MORO CON LA FIGLIA AGNESE |
Una delle maggiori
qualità politiche di Moro, che faceva di lui un caso unico tra i democristiani,
era quella di saper trovare soluzioni politiche a problemi contingenti
riuscendo a sfruttare gli elementi a disposizione in modo produttivo per il
proprio partito e, dal suo punto di vista, per il Paese. In un articolo
pubblicato sul «Giorno» alla fine del 1976, egli aveva posto con chiarezza i
punti della questione rispetto al Pci: non si poteva andare oltre la formula
della «non sfiducia» perché, in caso contrario, si sarebbero ignorati «dati
interni e internazionali che non possono essere trascurati»; nello stesso tempo
il Paese non poteva essere spaccato frontalmente «sulla base di pregiudiziali
alle quali l’opinione pubblica non riserva la stessa decisiva attenzione di
una volta». La terza fase in quel momento non appariva ancora delineata, ma non
era possibile considerare il presente come un punto di arrivo, bensì come «una
preparazione scrupolosa e responsabile per il domani».
Due anni più tardi le
cose erano ancora mutate e i comunisti chiedevano di entrare a far parte a
tutti gli effetti di un governo di emergenza. Per risolvere la crisi del
gennaio 1978 Moro aveva inizialmente prospettato un accordo di ampio respiro
con il Pci e immaginato il coinvolgimento dei gruppi parlamentari e del consiglio
nazionale del proprio partito per un dibattito generale e pubblico. Per avere
con sé tutto il partito, che su questa linea sembrava non seguirlo, fu però
costretto a ripiegare su una politica più misurata, incentrata su un accordo
programmatico-parlamentare con i comunisti, che si collocavano dentro la
maggioranza e dunque più avanti rispetto al governo della «non sfiducia», ma
ancora fuori dall’esecutivo. Nel corso del suo discorso ai gruppi parlamentari
del 28 febbraio 1978 Moro ricostruiva le fasi che dal 1976 avevano portato il
Paese a tali condizioni. Moro parte dai dati oggettivi («le cose che [sono] dinanzi
a noi») ed è esclusivamente sui fatti che egli vuole ragionare; la situazione
era nuova, inconsueta e non permetteva di essere risolta attraverso gli
strumenti del passato; essa, inoltre, non era causata da un vizio o da una
causa non individuabile, ma nasceva direttamente dalle elezioni politiche del
1976, peraltro venute dopo un importante referendum che aveva «sconvolto la
geografia politica italiana», dopo regionali che avevano visto una grande
affermazione comunista e dopo la dichiarazione del Psi di ritenere chiusa
l’esperienza del centrosinistra. Se era vero che la Dc era uscita vincitrice da
quel confronto elettorale, era altresì indubbio che i vincitori erano stati
due, in quanto anche il Pci aveva ottenuto un grande successo «e due vincitori
in una sola battaglia creano certamente dei problemi». Infatti, a causa della
sconfitta dei partiti laici e del Psi (peraltro contrario, come detto,
all’alleanza con la Dc) la forza politica che per trent’anni era stata capace
di governare o da sola, o aggregando intorno a sé maggioranze di un certo tipo,
non era più in grado di fare lo stesso. Si poteva rispondere con nuove
elezioni, ma per rispetto del Paese il partito era stato unito almeno
nell’evitare questa soluzione. Restava, dunque, la ricerca di vie diverse,
praticabili grazie a una novità rispetto al panorama degli ultimi trent’anni,
ossia il fatto che non solo i partiti in passato alla guida del Paese, ma anche
il Pci aveva manifestato un atteggiamento non ostile nei confronti della Dc. Si
poté, allora, lavorare all’interno di uno spazio che Moro chiamò «quadro del
confronto», ossia del dialogo tra due forze antitetiche, alternative, le quali
tuttavia potevano presentare alcuni punti di convergenza. Era da questo quadro
di confronto che nacque la formula della «non sfiducia». Tale situazione, che
andava bene nel 1976, nel 1978 si era però aggravata in quanto il Paese non era
uscito dalla crisi. A quel punto si rendeva dunque necessario per il partito di
Moro porre con chiarezza il limite invalicabile oltre il quale la Dc non poteva
andare – e questo fu individuato nella diretta partecipazione dei comunisti al
governo – ma all’interno del quale si potevano e dovevano percorrere tutte le
strade. Perciò, pragmaticamente, si doveva guardare alla situazione reale e
alle alternative, ovvero, chiedersi quali fossero i rischi concreti. E il pericolo
principale che Moro individua era quello di «passare la mano», ossia di vedere
al governo un’alleanza che escludesse la Dc. Egli non sapeva quanto considerare
probabile una simile evenienza, ma «mettiamola fra le cose problematiche, tra
le tante cose problematiche che debbono essere presenti alla nostra coscienza.
Potrebbe non essere vero, ma potrebbe anche esserlo» qualora si fosse andati
alle elezioni. Moro, dunque, pone i parlamentari del suo partito di fronte a
una reale alternativa alla trattativa politica, che egli chiama «atto di testimonianza»
e che definisce importante (le elezioni), ma allo stesso tempo respinge;
infatti questa «testimonianza» non solo non era chiara negli esiti, ma non
rappresentava neppure (fortunatamente) l’unica via. Se la Dc, per percorrere
un’alternativa alla «testimonianza» avesse dovuto rinunciare ai propri ideali e
valori, in quel caso Moro sarebbe stato pronto anche per una «ultima elezione».
Ma se tale alternativa che si prospettava permetteva al partito di restare
sostanzialmente entro i margini della propria linea, egli si dichiarava più
cauto. Dunque, non era possibile una piena solidarietà con il Pci né il suo
coin- volgimento diretto in un governo di emergenza, e al proposito Moro affermava:
«Sappiamo che vi è in gioco un delicatissimo tema di politica estera che sfioro
appena. Vi sono posizioni che non sono solo le nostre, ma riguardano anche
altri Paesi, altre opinioni pubbliche, con le quali siamo collegati». Moro,
dunque, era ovviamente ben cosciente dei veti, non solo statunitensi, ma di
tutta l’alleanza atlantica, a un governo con i comunisti per ragioni con le
quali, tra l’altro, afferma di concordare, ma non sostiene la stessa cosa per
un loro ingresso nella maggioranza. Ed erano proprio le condizioni del Paese,
la sua crisi sociale, economica e morale, a suggerire in quel momento la
necessità di interrompere il meccanismo della maggioranza e dell’opposizione,
in quanto la logica dell’opposizione avrebbe bloccato qualsiasi iniziativa di
governo. L’emergenza indicava «una sorta di tregua» perché «oggi dobbiamo
vivere, oggi è la nostra responsabilità», da mettere in atto nell’unità del
partito, che costituiva uno dei valori fonda- mentali ai quali Moro si era
richiamato nel suo discorso: «camminiamo insieme» concludeva «perché l’avvenire
appartiene in larga misura ancora a noi». (segue)
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