e quadri. Contrattò un
tappeto, tanto per passare il tempo, ma rischiò di doverlo comprare e solo con
un certo sforzo riuscì a tornarsene a mani vuote. Si sedette sul bordo di una
piscina e guardò l’edificio principale, illuminato e silenzioso. Era l’una. Tra
sette ore doveva essere alla casina gialla e si disse che in qualche modo
doveva dormire. Tornò in stanza, si spogliò e regolò la sveglia dell’Iphone
alle sette, alle sette e un quarto e alle sette e mezza. Prese un libro, ma non
riuscì a concentrarsi. Spense la luce. L’ultima volta che guardò l’ora erano le
tre passate.
Capitolo 4
Marianthi
Fecero un bel tratto di strada prima di raggiungere il
porto sotto Hurgada e Luca dormì quasi tutto il tempo. La barca era grande e
ben organizzata. I tedeschi costituivano la maggioranza dei turisti, ma c’era
anche qualche francese e una coppia di russi, con la quale Luca parlò a lungo.
Dopo due immersioni in posti diversi, un ragazzo dell’equipaggio scattò alcune
foto che i turisti avrebbero potuto comprare direttamente su un cd-rom alla
fine della gita. Salirono su una barca più piccola con il fondo di vetro per
vedere un pezzo di barriera corallina. Quindi, li condussero su un isolotto,
una piccola lingua di terra dove giungevano in continuazione scafi pieni di
gruppi provenienti da Hurgada. Avevano un’ora per fare un ultimo bagno, prima
di rientrare in porto.
Luca sedeva sulla sabbia bianca e l’accarezzava con la
mano, provandone piacere. Un egiziano, la guida delle immersioni, dalla riva
teneva d’occhio i turisti che stavano in acqua. Rimasto solo, si avvicinò a
Luca e gli indicò una ragazza seduta a una ventina di metri da loro, verso il
centro dell’isolotto.
“La greca. Ti sta aspettando”
Luca
si alzò e la raggiunse. A un primo sguardo doveva avere superato da poco i
trent’anni. Occhi neri, capelli scuri, la pelle bianca e un seno prosperoso.
Luca non ne fu contento. In quei casi, lo sapeva bene, non riusciva a resistere
dal guardare e per evitare di farlo fissava negli occhi la sua interlocutrice,
cosa che lo rendeva rigido e poco simpatico. Era tempo che combatteva questa
sua debolezza.
La ragazza lo salutò con cordialità, come si fa con un
amico, e in un discreto italiano gli disse di sedersi. Formarono una delle
tante coppie che prendevano il sole su quei pochi metri quadrati di sabbia, tra
il rumore delle barche e il brusio dei turisti. La ragazza disegnò un fiore
sulla sabbia e gli chiese se gli piacesse. Abbassò il tono della voce:
“Ci sono altri italiani?”
“Due”. Luca si guardò intorno. “Ma non li vedo.
Staranno in acqua”.
“Dobbiamo essere veloci. Ora mi ascolti. Dopo potrai
farmi qualche domanda, se non sono chiara”
Luca
annuì.
“Mi chiamo Marianthi e sono una militante di un
gruppo anarchico di Atene. Ci avete incaricato di trasportare in Italia
dell’esplosivo, molto esplosivo. Simone mi conosce da anni, da quando abbiamo
frequentato lo stesso campo di addestramento in Libano. Siamo diventati amici e
abbiamo mantenuto i contatti, incontrandoci durante i social-forum. Ma non è
questo il punto. Il punto è che ieri ho parlato a Hurgada con due compagni
libanesi: sono pronti a fornire l’esplosivo. Lo consegneranno tra due settimane
esatte a partire da oggi in un porto di Creta. Dovrai venire ad Atene.
Partiremo in auto per il Peloponneso, dove abbiamo una barca con cui
raggiungeremo Creta e torneremo in Italia. Per venire in Grecia prenderai un
traghetto. Ogni giovedì alle 18 ne parte uno da Brindisi della compagnia
Agoudimus. Devi salire su quello della prossima settimana, quindi rientrato a
Roma non hai molto tempo. Come stai messo con il lavoro? Hai già avvertito che
devi fare una ricerca?”
“Sì, è tutto a posto. E comunque sono un
precario. In teoria posso fare un po’ quello che voglio, esaurito il contratto”
“Niente strappi, nessun comportamento anomalo.
Se hai sistemato le cose va bene così. A Brindisi andrai in treno. Portati uno
zaino con gli effetti personali e niente computer, documenti
dell’organizzazione o altre cose da giustificare in caso di controllo della
polizia sui vostri treni o alla dogana”. Marianthi aprì la borsa da mare che
teneva sulle ginocchia incrociate.
“In questa busta ci sono tre schede telefoniche.
Ognuna ha memorizzato un solo numero di telefono a nome Dimitri. Prendi con te
un cellulare vecchio, perché lo dovrai distruggere. La scheda italiana lasciala
a Roma dentro un altro cellulare acceso, non ti servirà. Appena arrivi a
Brindisi usa la prima scheda, la riconosci dal numero progressivo più alto,
quindi la togli e la butti in acqua in mare aperto. Ti risponderà uno
dell’equipaggio, che nella sala del check-in ti farà avere un biglietto
intestato a un greco e una carta d’identità. La foto l’abbiamo. Te l’hanno
fatta oggi in barca. Riceverai le chiavi di una cabina singola; meno occasioni
hai di parlare con qualcuno, meglio è. Per il resto, comportati come un normale
viaggiatore”.
“Arrivato a Patrasso, prima di scendere, usa la
seconda scheda. È quella con il numero progressivo più basso. Ti risponderà il
compagno che ti sarà venuto a prendere. Ti darà il numero della targa e il
modello dell’auto. Togli la scheda dal telefono e buttala in mare assieme alla
terza, che a quel punto non avrai usato. Serve solo se rinunciate all’azione,
se incontri problemi durante il viaggio per Brindisi o per qualsiasi altro
motivo tu non riesca a prendere la nave. Ricorda che le schede devono andare in
fondo al mare, quindi inventati un sistema. Magari porta dei sassi, qualcosa di
pesante e fissale con un elastico. Da questo momento, e fino alla vigilia della
partenza per l’Italia con l’esplosivo, che chiameremo sempre il dono, per noi sarai il solo riferimento
dell’organizzazione. Se qualcuno prova a contattarci significa che volete
rinunciare. A quel punto si bloccherà l’intera operazione, indipendentemente
dal suo stadio. Con Simone siamo rimasti d’accordo così. È tutto chiaro?”
“Sì”
“Domande?”
“Nessuna”
“Allora resta qui qualche minuto e raccontami
quanto ti piace il Mar Rosso”
Luca fece uno sforzo per mostrarsi confidenziale; le
disse dei pesci che aveva visto quel giorno, di come il caldo non gli desse
fastidio, tanto che neanche usava il condizionatore in camera e che la sua
abbronzatura avrebbe suscitato l’invidia di tutti gli amici romani. Si
alzarono, si scambiarono un bacio sulla guancia e Marianthi tornò verso un
gruppo rumoroso di giovani turisti che, a un primo sguardo, sembravano russi.
Luca restò seduto a fissare Marianthi, che non si girò
più. Il gruppo con cui stava era certamente formato da russi. Ce lo avevano
scritto in faccia, e ne poteva captare qualche battuta, perché alcuni di loro
quasi urlavano. Adam lo aveva avvertito che Hurgada era diventata una specie di
colonia slava. Ci abitavano e lavoravano in migliaia e da Mosca voli
giornalieri sempre pieni collegavano i due paesi. Ragazze un po’ sguaiate
flertavano con le guide egiziane. Si lasciavano prendere in braccio e gettare
in mare, ridendo. Marianthi parlava con due donne più grandi di lei e sembrava
a suo agio. Giunse la loro barca e lasciarono l’isola.
Luca distolse lo sguardo dal seno di Marianthi,
si alzò e andò verso la sua guida, circondata da alcuni turisti avvolti negli
asciugamani.
“La nostra barca sta arrivando”, disse, e
indicò un cabinato che stava conquistando la riva tra i bagnanti. Raccolse una
cima, che tenne in tensione, e due egiziani saltarono giù per aiutare il gruppo
a salire.
Rientrati in porto, Luca salutò l’equipaggio,
lasciò una mancia di dieci euro e si avviò con gli altri verso i minibus. Era
il crepuscolo mentre passarono il posto di blocco che si trovava a metà strada
con l’albergo, formato da una decina di poliziotti in tenuta antisommossa.
Guardava fuori, verso il deserto, cercando di cogliere le differenze che
l’imbrunire tendeva a cancellare, rendendo uniformi e scure le piante e le
colline lontane. Voleva affrontare i problemi uno per volta, in ordine di
importanza. L’obiettivo dell’azione gli sembrava il più consistente. Dopo
venivano le modalità, la partecipazione dei greci, e infine il Libano. O prima
il Libano e poi i greci? O Marianthi? C’era qualcosa di familiare in lei,
ostico ma nello stesso tempo così vicino; che però gli sfuggiva. La sua
sicurezza gli aveva fatto impressione. Ma non era quello il punto. Era inserita
in un meccanismo che sembrava perfetto: non poteva che mostrare sicurezza.
Altro lo aveva turbato. Di personale, non di politico. Non sembrava una greca.
Il suo accento non era greco. Quando studiava in Russia aveva avuto colleghe
che venivano da Atene. Parlavano un russo molto più dolce degli altri
stranieri. D’accordo, non aveva mai sentito un greco parlare italiano, ma
Marianthi sembrava qualcun’altra, qualcosa di altro. Era come se la conoscesse
già, se l’avesse incontrata anni prima, anche se non ricordava dove. Pensò che
le somiglianze sono sempre una cosa scivolosa e decise di lasciar perdere.
Si svegliò mentre il minibus svoltò per entrare
in albergo. Salutò i suoi compagni di viaggio, lasciò cinque euro all’autista e
avviandosi in camera si accese una sigaretta.
Trascorse i giorni restanti a fare immersioni.
Ogni volta riusciva a scendere più in profondità rispetto alla precedente e a vedere
parti di barriera corallina che dall’alto restavano nascoste dal blu del mare.
