mercoledì 18 gennaio 2017

NEVE SUL TERREMOTO

I terremoti del 24 agosto e del 30 ottobre, oltre ad aver provocato 299 vittime, hanno distrutto l'economia di interi comuni del centro Italia.
Cominciamo il racconto di quei giorni e di quanto sta ancora accadendo, ma la cronaca oggi ha il sopravvento. In basso la nostra frazione, Capricchia, sabato. In poche ore è divenuta invivibile. Roberto, Massimo, Alessandra, Carmen, Virginio, Alessandro, Pietro, Lucia, Sabatino, Rossella, Simona, Nunzio, i loro figli e parenti, in tutto 23 persone, sono isolate. Questa notte intorno alle 3 è arrivato l'esercito per pulire le strade. Purtroppo la neve è continuata a cadere come mai prima. Siamo a circa due metri. Nelle foto di seguito, Capricchia com'è ora. [le foto di oggi sono di Roberto Bibbi Guerra]. Nel frattempo, tra le 10,25 e le 10,30 ci sono state due grandi scosse, una del 5.3 e l'altra di 3.2 con epicentri Montereale e Amatrice. Ho parlato adesso con Roberto. Gli unici che possono aiutare sono i militari che si trovano già ad Amatrice, che al momento è quasi isolata.














martedì 3 gennaio 2017

LA FINE DELLA DEMOCRAZIA SECONDO BAUMAN



Come il romanzo e la borghesia, i due migliori prodotti della modernità occidentale, anche la democrazia da quando esiste è in crisi: si interroga sempre e in continuazione su se stessa mentre lotta per la propria (non garantita) esistenza. Questa volta però, nel quarto lustro del Ventunesimo secolo, forse non siamo più a una qualche correzione di rotta e aggiustamento delle procedure. Molti studiosi concordano ormai sull’ipotesi che siamo nel “dopo la democrazia”.

O meglio, avanza l’idea che qui in Occidente sia finita la democrazia come l’abbiamo conosciuta e immaginata a partire dal Secolo dei Lumi e fino alla globalizzazione. E ancora, fin dall’irruzione dei partiti di massa sulla scena politica (una forma di “parlamentarizzazione” della lotta di classe, altrimenti cruenta perché i proletari erano trattati alla stregua di “selvaggi” come i popoli colonizzati; e basti pensare a Bava Beccaris o al massacro dei comunardi di Parigi) a partire dall’ingresso dei partiti socialisti nel gioco parlamentare dunque, eravamo convinti che ci fosse un nesso intimo tra le seguenti categorie: progresso, libertà, democrazia, crescita economica, scolarizzazione di massa, emancipazione. Le cose andavano insieme, più libertà e più consumi; più democrazia e maggiore crescita economica e personale e via coniugando.


Certo, le guerre mondiali e i fascismi hanno segnato dei passi indietro, ma dal 1945 regnava in Occidente una specie di stabile e progressiva convergenza tra il liberalismo e la socialdemocrazia (due avversari storici): più profitti e più uguaglianza, più libertà e più garanzie dei lavoratori e fino all’apoteosi, quasi hegeliana, dei diritti umani nel 1989. Poi, all’improvviso tutto è finito. I nostri figli vivranno peggio di noi; il voto non stabilisce legame tra gli eletti e i cittadini; il lavoro è precario quando c’è; e il futuro appare come una minaccia angosciante e non più come promessa e magnifica immaginazione. Del progresso nessuno parla se non per dire che è “cane morto” e illusione del passato, il sol d’avvenire è spento e i politici sembrano figuri grotteschi, dediti a celebrare riti vuoti dal punto di vista semantico, perché incapaci di suscitare un motto di identificazione con chi ci dovrebbe rappresentare (e basti pensare all’immagine delle consultazioni quirinalizie poche settimane fa).

