giovedì 31 maggio 2012

41 BIS. VENTI ANNI


di Sandro Padula

La “Relazione sullo stato di attuazione della legge recante “modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario” (Triennio 2009-2011)” presentata il 9 marzo 2012 alla Camera dei Deputati dal Ministro per i rapporti con il Parlamento (Giarda) non è stata presa in debita considerazione dalla stampa nazionale ma fornisce dei dati statistici sul 41 bis che ci permettono di fare, sia pur in modo sintetico, un bilancio generale.
L’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, erede dell’abolito articolo 90 applicato ai detenuti per banda armata nei primi anni 80, viene approvato nel giugno 1992 in un cosiddetto “super decreto antimafia” Scotti-Martelli, come risposta alla strage che il 23 maggio di quel medesimo anno provocò la morte del giudice Giovanni Falcone e degli agenti della sua scorta.
Il testo precisa che i provvedimenti “cessano di avere effetto trascorsi tre anni dalla entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”. In realtà, il 41 bis subisce continue proroghe.
Fin dall’inizio, pur trattandosi di una misura che avrebbe dovuto essere limitata nel tempo, si manifestano molteplici dubbi sulla sua costituzionalità ma nel 2002, in piena cultura della “tolleranza zero” e della “guerra preventiva” propagandata dagli Usa di Bush junior, viene trasformato da articolo di una norma legislativa dell’emergenza in qualcosa di permanente (legge n. 279/2002) non solo per contrastare la “criminalità organizzata” ma anche il “terrorismo”.
La legge n. 94/2009, infine, produce “un rafforzamento del regime speciale, sia dal punto di vista della stabilità della sua applicazione (aumento della durata del provvedimento a quattro anni per la prima applicazione e a due per la proroga, riduzione delle possibilità di impugnazione, esclusione dell’annullamento parziale, unificazione della competenza nel Tribunale di Sorveglianza di Roma), sia dal punto di vista dell’irrigidimento delle regole di gestione (restrizione della socialità con gruppi composti da non più di quattro soggetti, rafforzamento delle misure logistiche, tra le quali il divieto di comunicazione tra appartenenti a diversi gruppi di socialità).” (“Relazione sullo stato di attuazione della legge recante “modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario” - Triennio 2009-2011).
Dopo le riforme dell’istituto effettuate prima dalla legge n. 279/2002 e poi dalla legge n. 94/2009 l’applicazione del regime detentivo speciale continua comunque a restare affidata alla discrezionalità amministrativa (del Ministero della Giustizia) e applicata non quando vi siano acclarate prove di pericolosità ma nella misura in cui “si presume” non vi sia un’interruzione dei rapporti fra la persona detenuta e le organizzazioni extralegali esterne al carcere.
Discrezionalità amministrativa e presunzione di pericolosità sociale colpiscono così non solo persone già condannate, alcune delle quali si riveleranno innocenti - come è successo ad alcuni ergastolani condannati per errore dell’omicidio del giudice Borsellino (19 luglio 1992) e scarcerati nell’ottobre 2011 - ma anche persone semplicemente imputate e non ancora condannate in via definitiva.
Nel frattempo il regime detentivo speciale si fa sempre più mastodontico e privo di quella pur minima, discutibile e temporanea necessità che avrebbe potuto esserci dopo le stragi mafiose del 1992-1993.
I tempi cambiano, la vecchia mafia viene sconfitta dalla mafia finanziaria in giacca e cravatta ben radicata nei mercati mondiali e nessuno se ne accorge. Per venti anni si ragiona come se ci fosse una sorta di effettiva e necessaria Emergenza contro la mafia agro-pastorale che non sa né leggere né scrivere! Fra il 1992 e il 2011, mentre il totale complessivo dei “Nuovi decreti di applicazione emessi nel corso dell’anno” è uguale a 2.320, la media annuale dei detenuti in articolo 41 bis è pari a 560, cifra quest’ultima in realtà mai raggiunta prima del 1999 e di gran lunga superata in anni recenti come il 2010 (680) e il 2011 (673).
I “collaboratori di giustizia” emersi dopo l’esperienza del carcere duro sono invece 200, in media 10 all’anno, cioè l’1,87% sul totale medio dei detenuti in 41 bis a fine di ogni anno del periodo considerato. Analizzando i dati disaggregati vediamo però che la media è superata nettamente solo nel 1993 (5,29%), nel 1996 (4,62%), nel 1995 (4,12%) e nel 1994 (3,15%).
Nel 1993, in particolare, mentre il numero di persone detenute in 41 bis (473) è chiaramente al di sotto della media ventennale, viene prodotta la quota record di 25 “pentiti” fra gli ex 41 bis.
Nel 2010, al contrario, quando si determina il maggior numero assoluto di persone sottoposte al 41 bis (680), i detenuti provenienti dal carcere duro e divenuti “collaboratori di giustizia” sono 8, quindi al di sotto della media.
Dopo la sovrapproduzione di “pentiti” verificatasi fra il 1993 e il 1996, il 41bis si rivela perciò inutile anche sotto il profilo della (in sé discutibile) produzione di “collaboratori di giustizia”.
Nel presente appare come un dinosauro del passato che, rimanendo in vita grazie alla formalizzazione giuridico-legislativa ordinaria di una parte della legislazione dell’emergenza antimafia, più cresce meno serve e meno serve più dimostra di essere un trattamento al di fuori di ogni rispetto della dignità individuale e della nostra intelligenza collettiva.
Oggi esiste una sovrapproduzione di persone detenute in 41 bis e di suicidi fra di loro. Il 41 bis ormai produce più suicidi che “pentiti”. Nel circuito carcerario italiano è la principale fabbrica della morte sociale, affettiva, relazionale e anche fisica. Nessuno, a partire dagli “intellettuali” che citano a sproposito Cesare Beccaria, faccia finta di non saperlo.

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