Incontrò un grosso barracuda dal mantello scuro. Se ne stava fermo sotto i
quindici metri, probabilmente nei pressi della tana. Era un adulto, perché i
giovani si muovono in branco e solo in seguito diventano solitari. Si immerse e
lo avvicinò. Il pesce non s’innervosì, ma la seconda volta che Luca gli fu
sopra preferì entrare in una fessura della barriera. Cercò di seguirlo ma il
fiato era esaurito e dovette risalire in mezzo a un branco di grosse cernie,
che nel frattempo lo avevano circondato. In superficie provò a toccarle, ma si
muovevano quel tanto che bastava a evitare il contatto, restandogli intorno.
Tornando si accorse che l’orologio non segnava più l’ora. La pressione doveva
averlo danneggiato. Nei giorni precedenti non era mai successo, ma questa volta
forse era andato troppo sotto. L’aveva pagato venti euro e non si trattava di
un grosso danno, ma in quel momento ne aveva bisogno e sperò di risolvere il
problema asciugandolo con il phon.
Nonostante i tentativi che faceva per
distrarsi, il pensiero ritornava inevitabilmente a Marianthi e alla missione di
Creta. Avrebbe voluto portare con sé una pistola, ma per il momento nessuno dei
suoi era armato. Perché una pistola, gli aveva spiegato Simone, ti costringe a
vestire in un certo modo; è un pezzo di ferro e in qualche modo i tuoi
movimenti si devono adeguare al peso e al posto che occupa sul tuo corpo, e un
occhio esperto li sa riconoscere. Le armi, però, le avevano. Erano nascoste in
Svizzera, a pochi chilometri dal confine con la Lombardia. Erano pulite, diceva
Simone. Provenivano dai canali non controllati da mafia o servizi. Ora Luca
capiva che probabilmente le avevano avute dai libanesi.
L’operazione con il phon si rivelò un fallimento. Invece di
limitarsi a sballare l’ora, l’orologio passava da una modalità all’altra,
emettendo in continuazione un bip fastidioso, tanto che Luca fu costretto a
lasciarlo sul terrazzo per prendere sonno. Era l’ultima sera a Marsa Alam.
L’indomani sarebbe rientrato in Italia.
Capitolo 5
Atene
Dopo aver conosciuto Luca, Ol’ga scappò di casa. Era
scalza e disse al marito che andava in bagno. Invece, infilò la porta e scese in strada. Si rifugiò
dall’amica pittrice che li aveva presentati e che abitava vicino. Il giorno
dopo tornò dai genitori. Divorziò prima che Luca rientrasse dalle vacanze
estive, trascorse in Italia. Anche se si sentivano al telefono, non aveva
saputo nulla del divorzio e ne fu felice. Andarono a vivere insieme, nella casa
che Luca aveva in affitto al centro di Pietroburgo.
Il rientro di Luca in Italia e il suo viaggio verso
Brindisi si svolsero senza problemi. Di fronte al check-in del molo inserì la
prima scheda nel telefono e chiamò. Dopo cinque minuti arrivò un marinaio con
una busta e lo accompagnò all’imbarco per i pedoni. Luca estrasse il biglietto,
mostrò la carta d’identità falsa e salì sul ponte principale. Dimitri, o
qualunque fosse il suo nome, lo accompagnò in cabina, dove si sistemò per la
notte. Mangiò qualcosa al self service della nave, buttò la scheda in mare
legata a un peso da un chilo per le immersioni, e si ritirò. Uscì il mattino
dopo in prossimità di Patrasso. Inserì la seconda scheda. Gli rispose una voce
da uomo, in inglese:
“Volvo rossa. L’ultima cifra della targa è 5”
Gettò
in mare le schede rimaste e si preparò a sbarcare. Quattro poliziotti greci con
i cani al guinzaglio erano schierati in modo da formare un muro sulla banchina
di attracco, ma Luca non si impressionò. Passò loro vicino e si diresse verso
la Volvo. Dall’auto uscirono due giovani che in inglese lo salutarono
calorosamente e gli chiesero come avesse viaggiato. Uno di loro prese il suo
zaino, mentre l’altro lo invitò a salire sul sedile posteriore. Viaggiarono a
velocità moderata, senza rischiare di superare i limiti, e in due ore furono ad
Atene. Gli spiegarono che avrebbe dormito da Marianthi, presso un caseggiato
occupato nel quartiere anarchico di Exarchia, in centro. La situazione in città
era molto tesa, gli dissero, e le manifestazioni contro il governo si
ripetevano con frequenza e spesso finivano in violenti scontri. L’indomani ce
ne sarebbe stata un’altra, molto grande, alla quale avrebbero partecipato tutte
le organizzazioni politiche di sinistra, compreso il Partito comunista, che
fino ad allora era rimasto a guardare. Ma adesso la questione riguardava tutti,
perché si protestava contro l’informazione della Televisione di Stato, che da
mesi, da quando durante una manifestazione era stato ucciso un alunno delle
scuole superiori, forniva false ricostruzioni dell’accaduto e cercava di
gettare la responsabilità sui manifestanti. Luca pensò immediatamente al
divieto della sua organizzazione di prendere parte a scontri di piazza, ma la
cosa lo attirava e si riservò di decidere.
A un primo sguardo, nel caseggiato dove viveva
Marianthi non c’era nessuno. Neanche per fare a sassate, pensò Luca. Ovviamente
sbagliava. Erano tutti fuori, chi per una riunione, chi per un incontro con gli
extracomunitari, chi a lavoro. Gli aprirono l’appartamento di Marianthi e gli
indicarono le due stanze dove abitava la ragazza: “Con Spiro, suo figlio”, gli
disse l’autista, “ma ora è alla scuola materna. Marianthi si scusa, aveva un
impegno e arriverà tra un’ora. Tu, nel frattempo, puoi farti una doccia e
rilassarti”. Si salutarono e Luca restò solo.
La notizia del figlio lo sorprese. Ci mancava un
bambino, si disse, ma si rese conto che in quell’appartamento c’erano tante
stanze e di fronte a ogni porta erano accatastati tricicli, biciclette e
scatoloni pieni di giocattoli. Si trovava in una comune per famiglie.
Entrò in una delle due stanze di Marianthi. Notò
immediatamente la riproduzione di un quadro, il Gioco, perduto al tempo in cui Guenter Brus volle fare un
omaggio a Egon Schiele, una donna con i capelli tenuti assieme da una fascia
nera, come quella che portava sua nonna da giovane. Il quadro lo conosceva
bene, perché piaceva molto a Ol’ga, e si ricordò che proprio lei gli aveva
fatto notare lo spazio inerte tra lo stupore della bocca e quello degli occhi,
quasi fosse l’intervallo tra due note distanti di una stessa opera. Fu
distratto dal rumore incessante delle automobili che, come pendoli, passavano
da una parte all’altra della finestra accanto alla quale era appesa la riproduzione.
Si stese sul letto cercando di riposare, ma era nervoso e andò in bagno a fare
la doccia. Non avendo un asciugamano e avendo dimenticato di prenderlo in
camera, si asciugò con la sua maglietta che stese sul davanzale della cucina.
Trovò da Marianthi una maglia della squadra di calcio del Panathinaikos e la
indossò. Doveva comprare dei vestiti prima di partire per il Peloponneso.
Marianthi rientrò di lì a poco assieme al piccolo
Spiro. Sorrise per la maglia e gli chiese se era andato tutto bene.
“Lo vuoi un caffè?”
“Un caffé greco?”
“Turco, greco, qui ognuno lo chiama come vuole.
Comunque, sì, quello”.
“Va bene, grazie”.
“Vieni in cucina allora”.
Si
era tolta le scarpe ed era andata a cambiare Spiro, che prima di seguirli aveva
preso il necessario per disegnare. Si mise seduto al tavolo, vicino a Luca, e
gli disse qualcosa in greco.
“Vuole che disegni con lui”, sorrise Marianthi.
“Spiro l’ho avuto dal mio ex compagno. Vive a pochi passi da qui e viene spesso
a vedere il figlio. Gli vuole molto bene. E ne vuole anche a me, ma sai come
vanno queste cose”
A dire il vero, Luca non sapeva come andavano quelle
cose. I suoi genitori erano morti quando aveva dodici anni, in un incidente
stradale. Era cresciuto con la nonna, ma se n’era andata anche lei, durante i
giorni di Genova, ai quali Luca non aveva partecipato per assisterla.
Marianthi versò il caffè. Il suo seno ballò di
fronte a Luca.
“È tutto pronto. Partiremo domenica. Ma i dettagli te
li dirò domani. Ho la testa alla manifestazione, di cui forse ti hanno detto.
Qui la polizia ha ucciso un ragazzino qualche mese fa, lo sai”.
Luca fece di sì con la testa.
“Da quel giorno siamo scesi in piazza ogni
sabato e ogni volta ci sono stati scontri e arresti. Puoi non venire, ma io ci
devo essere. Cercheremo di sfondare la zona rossa intorno alla televisione di
Stato, che da quel giorno distorce l’informazione”
“Ma se cercherete di sfondare la zona rossa”, obiettò
Luca “lo scontro sarò duro. Te la senti di rischiare prima di partire?”
“Me la sento. Tu, lo capisco, puoi restare a casa”.
Luca
avrebbe voluto insistere sulla pericolosità della cosa; avrebbe voluto dirle
che tra la manifestazione e la loro missione era più importante la seconda, ma
non volle compromettere il rapporto appena iniziato e cercò una mediazione. Con
se stesso, prima di tutto. Pensò che era meglio partecipare alla
manifestazione, per stare con Marianthi, per vedere il mondo in cui viveva, chi
erano i suoi compagni e come si comportavano in determinate situazioni. Ma a
lei disse solo:
“Verrò anche io. Che ci faccio a casa da solo
mentre voi siete in piazza”. Provò una battuta: “O preferisci che resti qui con
Spiro?”.
“Spiro da stasera e fino al mio ritorno starà con il
padre”. Marianthi fece una pausa: “Ma sei sicuro di voler venire? Guarda che
non devi”.
“Ma sì, sarà meglio così”.
