Il 16 marzo 1978 l’allora presidente della
Democrazia Cristiana, Aldo Moro, veniva rapito a Roma dalle Brigate Rosse. L’uomo,
il politico Moro, aveva rappresentato fino a quel momento uno dei cardini del
potere democristiano nel paese, grazie alla sua grande capacità di mediazione e
di interpretazione della fase politica contingente. Pronto a cogliere il
significato dei cambiamenti nel momento in cui questi si realizzavano, Moro,
mantenendo sempre centrale la posizione del suo partito, aveva la capacità di
delineare una tattica politica conseguente, che nel corso degli anni si venne a
precisare come strategia complessiva per un rinnovamento politico dell’Italia.
Non si trattava di passaggi meccanici, ma di una serie di riforme con tempi
lunghi, che a partire dalla fine degli anni Cinquanta avrebbero dovuto portare
alla massima partecipazione della società civile al governo del Paese.
L’allargamento dell’area di governo al Psi nei primi anni Sessanta costituì il
primo passo; l’esaurimento di quella politica e l’avanzata elettorale dei
comunisti aprirono una nuova fase, che avrebbe potuto concludersi o con
l’ingresso dei comunisti nell’esecutivo attraverso forme adeguate (ad esempio
come ministri tecnici d’area) o con il loro ritorno all’opposizione, dopo la
fase della solidarietà nazionale. A prescindere dai possibili veti degli Usa e
degli altri Paesi della Nato, comunque, gli ostacoli interni a un ingresso del
Pci nel governo erano molti e non lasciavano prevedere un simile esito con facilità;
anzitutto la Democrazia cristiana, nel suo complesso, non era unita su questo
punto.
Il
mondo imprenditoriale, poi, non era favorevole a un impegno diretto dei
comunisti nell’esecutivo.
Lo stesso Partito comunista, del resto,
non era del tutto compatto sulla partecipazione a un governo con i democristiani,
a una grosse Koalition che mandasse all’opposizione i socialisti, provocando
con essi una grave rottura e lasciando spazi aperti a sinistra. Certo,
l’eurocomunismo propugnato da Enrico Berlinguer ipotizzava la costruzione di un
socialismo democratico lontano dai condizionamenti dell’Urss e proiettato in un
contesto atlantico, e tale ipotesi apriva prospettive che lasciavano
intravedere alla fine del percorso una nuova democrazia dell’alternanza, ovvero
una seconda repubblica basata su una formula politica diversa da quella dei primi
trent’anni postfascisti. Tuttavia, le resistenze di una parte del partito erano
forti, mentre la formula dell’eurocomunismo era stata poco compresa dai più e
non aveva provocato entusiastiche adesioni nella base.
Moro voleva effettivamente giungere
all’attuazione, la più ampia possibile, della carta costituzionale coinvolgendo
nel governo, direttamente o indirettamente, il partito che rappresentava una
parte del Paese davvero consistente, rimasta per trent’anni esclusa a causa di
una serie di fattori oggettivi e peculiari. Questo cambiamento avrebbe significato
la fine di quella prima repubblica, intesa come sistema politico a centralità
democristiana e non in grado di estrinsecarsi in una democrazia compiuta. Dopo
una serie di ulteriori cambiamenti, anche all’interno del Pci, il Paese sarebbe
approdato a un ambito nuovo nel quale l’alternanza tra governi centristi e di
sinistra si sarebbe realizzata senza mettere in discussione la posizione
geopolitica della penisola. Si trattava di un passaggio davvero difficile,
ancorché realizzabile, che prevedeva il costante lavoro di mediazione di Moro
senza prescindere dalla lettura di quanto la realtà in movimento dettava alla
politica.
Le elezioni politiche del giugno
1976, che registrarono una forte avanzata dei comunisti pur in presenza di un
successo democristiano, furono interpretate da Moro come il fattore in grado di
aprire ispo facto una nuova fase politica; egli era pronto a condividere alcuni
temi berlingueriani, come l’austerità e la questione morale, che rivolgeva
anche al suo partito, considerato già nel corso del XI congresso (29 giugno
1969) vittima di una gestione «chiusa, inerte, carica di diffidenza e di
malinteso spirito di difesa, lontanissima da quel vasto respiro di libertà che
dovrebbe caratterizzar[lo]», ma il passaggio di fase, se poteva diventare
strategico per i comunisti, per Moro era dettato dalla contingenza del forte
spostamento a sinistra del Paese, e dunque corrispondeva a una precisa richiesta
di ampie fasce sociali che non si poteva più ignorare.
Sviluppando l’idea
degasperiana dei due tempi, Moro riteneva che si fosse aperta una terza fase
nella storia del Paese, nella quale la Dc non era più l’unico partito in grado
di governare; essa era costretta al governo, ma non più come nel passato. Il
Pci, infatti, stava maturando tutte le potenzialità per arrivare alla guida del
Paese, e la funzione della Dc, era quella di dare una risposta politica a tale
prospettiva, nel senso di un confronto aperto con le spinte che avevano portato
il Pci ad assumere un simile ruolo. L’esito di tutto ciò (nuova centralità
democristiana o alternanza) non era chiaro nella mente di Moro e tutto sarebbe
dipeso, dopo l’esperienza della solidarietà nazionale, dall’esito di un nuovo
passaggio elettorale. Se il Pci avesse perso voti, la Dc avrebbe riguadagnato
la propria centralità; in caso contrario, sarebbe stato necessario elaborare
una nuova formula per il governo del Paese. Il rapimento dello statista, però,
fu sufficiente a mettere in crisi questa strategia, perché gli uomini che fuori
pretesero di continuarla non la compresero e ne impoverirono i contenuti. Anzi,
alzando il muro della non-trattativa con le Brigate Rosse, i partiti politici,
e in particolar modo i comunisti, scelsero di continuare la politica di Moro
senza Moro. Lo scelsero coscientemente, ma ancora oggi non lo vogliono
ammettere. (segue)
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