E allora, cosa ci aspetta? L’abbiamo chiesto a studiosi, filosofi, scienziati della politica. A partire da Zygmunt Bauman. Ma prima di sentirlo, due ulteriori premesse. Nel 1991 Christopher Lasch, storico americano scomparso ventidue anni fa, in un libro “Il paradiso in Terra” (Neri Pozza) in cui dava addio all’illusione appunto del progresso, citava un’osservazione di George Orwell (del 1940) per cui mentre le democrazie offrirebbero agiatezza e assenza di dolore, Hitler offriva lotta e morte; e ancora, nell’ultimo anno dell’Ottocento, Georg Simmel, sociologo tedesco cantore della metropoli con il suo caos e il denaro come la misura di tutto, diceva di comprendere comunque i laudatori dei valori all’antica e dei gesti eroici. E allora, anche oggi, di fronte alla Babele del pianeta globalizzato, stiamo cominciando (sotto le mentite spoglie dei populismi) a rivalutare il valore della comunità chiusa, isolata e retta da un uomo forte?

La risposta di Bauman è sì. Il sociologo parte dalla nozione di “retrotopia”, utopia retroattiva: richiamo a un passato mitico, inventato e che si presenta come la più seducente possibilità di fuga dalla angustie di un incerto presente. La retrotopia spiega per esempio il successo di Trump. Il presidente eletto non ha offerto, appunto, alcuna visione di un futuro migliore, di avanzamento della condizione della gente (come un Roosevelt o un Kennedy): il suo messaggio è invece quello di ripristinare il “glorioso” passato degli States rurali e proletari, non contaminato dal linguaggio politicamente corretto delle élite mondializzate, attente alle “regole”; regole incomprensibili però per l’uomo comune che così si sente escluso e non all’altezza di competere per il proprio posto al sole.


Le élite politiche, a loro volta, non sono in grado di mantenere le promesse fatte. E non lo sono perché abbiamo a che fare con «il divorzio tra il potere e la politica». Il potere è sempre meno legato al territorio, sempre più rappresentato da entità astratte e immateriali (banche, finanza, mercati). Tutto questo crea frustrazione, ricerca del colpevole, del capro espiatorio, desiderio di tornare dalla “condizione cosmopolita” (teorizzata già oltre un secolo fa da austromarxisti e da socialisti del Bund ebraico) verso una comunità chiusa e dove è possibile un’illusoria ed estrema semplificazione. Chiusura e semplificazione (accresciute dalla paura dei migranti) che si trasformano nel desiderio di un “uomo forte”. Dice Bauman: «Forse la parola democrazia non sarà abbandonata, ma sarà messa in questione la classica tripartizione di potere tra l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario». Addio, dunque Montesquieu: porte spalancate a possibili forme dittatoriali. Anche perché, «perfino la speranza è stata privatizzata».

Ma forse Bauman, non teorico dell’azione, ma critico dell’esistente è troppo pessimista (in realtà, in privato ammette di sperare in una rinascita della sinistra cosmopolita). Forse occorre aggrapparsi alle parole di Chantal Mouffe, belga, celebre per i suoi studi sul populismo e sul concetto dell’egemonia, quando parla della necessità di tornare a una sinistra antagonista e che rigetti il compromesso liberal-socialdemocratico. O forse ha ragione Pierre Rosanvallon, politologo francese, tra i più rinomati che va ripetendo che non siamo più in democrazia (“Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia”, “Le Bon Gouvernement”) e propone misure concrete di resistenza. Tra queste: sorvegliare, vigilare, controllare il potere e «parlar chiaro e dire la verità». E con quest’ultima parola d’ordine torna alle ricerche di Michel Foucault sulla “parresia”, il dire ciò che si pensa dei Greci ai tempi di Pericle, virtù cittadina e mezzo di opposizione alle tentazioni di ogni tirannide.

Fin qui la speranza, perché Rosanvallon dice anche che la vecchia idea di un parlamento che legifera e un governo che esegue non esiste più, perché il potere politico è ormai in mano all’esecutivo e cresce la voglia di presidenzialismo ovunque. Gli fa eco David Van Reybrouck, uno studioso che arriva a teorizzare il sorteggio di persone chiamate a decidere delle cose della politica, come avveniva appunto ad Atene, tanto da aver scritto un libro intitolato “Contro le elezioni” (e aggiunge: «Gli eletti sono élite»). Dice Donatella Di Cesare, professoressa di Filosofia teoretica a La Sapienza e femminista con forti tendenze anarchiche: «La democrazia è l’ultimo tabù. Nessuno osa metterlo in questione, eppure bisogna cominciare a farlo se non vogliamo la catastrofe e se desideriamo preservare le nostre libertà». Indica l’America per dire: «La democrazia sta diventando dinastia».