Marianthi
si mise a preparare il pranzo per Spiro, che nel frattempo aveva coinvolto Luca
nei suoi giochi. Gli dava in mano una matita e gli indicava un punto sul foglio
dove aveva disegnato una casa o un animale. Si trattava di un villaggio con una
fattoria.
“È quella dei nonni”, disse Marianthi, mentre ripose i
colori, che sostituì con un piatto di pasta al burro. “Tu cosa vuoi da
mangiare? Ti va bene la pasta se ci aggiungo della salsa?”.
“Va bene Marianthi, grazie”
Marianthi.
Era la prima volta che Luca la chiamava per nome. Per pronunciarlo bene si deve
infilare la lingua tra i denti prima della “i” finale. E il farlo, se riesce,
provoca un piacere particolare. Lo fece ancora, e la ragazza lo guardò interdetta.
Mangiarono e passarono nella stanza grande.
Marianthi gli spiegò come funzionava quella comune, gli raccontò
dell’occupazione, dei tentativi di sfrattarli e dell’accordo raggiunto con il
municipio. Gestivano anche un centro sociale chiamato “Diktio”, la Rete, dove tra l’altro, aggiunse la ragazza, ogni
mercoledì si riuniva un gruppo di italiani chiamato Bella Ciao.
“A proposito, come mai parli italiano così
bene?”, le chiese Luca.
“Perché l’ho studiato”
“Ti
deve piacere molto. Sei mai stata in Italia?”
“Certo che ci sono stata”
Luc
cambiò discorso.
“Ho visto quella riproduzione nell’altra
camera, è molto bella. Ti piace Egon Schiele? Conoscevo una persona che passava
le giornate intere sui suoi disegni”
“Amo tutti gli artisti della Secessione, ma
lasciamo stare le discussioni colte, se non hai nulla in contrario. Mi riposo
mezz’ora. Dovrei anche scendere per gli ultimi dettagli della manifestazione.
Ci saranno pure quegli stronzi del kappakappaepsilon che proveranno a gestirla
con il loro servizio d’ordine. I comunisti. Sono rimasti fermi al 1949 senza
capire che la felicità si basa solo su una grande invenzione: l’abbraccio.
L’abbraccio di un uomo, di un figlio, dei compagni. Domani un lungo abbraccio
prenderà l’intera città. E io sarò felice”.
“Voi italiani non siete stati molto diversi. I
comunisti intendo. Vi hanno riempito la testa di stupidaggini. Il lavoro
fisso”, proseguì Marianthi, “ne hanno fatto un feticcio. Non il lavoro, senza attributi, ma il lavoro fisso. Vi spezzate la schiena alla linea di montaggio
perché volete una casa di proprietà. E non vi rendete conto di vivere
nell’epoca del commercio costrittivo totale, la cagata che chiamano
globalizzazione. Occupate le case, invece di comprarle, e la macchina si
fermerà. Ma ormai non potete tornare indietro. Siete così tragici, voi
italiani, eppure capaci di ridurre tutto a farsa. Perché il tragico si lascia
scavare, e ne avete paura. Avete ragione a temerlo; in fondo è sempre un po’
vittima di se stesso”
“L’Italia è il secondo paese più industrializzato
d’Europa dopo la Germania”, rispose Luca. “Siamo pieni di fabbriche. E quindi
di operai. Il lavoro sta in fabbrica. Ci deve essere un luogo simbolo, ci
devono essere dei diritti simbolici, una dignità particolare e una via di emancipazione
differenti dall’uomo della strada. Chi dice che in una democrazia un
metalmeccanico è uguale agli altri lavoratori, è un populista. Vuole rompere la
solidarietà di classe per sostituirla con una non meglio identificata “urgenza
del bisogno”, cui venire incontro con il welfare globalizzato”.
“Ma li conosci gli operai? Sono gente che va dritta
all’obiettivo e non appena lo raggiunge ti molla. Che fine ha fatto la
solidarietà, dovresti davvero chiedertelo. In Italia la classe operaia si è
lasciata spaccare in due”.
“Era sotto ricatto” provò a difendersi Luca. “E
nonostante questo quasi la metà ha votato contro l’accordo”
“Ma l’altra metà? L’altra metà ha tradito se stessa.
Pur di conservare il privilegio di uno sviluppo che non ha senso. E nel farlo,
ha ridimensionato i diritti degli altri lavoratori. La tua Italia è la fabbrica
degli orrori. Sperimentano da voi ed esportano. Non è la prima volta che
accade”
La discussione si contorse su se stessa; le posizioni
di Luca e Marianthi a volte si avvicinavano, altre si allontanavano. Il seno
della ragazza lo distraeva terribilmente e alla fine Luca si lasciò coinvolgere
da Spiro in nuovi disegni, mentre Marianthi andò a riposare. Riapparve sulla
porta un’ora più tardi, presero insieme il piccolo e lo portarono dal padre.
***
Il giorno
dopo alle 8 del mattino Luca era in piedi. La manifestazione sarebbe cominciata
alle 10, partendo da piazza Omonia. L’obiettivo era sfondare i cordoni della
polizia e raggiungere il parlamento; e anche il picchetto dei comunisti del
KKE, se fosse stato necessario.
In piazza Exarchia stavano preparando gli ultimi
striscioni, molti dei quali, spiegò Marianthi, erano contro la globalizzazione
e la Nato. Un anarchico mangiava nervosamente un panino accanto a un compagno
che suonava uno strumento a forma di dirigibile con dei buchi laterali. Si
lasciò cadere le lenti sul naso e tirò su un fazzoletto nero che ricoprì il
volto. Molti indossavano maschere antigas e caschi da motociclista. Luca, una
felpa con il cappuccio e aveva la netta sensazione di essersi imbarcato senza
biscotto. Marianthi gli aveva anche dato un fazzoletto nero e una bottiglia
d’acqua, unica difesa contro i lacrimogeni.
Il corteo partì alle dieci. Una ragazza con i
capelli rossi gridò subito qualcosa in faccia ai celerini che attendevano al
primo incrocio, ne spinse uno prendendolo per lo scudo di plexiglas e ricevette
una manganellata. Luca fece per buttarsi nella mischia, ma Marianthi lo fermò.
Si sentirono spingere e videro volare manganelli. Luca si frappose tra la
ragazza e un celerino e con l’aiuto di altre mani riuscì portarlo dentro al
corteo, che lo atterrò riempiendolo di calci. Giunsero i rinforzi e la prima
fila dei manifestanti serrò il passo tenendosi unita con dei bastoni corti e
tozzi.
I comunisti del KKE aspettavano di fronte al
Parlamento per porsi alla testa del corteo. La polizia continuava ad aumentare
e con cautela gli anarchici cominciarono a indietreggiare. Marianthi si teneva
a Luca. Il corteo ripartì, di corsa, cercando di sfondare il blocco. Da dietro
cominciò un fitto lancio di uova e pomodori e una parte si defilò sotto gli
archi, sulla destra, superando la prima linea della polizia inseguita da
giornalisti e telecamere, invasati come mosche in un carnaio. Luca contò i
caschi dei celerini che poteva vedere: erano circa trecento. “Sai celerino che
posso leggere sul tuo volto quanto ti resta da vivere?” urlò in faccia a uno di
loro. “Pare dipenda dagli emisferi. Quando diventano uguali stai all’erta
perché vuol dire che ci siamo”. Quello non capì una parola e lo guardò
sorpreso. Luca gli mollò un pugno, rompendogli il setto nasale. Uno studente
perse la lente da un occhiale legato con uno spago dietro alla nuca ma continuò
a picchiare come nulla fosse. Marianthi tirò Luca per la felpa. I lacrimogeni
erano troppi e non si vedeva più niente. La gola cominciò a infiammarsi. Il
corteo si divise ulteriormente e una parte consistente prese di corsa una via
laterale, libera dalla polizia. C’era un rumore assordante di chiavi e
fischietti. Marianthi correva e spingeva, o si appoggiava a Luca, che le era
davanti. Passarono dietro Omonia per il mercato generale di Atene e risalirono
una delle vie commerciali più importanti. Arrivati in piazza Sintagma, dove
attendevano i comunisti, qualcuno sparò dei fumogeni da stadio in direzione del
picchetto, in modo da aprire un varco.
Un giovane cosparse di benzina un cartellone
pubblicitario, dandogli fuoco; le fiamme si trasformarono presto in un fumo
nero e la confusione aumentò. Andarono in frantumi le vetrate della Posta.
Altri anarchici cominciarono a rompere il marmo del marciapiede vicino al
Parlamento con delle mazze di ferro per farne pietre, che tiravano verso la
polizia. Il traffico era bloccato, ma invece di correre verso il palazzo
presidenziale, sul viale parallelo al Parlamento, che era presidiato, la parte
di corteo con Marianthi e Luca si diresse nella direzione opposta, proprio dove
gli automobilisti erano rimasti imbottigliati. In molti saltarono sopra le auto
e la carica della polizia perse ogni efficacia. Qualcuno sparò un altro razzo,
stavolta ad altezza d’uomo. Il corteo entrò di corsa dentro i giardini
nazionali. C’era fumo ovunque; qualche poliziotto riuscì a raggiungere le
retrovie, colpendo alle spalle gli ultimi, ma l’idrante che era stato preparato
meticolosamente per fermarli non poté essere usato, perché avrebbe inondato
principalmente le auto. Luca sentì in bocca del sangue caldo e gli occhi che si
riempivano di lacrime. I celerini colpivano e tornavano indietro, cercando di
chiudere in una morsa gli anarchici. Ci fu qualche minuto di tregua. Il fumo si
diradò e tutti si diressero lungo una rotabile seguendo i binari del tram. La
prima fila si unì dietro un bastone lungo alcuni metri che ognuno strinse a sé,
e avanzò velocemente verso la televisione di Stato. A mezzo chilometro di
distanza i celerini avevano formato due file compatte, con una terza a pochi
metri dal cancello principale.
Il ticchettio della folla si lasciava respirare.
Truppe motorizzate e un autoblindo con un altro idrante sul tetto attendevano
gli eventi. Il corteo giunse a pochi metri dalle due file di poliziotti. Il
fragore era enorme. Luca e Marianthi non si erano persi e restavano vicini. I
minuti lievitarono, lentamente. Si sentivano agitare le chiavi, un suono lontano
di tamburi. Finalmente un anarchico prese un megafono e cominciò a parlare. Il
corteo si allargò per far passare i tamburi, che si misero tra la prima fila e
la celere. Luca si calmò e mentre cresceva il rumore, davanti ai suoi occhi
passarono altri strumenti, un sassofono, una tromba e qualche grande barile di
vernice rovesciato. Erano arrivati anche i comunisti, che però rimasero in
coda.
La musica diventò assordante e molti cominciarono a
ballare. Marianthi si strinse a Luca poggiando le mani sul suo petto. Si tolse
le scarpe e mise a danzare anche lei, scalza, come Isadora Duncan, di fronte ai
celerini pronti a colpirla in qualunque momento. Luca li fissava. I loro volti
muliebri protetti dalle visiere avevano la stessa espressione paralizzata. Amore,
verginità e morte erano sul punto di confondersi dentro la gabbia della più
grande protesta popolare contro la televisione di Stato nella storia della
Grecia democratica e Luca vide l’orizzonte dei circoli incidenti e una luce
pallida che veniva dalla periferia di Atene.
La battaglia urbana era finita e la manifestazione si
esaurì dopo una mezz’ora di discorsi. Marianthi era sudata e in quella
confusione aveva perduto le scarpe. Si avviarono a piedi verso casa perché i
mezzi pubblici non circolavano. La polizia era ancora schierata, ma non si
mosse. La tregua teneva. Ogni tanto i piedi di Marianthi incontravano
sull’asfalto un lacrimogeno, vetri, pezzi di legno e i rifiuti rovesciati dai
cassonetti. Le si sporcavano ad ogni passo, ma non se ne preoccupava.
Il sole era ancora alto e faceva caldo. Risalirono una
scalinata accanto allo stadio antico, un anfiteatro dalle lunghe tribune
laterali che si trova a pochi passi dai giardini nazionali. Alla fine delle
scale, sulla destra, un cancello immetteva in un cortile e dopo una piccola
salita si apriva una pista in terra battuta dove alcuni facevano jogging
percorrendo l’anfiteatro da un lato all’altro, sopra alle tribune, per tornare
indietro. C’erano dei punti di accesso, ma era vietato scavalcarli. Si poteva
però restare a guardare lo stadio dall’alto, da dove si vedeva l’Acropoli, poco
lontana.
“Non ti ho chiesto se eri mai stato ad Atene prima”
“No, è la prima volta”, rispose Luca.
“Questo stadio si chiama Kallimarmaro. Qui si svolsero
le prime olimpiadi moderne, nel 1896. È come un tempio per gli ateniesi. A
volte ci porto Spiro a giocare. Al tramonto il sole scende proprio dietro
l’Acropoli e il cielo sembra un quadro, uno di quei dipinti dei naturalisti che
giravano l’Europa all’inizio dell’Ottocento per riprodurre i monumenti
classici. Molti andavano in Italia, a Napoli, a Pompei. A dire la verità, i
tramonti sono più belli dei loro quadri”
Luca la guardò e rimase in silenzio, volutamente, per
qualche istante:
“Oggi è accaduto qualcosa di strano”
“Cosa?”
“Questo che è appena successo, la manifestazione, gli
scontri con la polizia, l’ho già vissuto”
Marianthi sorrise: “Ma l’abbiamo già vissuto tutti!”
“Non in quel senso; voglio dire un’altra cosa. L’ho
già vissuto nelle stesse modalità, a Vienna, una decina di anni fa. Anche
allora attraversammo mezza città per andare a protestare di fronte alla
televisione di Stato. Avevano formato un governo guidato dai democristiani, ma
sostenuto da un partito ultranazionalista. Si svolse una grande manifestazione,
perché i democristiani avevano promesso che mai e poi mai si sarebbero alleati
con il partito xenofobo, ma fu attaccata dalla polizia e si trasformò in una
giornata di scontri violentissimi. Quasi prendemmo il Parlamento e furono
assaltate la sedi dei partiti di governo. La TV diede una versione di comodo e
dopo due giorni la protesta si spostò sotto gli studi dei telegiornali. Non è
strano?”
“Che ci facevi a Vienna? Da come ne parli sembra ci
vivessi”
“In realtà cercavo una persona”
Luca guardò i piedi di Marianthi, incrociati alla
maniera che aveva già visto sul Mar Rosso. La compressione della carne
sull’asfalto li aveva rovinati. Non straziati, ma le dita più piccole erano
consumate e scure. Lo smalto nero delle unghie si confondeva con la sporcizia e
piccoli grumi di sangue si erano raccolti tra le pieghe.
“E l’hai trovata?”
“Non lo so. Mi ero illuso che fosse lei, ma ho voltato
le spalle. Tanti anni prima avevo abitato in Russia, a Pietroburgo, assieme
alla mia compagna. Morì a causa di una malattia e passato qualche anno cercai
la sorella gemella. Ol’ga, così si chiamava la mia ragazza, era una stilista e
in Italia avevo riportato i suoi disegni. Li facevo incorniciare un po’ alla
volta, finché da uno non saltò fuori una lettera della sorella da Vienna, dove
era scappata. A Mosca stava con un gruppo semiclandestino guidato da uno
scrittore estremista. Quando lo arrestarono, da quello che raccontava nella
lettera, era fuggita in Polonia e da lì a Vienna, aiutata da una specie di
Soccorso Rosso internazionale”
“Ma tu la conoscevi?”
“No, non l’avevo mai vista. Forse è per questo che non
l’ho trovata. Che matto, vero? Volevo mi raccontasse di Ol’ga, perché c’erano
tante cose che non avevo capito. Quando morì ero in Italia, ma nessuno mi
chiamò per dirmelo, neanche i genitori, che conoscevo benissimo. Era come se
vivesse abbandonata e sola, nonostante la famiglia, tutte le sue amiche, e me.
Dopo aver trascorso una notte nel suo studio, capii che aveva mantenuto un
rapporto speciale con la sorella, anche dopo la sua partenza da Mosca. Ne
parlava spesso in un diario e molti disegni che avevo, ma questo lo compresi
più tardi, la ritraevano. Però, da un disegno o da una foto non riconosci
nessuno se non l’hai visto camminare almeno una volta. A Vienna conobbi una serba
di nome Elena. Le somigliava molto e pensai che fosse lei Miriam, la sorella,
che avesse cambiato nome e che si nascondesse perché ricercata dall’Interpol.
La seguii a Belgrado, dove ogni mese andava per un fine settimana, e lì le
raccontai questa storia. Passammo la notte a parlare e il giorno seguente mi
chiese di partire; mi disse che mi avrebbe chiamato a Vienna. Ma non lo fece.
La cercai ancora; la vidi un paio di volte davanti casa sua, ma non ebbi il
coraggio di fermarla. Lasciai la città. È una storia così, finita male”.
Marianthi lo aveva seguito con attenzione, ma non fece
altre domande. Con uno sforzo Luca tornò al presente: “Ma perché vi siete
lasciati con il padre di Spiro?”
Prima di rispondere raccolse le ginocchia sotto al
mento:
“Non andava. Siamo troppo diversi. Dopo otto anni ci
siamo resi conto di essere degli sconosciuti e che Spiro non ci aveva legato
affatto, come credevamo. Ognuno di noi era rimasto uguale a quando non ci
conoscevamo. Stavamo insieme per la politica. Capimmo che non era quella la
nostra vita. Voglio dire, la nostra vita insieme”
“Come si chiama il padre di Spiro”
“Come pensi si possa chiamare un greco? Aristotilis”
Marianthi
sorrise. Sorrise e accarezzò il volto di Luca.
“Che strano modo hai di affrontare la vita”,
disse Luca. “Accetti tutto, come fosse un dono, un dono che non tradisce, anche
quando è pronto a farlo”
“Il dono, caro Luca, abbiamo detto che per noi
è un’altra cosa. Senti, qui vicino ci sono dei negozi di scarpe. Non credo che
abbiano chiuso per la manifestazione, perché passava lontano. Mi accompagni?
Per strada ti dico di domani. Che poi c’è poco da dire” aggiunse alzandosi,
“perché si parte in auto per una regione del Peloponneso che si chiama Mani,
dove fa molto caldo – preparati – e lì ci imbarchiamo sul nostro ‘panfilo’ alla
volta di Creta. Sarà come una vacanza. Dovrà essere come una vacanza”.
Luca
si accese una sigaretta: “Ma tu sai portare anche una barca?”
“E tu?”
“Io no”
“Beh, io neanche. Abbiamo un piccolo
equipaggio, formato da due compagni del Mani, un mozzo e un nocchiero”,
aggiunse sorridente. “Gente dura. Pensa che fu l’unica regione di tutta la
Grecia a non essere occupata dai Turchi. Sessanta chilometri di costa e trenta
di larghezza, per quattrocento anni libera dal giogo ottomano. Pagavano un
tributo, quello sì, ma erano padroni in casa loro. Però ne morirono tanti lo
stesso, anzi, forse ne morirono di più. Faide familiari, terminate solo nel
secolo scorso”
“Tanto noi ci stiamo il tempo utile per salire
in barca e salpare” scherzò Luca. “Ah, no, l’equipaggio. Questi uomini
pericolosi ce li portiamo dietro. Vabbé, mi difenderai. A proposito, ma saremo
armati?”
“Niente armi. Se ci ferma la guardia costiera
prima del dono e perquisisce la barca sarebbe un casino. Se dovesse accadere
dopo, si vedrà. Mi sa che dovremo buttare in mare l’esplosivo”. Marianthi
guardò Luca:
“È
questa l’unica parte del piano che suona imperfetta. Ma non siamo riusciti a
fare di meglio. Però ci saranno diversi compagni a controllare la rotta. Con un
po’ di esperienza, e di sorte, ce la faremo”
Dentro lo stadio c’era una fontanella e prima
di uscire Marianthi si lavò. Comprò un paio di scarpe di pezza mentre Luca
l’aspettava in strada, osservandola dalla vetrina del negozio. Quando uscì,
sorridente, lo prese per mano.
“Ti andrebbe di mangiare qualcosa? Conosco una
taverna qui vicino”
Si
sedettero in una piazza dove i bambini giocavano a calcio. Era un campetto
teorico, immaginario, senza porte o limiti. Ma prendevano la partita sul serio
e avevano l’aria di chi si sente adulto. Ogni tanto la palla si infilava tra le
gambe dei tavolini, ma nessuno degli avventori ci faceva caso. Marianthi ordinò
una cena alla greca, con tanti antipasti e un piatto di carne mista alla brace.
Presero anche del vino, che Luca non toccava da giorni, e la grappa locale,
l’ouzo. Un po’ ubriachi, si avviarono finalmente verso casa.
Capitolo 6
La direzione strategica
Da quando Luca era partito per Atene, l’organizzazione
aveva vissuto giornate difficili. Non solo perché la missione era entrata in un
cono d’ombra dal quale sarebbe riemersa solo vicino alle coste pugliesi, ma
perché si dovevano definire i dettagli dell’azione senza la sicurezza di
poterla compiere. Con tutti i rischi che ciò comportava.
Per prima cosa Simone andò in Svizzera a recuperare le
armi. Un venerdì prese il treno per Milano e la coincidenza per Lugano.
Annette, la compagna di Zurigo che le aveva in custodia, lo portò in macchina
vicino Saint-Moritz, in quel periodo dell’anno piena di suoi connazionali.
Recuperarono le armi nel cortile di una vecchia casa e al mattino si
mischiarono con i turisti che facevano trekking. I ferri stavano comodamente in
due zaini da montagna, tra le maglie e i teli da usare in caso di pioggia.
Conoscevano un passaggio pedonale non presidiato e all’imbrunire si ritrovarono
in Italia. Li vennero a prendere Antonio e Rosario. Sistemarono gli zaini nel
portabagagli della Grande Punto, scesero lungo la statale che conduce a Milano,
tagliarono per Novara e raggiunsero Ivrea.
Antonio era alla guida. Rosario, che occupava
il posto al suo fianco, avevano una pistola sotto il sedile. In Italia è facile
incontrare posti di blocco in strade secondarie, ma solo in certi orari; sulle
grandi magistrali sono rari e tra le otto di sera e mezzanotte quasi
inesistenti. Riprendono sulle rotte delle discoteche, per i controlli del tasso
alcolemico. Seguendo questa logica il viaggio andò bene e prima di mezzanotte
erano giunti alla periferia di Ivrea. Svoltarono verso una grande casa isolata
dietro al lago di Sirio, abitata da Claudia e Paolo, una coppia con tre figli,
e si sistemarono per la notte.
Il mattino seguente Simone, Rosario, Antonio e
Claudia riunirono la direzione strategica, mentre Annette e Paolo portarono i
bambini a vedere gli struzzi e le api in una fattoria non lontana.
Cominciò a parlare Simone: “Dobbiamo essere
pronti tra 21 giorni esatti. Due compagni del Fronte di combattimento hanno
svolto sopralluoghi accurati nella zona per capire la parte più vulnerabile.
Claudia vi ha già dato ieri sera il rapporto sulla sorveglianza”.
“In tutto serviranno dodici compagni” proseguì
Simone, “circa un terzo delle nostre forze. È tanto, ma lo sapevamo. In quattro
collocheremo l’esplosivo, mentre gli altri otto serviranno per neutralizzare la
sorveglianza e controllare la via di fuga, che è qui”. Simone indicò un
percorso sopra una pianta della città.
“Allora” intervenne Antonio, “la sorveglianza
va presa?”.
“Temo di sì”, rispose Simone. “Come potete
vedere, ci sono diverse macchine che girano intorno all’edificio. Dai video
fatti si ricava la frequenza dei passaggi. Stanno nel rapporto. Avete letto
anche la parte che riguarda il grado di attenzione e capacità reattiva delle
guardie?”.
“Letta. Ma da cosa è dedotta?” chiese Antonio.
“Età e aspetto. Se hanno la pancia, se fumano,
elementi che di cui si è tenuto conto. Dopo il turno di giorno, inoltre, sono
stati seguiti tutti: alcuni si ritrovano in un bar e tirano tardi. Bevono. Per
noi è una buona cosa. Lavorano una notte e ne riposano tre. Ci sono turni
apparentemente messi meglio. Ci organizzeremo per quello ritenuto il meno
reattivo”.
“Ma che intendi per prendere le guardie, ucciderle?”, fece Claudia.
“Fermarle”.
“Fermarle. Che vuol dire? Che ce ne stiamo in
strada con i mitra spianati e loro con le mani in alto?”
“Più o meno. Il gruppo incaricato blocca la
prima auto, fa scendere la sorveglianza, la disarma e la carica su un pulmino
con le mani legate dietro la schiena. Fa così con la seconda e con la terza
auto. A quel punto piazziamo l’esplosivo, ci mettiamo in sicurezza e lo
facciamo detonare”.
“Non lo so. Rischiamo lo scontro a fuoco.
Secondo me questa storia della sorveglianza va risolta in un altro modo”, disse
ancora Claudia. “Riprendiamo da capo. Quattro di noi devono piazzare la bomba.
Due sono di copertura e due lavorano. Non va bene. In un modo o nell’altro,
rischiamo la sparatoria”.
“Cosa proponi in alternativa?”, fece Antonio.
“Un’autobomba. Due, se necessario”.
“No”, fece Rosario, che fino a quel momento
aveva ascoltato. “L’autobomba può fare una strage. Per ottenere consenso tra
gli operai non ci devono essere vittime. Non in questa fase. Politicamente, non
le possiamo sostenere”.
“Rosario ha ragione” fece Antonio. “Lasciamo
perdere il muro di cinta e piazziamo il plastico dentro l’edificio principale”.
Claudia
e Simone guardarono Antonio, ragionando sulle sue parole.
“In che modo?” chiese Simone.
“Dalle fognature. C’è un ingresso a due
chilometri”, rispose Rosario, che aveva studiato la cosa con Antonio. “In quel
caso non ci dovremmo avvicinare troppo all’obiettivo, ma controllare un raggio
minimo, esterno e abbastanza defilato. E serviranno solo due compagni per
piazzare l’esplosivo, proprio qui, al centro”.
Tutti guardarono i disegni che nel frattempo
Antonio aveva aperto sul tavolo.
“Vedete, il canale principale porta
direttamente all’altezza dei bagni. Piazzate la bomba e tornate indietro. La
sorveglianza esterna non rischia nulla e faremo più danno. In settimana due
compagni hanno avuto l’idea e si sono procurati lo schema. È fattibile”.
Simone ragionò. Guardò Claudia: “Mi sembra buona.
Dovremmo scendere e controllare se tutto corrisponde e non ci sono accessi
chiusi. Io penso che li incontreremo, ma non sarà un problema, a meno che non
abbiano piazzato degli allarmi. Ci andrai tu”, fece rivolto a Claudia, “con
Annette e Andrea. Lo facciamo salire da Firenze per il prossimo fine
settimana”.
La ragazza annuì.
“Entri da sola. Devi filmare tutto da quando aprite il
tombino fin sotto all’obiettivo. Tra due settimane ci riuniamo di nuovo. A quel
punto ci saranno anche Luca e Marianthi e sentiremo il loro parere. Quello di
Marianthi in particolare, che verrà con me a piazzare l’esplosivo. Lei è
un’esperta e ne conosce potenza, detonazione, distanza massima. E decideremo.
Però terrei in piedi anche il piano con cui abbiamo cominciato. Non si sa mai”.
“A proposito” chiese Claudia a Rosario, “notizie del
viaggio?”.
“Tutto tace, quindi tutto bene. Aspettiamo un
segnale con l’ora e il luogo dell’appuntamento. Una barca è ormeggiata sotto
Lecce. Li aggancerà quando entreranno nelle nostre acque”.
“Va bene” riprese Simone, “torniamo all’azione.
Le auto. Quante ne abbiamo?”
“Per ora nessuna” rispose Rosario, “perché non
c’è un posto dove tenerle e lasciarle in strada a lungo è rischioso. Le rubiamo
il giorno prima. Ne servono quattro. Abbiamo anche una targa svizzera con il
libretto di una Bravo. Con quella porteremo Marianthi a Basilea, dove prenderà
l’aereo per Atene. Si imbarcherà nella parte francese dell’aeroporto. Eviterà
maggiori controlli”.
“Va bene” fece Simone, “ci aggiorniamo a fra
due settimane. Terremo la riunione generale tre giorni prima dell’azione con
tutti i compagni coinvolti. Anche se passiamo per il sistema fognario,
serviranno comunque dodici persone. Noi quattro, Luca, Marianthi, Annette,
Andrea, le due compagne di Torino e due di Genova. Piazzato l’esplosivo,
Antonio e Marianthi partiranno per Basilea. Annette e Rosario scenderanno in
macchina verso Roma, dove Annette prenderà un aereo per Zurigo. Rosario
proseguirà per Lamezia Terme, dove incontrerà Antonio che sarà rientrato da
Basilea. Andrea e Luca saliranno ognuno su una Freccia d’argento da Milano,
dove li accompagnerai tu” fece a Claudia. “Alla stazione della metropolitana di
Abbiategrasso si dividono, uno va in metrò, l’altro in tram. Io mi fermerò per
due giorni dalle compagne di Torino e rientro a Roma in treno. I genovesi, che
non parteciperanno direttamente all’azione, dovranno recuperare le armi e
riportarle in Svizzera dallo stesso passaggio che abbiamo usato noi; Annette
dovrà andargli incontro. Approvate?”
Gli altri tre fecero segno di sì. Prese la
parola Claudia.
“Fin
qui ci siamo. Ora veniamo alla parte dolente, quella politica. Gli italiani non
vogliono più sentire parlare di fabbrica. Preferiscono ‘industria’, che fa
pensare al made in Italy e non ai
turni, alla linea e alla fatica. Noi, con questa azione, vogliamo si ritorni a
parlare del lavoro in termini aderenti alla realtà. Il documento di
rivendicazione deve essere chiaro e senza premesse ideologiche, che servono
solo a farlo definire delirante dai telegiornali. Lo diranno lo stesso, ma
cercheremo di costringerli a citarlo. Diremo chi sono i buoni e i cattivi.
Molto schematici. E che colpendo lo Straniero proprio in casa sua vogliamo
fermare l’avanguardia dell’ennesima ristrutturazione del capitale, che sta
mettendo sul lastrico una generazione pur di aumentare una produttività,
peraltro già altissima, e fondamentalmente inutile, visto che di macchine se ne
vendono meno che in passato. Ci dobbiamo rivolgere agli operai, perché è
attraverso loro che stanno passando i principali assetti della
ristrutturazione; i quali, una volta consolidatisi in fabbrica, saranno
adottati negli altri luoghi di lavoro. La fabbrica oggi non è più un punto di
riferimento delle avanguardie, ma il nemico da abbattere. Se vuole tornare a
essere un operaio, il lavoratore deve volerne una nuova, diversa da quella
integrata modulare creata dello Straniero”.
Claudia si prese il tempo che mancava alla riunione
seguente per stilare il comunicato di rivendicazione e portarlo in
approvazione.
La mattina stava finendo. Era coperto, ma non sarebbe
piovuto. Sciolsero la riunione e andarono in giardino per preparare il pranzo.
I bambini sarebbero rientrati affamati e dopo aver preparato la brace misero
sulla griglia bistecche, pancetta e pezzi di pollo. Stapparono del vino e
apparecchiarono.
I ragazzini precedettero di corsa Annette e Paolo.
Erano felici. Il piccolo Marco raccontò subito alla madre degli struzzi enormi
che avevano visto, grandi e paurosi. “Ma io non ho avuto paura”, fece. “Maria
Laura, invece, non è salita fino al recinto, li ha guardati da lontano”.
“Non è vero” obiettò Maria Laura, “papà mi ha detto
che era pericoloso e siamo andati a vedere le api con Michele”
“No, Michele è venuto con me, vero Michi”, ribatté
Marco.
“Diglielo tu, papà, che siamo andati a vedere le api e
che Marco ha avuto paura che lo pizzicassero”
“Siete stati tutti coraggiosi”, provò a mediare
Annette. “Gli struzzi sono grandi, ma le api tante e se ti avvicini troppo si
innervosiscono. E Maria Laura ci è andata proprio a due passi, mostrando un
coraggio enorme”.
“Dov’è la bici”, fece Marco.
“Niente bici adesso”, rispose Claudia. “Ora vi andate
a cambiare, vi lavate le mani e scendete in giardino che si mangia. Potrai
andare in bici una volta finito, ma senza allontanarti. Marsch”.
“Tanto”, fece Marco, “Maria Laura usa ancora una
rotella perché sennò cade”.
Maria Laura prese il padre per mano ed entrò in casa.
Si tolse le scarpe infangate e corse sopra a cambiarsi.
La carne era pronta. Rosario riempì un vassoio e lo
mise in tavola. Antonio versò da bere. I bambini erano seduti e Claudia riempì
i bicchieri di coca cola, quella che si vende nei discount. Maria Laura aveva
portato una bambola e si aspettava i complimenti. Che non mancarono,
specialmente da parte di Annette, che la lodò molto. Paolo portò un’insalata e
tutti cominciarono a mangiare.
“Chi vuole il pollo”, disse Annette, “mi deve dare
quel bacio che ha rifiutato alla fattoria”.
Marco arrossì. Si alzò, esortato dalla mamma, e si
avvicinò ad Annette. Lei si chinò e lui la baciò sulla guancia. Gli altri si
misero a ridere e Marco tornò al posto con un pezzo di pollo abbrustolito nel
piatto. “L’insalata però non la voglio”.
“Se metti l’insalata assieme al pollo viene fuori lo
stesso gusto dei fast food, che ti piace tanto”, disse Claudia. “Prova”.
“Solo se la mangiano anche Maria Laura e Michele”
“Io non la voglio”, fece Michele.
“Va bene” intervenne Paolo, “facciamo così. Prima
mangiate la carne. Dopo, l’insalata. Due foglie, fate contenti mamma e papà e
correte a giocare”.
“Lo sai” fece Maria Laura a Rosario, che gli sedeva
vicino, “che a scuola ci hanno fatto studiare Giulio Cesare? Tu lo conosci?”
“Giulio Cesare? Certo, era un dittatore e l’hanno
ucciso”.
“Ma era buono. Aveva fatto tante conquiste. Poi erano
invidiosi e l’hanno assassinato. Pensa che è stato il figliastro. Dopo tutto il
bene che gli aveva fatto”.
Claudia guardò Rosario.
“Hai ragione. Non dovevano coinvolgere il figlio. È
una cosa brutta. Che altro avete studiato a scuola?”
“Io” fece Marco, “ho letto la storia dei castelli.
Tutti si rifugiavano nei castelli quando arrivavano gli stranieri e si
difendevano. La maestra dice che ne sono rimasti tanti anche in Italia. Qui da
noi ce ne sono due, ma sono chiusi. Peccato, li volevamo visitare”.
“Questo è un Barolo del ’94”, disse Paolo riempiendo
il bicchiere di Annette. “In Svizzera non lo trovi”.
“Certo che lo trovo. Ma costa caro. Dimentichi che
siamo pieni di Italiani, e importano tutto”.
“La Svizzera è cara da morire. In realtà un po’ meno
ora che c’è l’euro, ma è sempre cara”.
“Prima avevamo la lira”, disse Maria Laura. “La
maestra ha portato in classe delle vecchie monete italiane. Dice che ora non ci
puoi comprare nulla. Neanche una busta di figurine delle Wings”
“E nemmeno dei Gormiti”, aggiunse Marco.
Claudia si rivolse a Paolo: “Annette resta con noi tre
settimane”.
“Che bella notizia”, fece Paolo. “Ci guarderai i nani
e noi potremo andare al cinema!”
“A patto che una sera li guardi tu, e io e Claudia
andiamo a ballare”
“A ballare? Alla vostra età?”
“Alla mia età”, fece Annette, ma si fermò. “Te lo dico
dopo, quando non ci sono i nani”.
Finito di mangiare Rosario e Antonio ripartirono. La
strada per Melfi era lunga e sarebbero arrivati a notte fonda. Senza dormire,
sarebbero entrati direttamente in fabbrica per il primo turno. Paolo e i
bambini accompagnarono Simone a Torino, dove prese un treno per Roma. E visto
che erano in città, entrarono in un cinema dove proiettavano l’ultimo episodio
della sagra di Nanja.
Capitolo 6
Il Papagos
Partirono presto, in quattro. Guidava Panayotis, un
compagno taciturno che fumava in continuazione e se parlava era per proporre
una sosta caffè. Accanto a Panayotis sedeva Michalis, che Luca aveva conosciuto
a Patrasso due giorni prima.
Il viaggio durò cinque ore. Passarono Corinto, Sparta,
di cui non è rimasto nulla, come dicono le guide turistiche, quindi scesero
lungo il terzo piede del Peloponneso. Alcuni tratti di strada costeggiavano il
mare, altri, pieni di curve, si inerpicavano per colline brulle. Faceva molto
caldo e c’era traffico, rallentato dalla frequente presenza lungo la strada di
capre e mucche. A volte Panayotis rischiava un sorpasso, ma spesso si teneva a
distanza di sicurezza, lasciando la strada agli altri greci, impazienti di
raggiungere la destinazione. Ad Aeropolis, il capoluogo del Mani, si fermarono
per un ultimo caffè, che presero nella piazza principale. Quando ripartirono
comparvero le prime torri di pietra, che da quel momento non avrebbero più
lasciato l’orizzonte. Erano case nuove, ma tirate su alla maniera tradizionale.
La loro altezza, un tempo, indicava la fama e alla dignità del clan; ora, il
denaro speso. In fondo, era cambiato poco.
Nei pressi di un grande golfo, dove sembrava che
finisse il mondo, sorgevano cave di pietra, che era venduta al dettaglio. Luca
si ricordò di un viaggio in Puglia, in agosto, dove sotto un caldo torrido
aveva visto un uomo così grasso da occupare tutta la cabina di un’Ape carica di
pietre e pensò che l’espressione una faccia una razza avesse un fondamento. Il golfo terminò e la strada,
costeggiando nuovamente il mare, aprì un nuovo paesaggio. Risalì per un
chilometro e condusse all’ultima, ripida discesa verso Porto Caghio, un piccolo
villaggio di case basse e torri di tre piani, alberghi per turisti. La strada
terminava lì, proprio davanti a una delle torri, diventando sabbia.
Parcheggiarono sullo sterrato accanto a due caravan con targa francese e
scesero. Porto Caghio sorgeva nella parte orientale di un promontorio, che
formava due piccoli golfi speculari. Il golfo che guardava a occidente era
pieno di bagnanti, mentre di fronte alle torri la spiaggia era così stretta che
ci stava una sola fila di ombrelloni, praticamente a riva. Luca si gettò in
acqua, mentre gli altri entrarono in una taverna. Si misero a sedere a un
tavolo e ordinarono il pranzo. Quando li raggiunse, si erano uniti altri due
greci, che Michalis gli presentò:
“Non ha saputo resistere alla calura il nostro
italiano. Questi sono Andonis e Yorgos. E questo è Luca”.
Mangiarono e anche Panayotis finalmente si rilassò,
ridendo assieme agli altri. Marianthi ogni tanto traduceva, ma la conversazione
era banale e Luca troppo stanco per seguirla. Alla fine del pranzo si alzarono
e si avviarono verso una delle torri. Salutarono un anziano ed entrarono in una
stanza al piano terra. Accesero il condizionatore e chiusero la porta. Nuotando
tra le barche ormeggiate, Luca aveva cercato quella con cui sarebbero partiti,
ma non gli sembrò di vederne nessuna in grado di affrontare un viaggio in mare
aperto. Solo vecchi scafi da diporto.
“La barca” disse Andonis, “è ormeggiata alla
fine del golfo, dall’altra parte della costa. La raggiungeremo con un gommone.
Abbiamo caricato i vestiti per Luca e le giacche a vento. Che esperienze hai di
mare?”
“So portare un gommone”, rispose Luca.
“Niente vela?”
“No”.
“Imparerai, se serve. Le previsioni per i
prossimi giorni sono buone, quindi non dovremmo avere problemi. Ci sono due
cabine. Tu e Marianthi dormirete in una, io e Yorgos nell’altra. Ci fermeremo
al tramonto e ripartiremo all’alba”. Aprì sul tavolo una carta nautica e segnò
il percorso con il dito. “Ora siamo qui. Domani mattina alle sei ci dirigiamo
verso quest’isola, Kithira; la doppiamo e raggiungiamo la seguente,
Antikithira, dove passeremo la notte. Martedì ripartiremo per Creta e a Chanià
ci fermeremo per la seconda notte. Da lì abbiamo due giorni per arrivare al
nostro porto, all’estremo opposto dell’isola, Agios Nikolaos. Ricordatevi che
siete dei turisti” fece a Luca e Marianthi. “Avete affittato una barca con
skipper e la sera, quando saremo in porto, voi scenderete a mangiare in un
ristorante; io e Yorgos rimarremo sulla barca”. Si rivolse a Panayotis e
Michalis: “Potete restare per la notte, oppure ripartire, vedete voi. Dal
momento che ci lasciamo non ci saranno più comunicazioni fino alla consegna del
dono in Italia. Allora vi manderemo un segnale radio. I compagni che
controlleranno la rotta”, fece rivolto a Luca, “interromperanno il silenzio
radio solo per avvertici in codice della presenza della guardia costiera”.
Gli autisti decisero di partire e tutti uscirono. Luca
strinse loro le mani e li ringraziò. Panayotis lo guardò e in greco gli augurò buona
fortuna. Andonis e Yorgos andarono via con loro, perché di strada abitava il
compagno che al mattino li avrebbe portati alla barca. Luca e Marianthi,
rimasti soli, rientrarono in camera per ripararsi dal sole. Si stesero sul
letto, uno accanto all’altra, ma Luca era impaziente:
“Visto che siamo turisti” disse, “cambiati e
andiamo in spiaggia”.
Marianthi
era indecisa, ma alla fine accettò. Trovarono un ombrellone libero con due
lettini. Provarono a intavolare un discorso sulla famiglia, ma vinto dal sonno
Luca si addormentò. Quando si svegliò, Marianthi non c’era. Guardò in acqua,
quindi verso la taverna. Attese qualche istante e si addormentò di nuovo. La
ragazza lo svegliò un’ora più tardi. Andonis e Yorgos stavano ormeggiando il
gommone. Con loro c’era una terza persona, che restò sullo scafo a fare
qualcosa prima di scendere in mare e raggiungere la riva a nuoto. Erano le
sette di sera. Il sole si era spostato e Luca si sentiva scottare un fianco.
“Devo aver dormito tutto il pomeriggio”
“Non sei stato di grande compagnia”, rispose
Marianthi.
“Ho raccolto le forze per domani”
Marianthi
sorrise e gli fece cenno di alzarsi. Dopo essersi presentati con il terzo
compagno, che si chiamava Yorgos anche lui, tornarono in stanza e si vestirono
per la cena, che consumarono alla stessa taverna del pranzo. Andarono a dormire
sotto un cielo nero e pieno di stelle, come doveva essere quello che un tempo
si vedeva in ogni parte di questo mondo, quando non c’erano le luci della
città.
***
Marianthi
e Luca si alzarono alle cinque e poco dopo uscirono. Andonis e i due Yorgos li
stavano aspettando. Salirono in fretta sul gommone e con il motore al minimo
raggiunsero la barca. Era una vecchia barca a vela di dodici metri rimessa a
nuovo che batteva bandiera greca e si chiamava Papagos. “È il nome del generale che guidò la resistenza
all’invasione italiana del 1940”, disse Andonis. Yorgos li salutò e si
allontanò. Tolsero gli ormeggi, accesero il motore e richiamarono le ancore.
Lasciarono Porto Caghio e virarono verso il mare aperto.
L’Egeo è un mare ventoso, non si tratta di una
leggenda. La linea ideale di confine con l’Adriatico corre lungo il primo piede
del Peloponneso e si racconta, ma questa è una leggenda, che ci sia un
dislivello di qualche centimetro quando si passa dall’altra parte. Il fatto è
che lì si nasconde una secca di pochi metri che nel corso dei secoli ha
provocato centinaia di naufragi. “Al ritorno, quando ci dirigeremo verso
Cefalonia e ci passeremo vicino, vi farò vedere il punto esatto”, disse
Andonis, di ottimo umore. Ogni tanto indicava qualcosa sulla superficie del
mare, un branco di tonni, delfini e altri pesci che Luca non sempre riusciva a
distinguere. Doppiarono Kithira e proseguirono per Antikithira, dove giunsero
verso il pomeriggio. Gettarono l’ancora in una baia, si fecero il bagno assieme
ad altri velisti e ripresero la rotta per un porticciolo. Yorgos scese sulla
banchina per ormeggiare la barca mentre il sole stava tramontando. Marianthi,
che era stanca, invitò Luca a cambiarsi per andare al ristorante al più presto.
“Me l’ero dimenticato. Faccio subito”
Salirono una scalinata di fronte al porto e trovarono
una taverna che guardava il mare. Ordinarono polpo alla brace, formaggio fuso e
due insalate.
“Ti va del vino” chiese Luca?
“Rosso”.
Lo portarono freddo in una brocca di rame che sembrava
coperta di rugiada. Andava giù veloce e forse era troppo rispetto al cibo.
“Hai fratelli?” chiese Luca.
“No. I miei non hanno potuto avere altri figli dopo di
me”.
“Cosa fanno i tuoi?”
“Mio padre è un pittore, mia madre sta a casa.
Non li vedo mai. Abitano a Salonicco. Una volta all’anno sento la mamma per
sapere come sta. Parlo solo con lei. Con mio padre non riesco”.
“E Spiro? Non lo hanno visto”
“No. A dire il vero, non volevo neanche dirglielo.
Mi ha convinto Aristotilis. Non sono scesi, e noi non siamo saliti”.
“Potevate incontrarvi a metà strada” fece Luca,
ma si morse la lingua.
Marianthi
si accorse del suo imbarazzo: “Forse hai ragione, potevamo. Ma la vita è
complicata”.
“Quindi sei di Salonicco? Come si dice,
tessalonicense?”
“Già. Ho fatto lì le scuole e a diciassette
anni sono partita per Atene. Ho girato un po’ l’Europa, sono stata in Italia,
come ti ho detto, a Bologna, dove ho provato a fare l’università. Alla fine mi
sono ritrovata in un campo di addestramento in Libano. Dopo i fatti di Genova”.
“Eri a Genova?”
“Sì. Con quelli che chiamano black-blok. Gli
anarchici. Non è vero che nessuno ci ha fermati, come hanno scritto. Ci
cercavano per tutta la città, ma noi eravamo organizzati e ci muovevamo
velocemente. Allora sono andati su quelli che non avevano fatto quasi niente,
l’obiettivo più facile. Noi dormivamo sparsi, divisi in piccoli gruppi. Sempre
in comunicazione attraverso i cellulari, in codice e in tutte le lingue del
mondo. Anche se ci intercettavano, cosa avrebbero capito? Io vivo per camminare
sulla testa dei re. Mi nutro di questa speranza. E per farlo si deve
oltrepassare il confine”.
Lo guardò seria. “Non stai per farlo anche tu? Io, te
e gli altri compagni italiani stiamo per mettere una bomba e distruggeremo
qualcosa. Qualcosa di importante. E magari ci saranno dei morti. E poi? Tu che
penserai, dopo? Quanti piangeranno? Vorrei essere con loro e chiedergli cosa
vedono al di là del pianto. Tu lo sai, Luca?”.
“No. E vorrei non saperlo. È un fatto politico,
non personale. Per questo non capisco il vittimismo ora in voga in Italia. Non
mi riferisco solo alla lotta armata. Sembra che il Ventesimo secolo sia stato
solo il secolo delle vittime. Dei buoni, dei giusti. Gli altri, tutti da
escludere dal racconto, o al più da includere come carnefici. Mi fa schifo la
storia raccontata in questo modo. Non ho ancora letto una costituzione che non
sia stata scritta con il sangue. Il sangue c’è sempre stato. Ha segnato le svolte”.
“Loro sostengono che è sangue innocente”
“Può esserlo stato, in alcuni casi. Ma il più
delle volte si è trattato di scelte. Scelte politiche. O da una parte, o
dall’altra. Il carnefice poteva essere la vittima. Se così non fosse, non si
spiega la banalità del male, che molti citano anche a sproposito. Se il male è
davvero così banale, allora chiunque può commetterlo. Una questione di tempi,
di opportunità. E comunque la testa al re l’hanno tagliata più di duecento anni
fa”.
Luca offrì una sigaretta a Marianthi. Aveva tante
domande ancora da farle, sul campo d’addestramento, su Spiro, sulla sua
militanza. Ma tacque. Fumò e chiese il conto.
Al ritorno videro che Andonis e Yorgos avevano fatto
amicizia con lo skipper della barca ormeggiata accanto. Stavano bevendo
dell’ouzo insieme ma come salirono in barca lo skipper salutò e tornò sulla
sua. Scesero in coperta e Luca, spostando una borsa, trovò una scacchiera. Salì
di corsa e chiese di chi fosse. Erano mesi che giocava a scacchi contro il
computer e voleva provare, finalmente, con un essere umano. Si fece avanti
Yorgos e lo invitò a sedersi.
Luca era elettrizzato. Il greco versò dell’ouzo,
sistemò i pezzi e attese la prima mossa. Luca aprì con il pedone della regina.
Yorgos rispose con quello dell’alfiere. Luca mandò avanti il pedone del re e la
partita si sviluppò su linee centrali, finché Luca non riuscì a mangiare una
torre. Yorgos lo guardò e versò altro ouzo. Entrambi avevano perso quattro
pedoni, ma i pezzi di Luca controllavano la maggior parte del quadrato, mentre
quelli di Yorgos erano ammucchiati sulla destra. Quando Luca prese anche la
seconda torre, Andonis si fece una risata e disse qualcosa in greco. Marianthi
era salita sul ponte e li guardava. Versò dell’ouzo e si sedette con Andonis. Lo
scacco matto giunse alla ventiseiesima mossa e Yorgos non fece una piega. Girò
la scacchiera e aprì di cavallo. Con i bianchi resistette di più, ma alla
sessantaquattresima mossa si ritrovò solo con il re contro due regine e
abbandonò. Andonis e Marianthi si erano allontanati e parlavano. Yorgos e Luca
provarono ad alzarsi, ma ormai erano ubriachi. Si guardarono e versarono altro
ouzo.
“Può bastare”, intervenne Andonis. Prese Yorgos
e lo aiutò a scendere in coperta. Fece lo stesso con Luca, che tentava di
avviare un discorso un po’ sconnesso con Marianthi. Si ritrovò in cuccetta, con
la testa pesante e la ragazza che si toglieva i pantaloni per la notte. Fu il
suo ultimo ricordo.
L’indomani partirono verso le 9. Il mozzo e il
nocchiero, come li aveva chiamati Marianthi, erano molto abili. Le vele
prendevano subito il vento e la barca correva via veloce. Ogni tanto
incrociavano altre barche, che salutavano. Verso mezzogiorno Andonis provò a
pescare. Gettò a poppa il filo con l’amo e chiese a Luca di tenerlo. Fece una
manovra e rallentò lo scafo. Proseguivano lentamente e Luca osservava il mare,
speranzoso. Non abboccava niente. Marianthi era in piedi vicino a lui.
L’orizzonte sembrava tagliarle il volto. Un orizzonte retto, limpido, chiaro.
Forse fu quello il momento in cui Luca si innamorò.
Da quando aveva perso Ol’ga era rimasto in balia dei
sentimenti. Alcune donne lo avevano attratto, anche molto, ma la compagna
scomparsa era troppo presente e ciò lo irrigidiva. Aveva avuto comportamenti
strani, scatti d’ira che amplificava volutamente e che finivano per farlo
sembrare un pazzo. Lui ne era allo stesso tempo contento e dispiaciuto, e la
vita andava avanti. Solo a Vienna stava per lasciarsi andare con la ragazza di
Belgrado, ma anche lì, alla fine, rovinò tutto e la perse. Aveva capito che
quello era un modo per punirsi.
Con Marianthi era diverso. Era per via del seno? Anche
quello di Ol’ga era bello, ma lei una volta gli aveva detto “attento, che
quello che oggi sta in piedi un giorno potrebbe cadere”. Sapeva chiaramente
dove cercare l’origine di questa sua fissazione. Era stato tanto tempo prima,
quando i genitori lo avevano portato a fare una passeggiata lungo un fiume.
Durante la sosta per il pranzo, la madre di un altro bambino che era con loro si
tolse la camicia e restò in reggiseno. Era nero, diafano, e mostrava
chiaramente i capezzoli scuri di quelle tette così grandi. Luca non ebbe la
forza di voltare lo sguardo e la sera fu rimproverato dalla mamma. Ne era
ancora condizionato e un giorno decise di affrontare la cosa come si trattasse
di una malattia. Ma, nonostante gli sforzi, non era ancora guarito.
Comunque non era solo il seno di Marianthi ad
attrarlo, ne era certo. Aveva qualcosa che non riusciva a focalizzare. Come se
recitasse a teatro, davanti a un pubblico, ma solo per nascondere le quinte,
dove custodiva la sua vera essenza. Di quella, di cui intuiva l’intensità, si
stava innamorando.
Giunsero nel porto di Chanià poco prima del tramonto.
Marianthi e Luca fecero un giro, mangiarono in un locale e tornarono al
Papagos. Luca batté nuovamente due volte Yorgos e poi scomparve in coperta con
Marianthi. Aprì una piccola bottiglia di ouzo che aveva comprato in uno spaccio
e versò da bere.
“Brindiamo alla nostra missione”
I
bicchieri di plastica si toccarono e Luca sfiorò la mano di Marianthi. Lei
mandò giù l’ouzo d’un sorso e ne prese ancora. Come se durante il giorno avesse
letto i pensieri di Luca, gli disse:
“Facciamo parte di una scena. Siamo sempre
sulla scena, anche adesso, io e te, in questo istante. Svolgiamo il nostro
ruolo con dedizione. In omaggio a qualcuno che ci ha messo qui”
“In omaggio, o in memoria di qualcuno?” chiese
Luca. “La nostra è una società violenta. Secondo me siamo qui in memoria di
qualcuno. Tutti abbiamo almeno un morto alle nostre spalle. Magari i miei sono
un po’ troppi” fece patetico. Si fermò. Gli venne in aiuto Marianthi: “A cosa
ti aggrappi quando ti accorgi che la Storia è crudele con il mondo?”
“A qualcosa di banale”
“Come a un salvagente, se questa barca dovesse
affondare?”
“Sì”
“E non pensi che nella notte senza fine in cui
ci hanno ridotto, i salvagente non si vedono?”
“No. Non ho paura del buio. Mi fa più paura la
luce del giorno. È quella che ci ha reso schiavi. Solo le venature del giorno
sono peste di sangue. Da noi, in Italia, gli arresti li fanno sempre all’alba,
come un tempo impiccavano la gente”.
“Non ti senti mai come su un tavolo anatomico,
con la pelle fredda su quella striscia di metallo e un bisturi sta per incidere
il tuo stomaco, la gola, infine la fronte, per rovesciarti il cuoio dei capelli
e lasciare che l’aria penetri nel tuo cervello?” Marianthi guardò fuori
attraverso il vetro tondo della cabina. “Io mi ci sento spesso, smarrita in
mezzo a tutte queste stagioni che si sovrappongono così velocemente da sembrare
impalpabili, inesistenti”.
“Il tempo è malato di disordine” rispose Luca.
“Ti costringe a scegliere costantemente come curarlo”. Si versò un altro
bicchiere e le si fece più vicino.
“Per quanto tempo voi greci avete cercato di
raggiungere il Bosforo, senza successo? Lo ritrovo nei tuoi occhi quel mare
così duro, teso e nero come la notte di cui parlavi. Conosci i cinque colori?”
“Quali?”
“Quello di una conchiglia vuota, del centro della tua
dorsale, di un uomo che non segue la tradizione, del corallo che abbiamo visto
in Egitto e della testa smisurata dello spazio”
“Non ti capisco”, fece Marianthi.
“Io sono cresciuto con mia nonna. Ho perso i genitori
quando non ero nemmeno un adolescente e se non guardassi le loro foto, li avrei
già dimenticati. Mi ha cresciuto, mi ha dato tutto quello che aveva. Eppure,
gli ultimi anni li ha trascorsi da sola, seduta in cucina, perché io ero in
Russia. La mattina guardava il sole, il pomeriggio guardava la sera. Avrebbe
potuto mangiare per giorni pane inzuppato nell’acqua e zucchero e qualche
patata. Come se la guerra non fosse mai finita. Forse teneva viva la speranza
che tutto dovesse ancora cominciare, e che non avesse ancora perso il figlio e
la nuora. Per farle compagnia le comprai un gatto. Lo chiamava Ciociò. Quando
la faceva arrabbiare il suo nome si trasformava in Cioccia. Vattene sa, gli
diceva, mo’ te pisto. E Ciociò scappava come un missile. Per questo non
riusciva a prenderlo. Quando tornava, le si sedeva sopra le ginocchia,
nell’ombra della cucina. Mia nonna lo accarezzava aspettando l’ora di cena,
guardava un po’ di televisione e se ne andava a letto. Ogni giorno appiccicato
all’altro, identico e assurdo. A Roma uscivo il minimo indispensabile, per
recuperare il tempo nel quale ero mancato. Ma la persi. Oggi so che potevo fare
di più, molto di più. A volte, mi capita sempre più spesso, la notte non prendo
sonno; è come se dal cielo arrugginito piovesse sempre della polvere sottile
che blocca lo scorrere del tempo. Ne cambia l’essenza. Il centro della tua
dorsale lo immagino come una conchiglia vuota. Di quelle che ci ascolti il
mare. Entra il vento, improvviso, ammanetta i morti e li porta via. Resta solo
il corallo. Che non serve più a niente. Una volta Ol’ga, che era molto
inquieta, urlò che il mio volto era desolato come le spiagge sporche d’inverno,
come il luogo orrido e dimenticato dove uccisero Pasolini: Tu – mi disse –
anima vaga e approssimata, grande opera incompiuta che costruisce la vita quasi
fosse un meccano”.
Lo baciò. Si tolse la maglia e si abbandonò, incurante
che Andonis e Yorgos potessero sentirli.
Si amarono come fossero stati insieme tanto tempo
prima, come si fossero ritrovati adulti dopo un folle amore adolescenziale.
Luca si perse in quei seni che tanto aveva sognato, tra le sue gambe e sulle
onde profonde di quella pelle colore del Bosforo. Sudato, si tolse e la guardò
negli occhi.
“Sento la vita stringermi e stringo forte anche io”,
disse Marianthi. “Ma non si lascia serrare. Mi sfugge, come l’autunno che perde
le sue foglie”.
Luca non rispose. Fece cenno di no con la
testa, che questa volta non si sarebbero persi, e l’amò di nuovo.
Quando si addormentarono sognò Yorgos che stringeva un
kalashinov sotto l’avambraccio e applaudiva ritmicamente. Il rumore solitario
delle sue mani si scontrava contro la prua del Papagos e nel silenzio di Porto
Caghio si sentiva un’eco metallica che esorcizzava la paura per il futuro e la
quasi certezza che tutti avevano di uscire sconfitti. Una luce radente cadde
sul suo volto e Luca si svegliò. Marianthi era distesa su un fianco. Era ancora
buio, ma si sentiva il rumore di una barca in manovra. La luce illuminò di
nuovo la cabina e Luca restò immobile a osservare la ragazza, fino a quando non
ritornò l’oscurità.
Al mattino, Andonis e Yorgos tennero un comportamento
dignitoso. L’avevano capito dal primo momento che sarebbe andata in quel modo
ed erano sorpresi del ritardo con cui si erano realizzate le loro previsioni.
Mentre fumavano tutti assieme, navigando lentamente lungo la costa, Andonis
chiese a Marianthi cosa sarebbe accaduto ad Agios Nikolaos.
“Non lo so bene. Hanno detto che ci trovano
loro. Dobbiamo portare la barca in porto e aspettare”.
“Bene. Siamo in anticipo di un giorno. Ci
riposeremo”.
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