E allora che fare? «Rendere la democrazia più femmina e meno maschio. Accettare, in questi tempi di mondializzazione e di flussi di migranti, una sovranità limitata, condizionata, distaccata dall’ossessione identitaria, aperta invece ad Altri. Chi esalta la sovranità rigida, finirà per rinunciare alla libertà in nome appunto della mera sovranità. Io lo temo». Lo teme pure Jan Zielonka docente a Saint Antonys College, a Oxford, alla Cattedra intitolata a Ralph Dahrendorf, per decenni pontefice massimo del liberalismo. Da Varsavia, dove si trova in vacanza, al telefono conferma: «Sta vincendo la controrivoluzione. Certo, l’ondata controrivoluzionaria avanza grazie a elezioni e non con putsch militari o barricate, ma pensare che si possa tornare indietro verso il rassicurante mondo della democrazia liberale è una follia».


A questo punto non resta che fare un po’ di ordine e ripetere la domanda: che fare? La parola va a Emmanuel Todt, personaggio geniale, controverso, poliedrico, storico «della lunga durata» (così si autodefinisce), che prima di esplicare il suo pensiero ci tiene a presentarsi come prosecutore delle tradizioni della «vecchia borghesia israelitica patriottica». Usa questa definizione desueta per sottolineare la sua impermeabilità alle mode identitarie, perché poi difende una certa idea di identità. Otto anni fa Todt pubblicò un libro intitolato “Après la démocratie” (dopo la democrazia). Oggi dice: «La storia dell’Occidente non coincide con la storia della democrazia». E anche: «La democrazia era legata alla diffusione del sapere a alfabetizzazione delle masse», per arrivare ad affermare: «Oggi invece le élite, minacciate da un popolo ormai in grado di leggere e scrivere cercano di stabilire comunque la differenza culturale. E così tradiscono la democrazia, dicendo che chi vota Trump o Brexit è ignorante». Rimarca: «La democrazia comunque non esiste più. È morta assieme alla globalizzazione e all’euro, ai flussi migratori incontrollati. Se io non sono padrone della moneta e del territorio, non posso esercitare i miei diritti democratici». Ripete: «Non sono uno xenofobo, ho in odio il Front national, ma mi preme dire ciò che penso».

E allora, davvero è finita la democrazia? Conclude Ilvo Diamanti. Che dice due cose fondamentali. La prima: la democrazia è una forma di potere, di “cratos”, non può dunque essere parziale e deve anzi corrispondere a un territorio abitato e gestito da una popolazione di cittadini (una constatazione non del tutto ovvia ai tempi del mondo globale). In altre parole: la responsabilità, principio della democrazia contempla la delimitazione, quindi l’esistenza dei confini. La seconda: la forma della democrazia corrisponde alla tecnologia della comunicazione. Ai tempi dei notabili, l’arena era il parlamento e i partiti nascevano nelle Aule delle assemblee, elette per lo più per censo. Poi sono subentrati i partiti di massa e si è passati alla piazza e ai giornali. Lo stadio successivo è stata la personalizzazione e il leaderismo e siamo alla tv. Oggi a queste forme (nessuna del tutto scomparsa) va aggiunta la Rete. E siamo alla “democrazia ibrida”. Aggiunge: «La Rete permette qualcosa che assomiglia alla democrazia immediata, dove la deliberazione e l’esecuzione avvengono contestualmente. Ma la democrazia ha bisogno delle mediazioni, là dove invece è immediata e radicale (come nell’utopica visione giacobina o ad Atene del V secolo avanti Cristo) tende ad abolire se stessa». La abolirà? «Penso», risponde, «che vivremo in un mix tra democrazia mediata e immediata». E non è un futuro rassicurante.

venerdì 9 dicembre 2016

L'ANALISI DEL DOPO 4 DICEMBRE

NON É EVOCANDO WEIMAR CHE LA EVITEREMO

Il referendum di domenica 4 dicembre e il suo esito, in particolare, hanno determinato la fine di qualcosa.
Non rappresentano solo la fine di un’esperienza di governo o della legislatura che ha, evidentemente, esaurito gran parte della propria ragione politica. Si è esaurito un intento riformista che ha caratterizzato l’impegno di molti durante un arco di tempo ventennale e che aveva al suo centro il tentativo di modernizzare e di innovare le istituzioni come risposta ai bisogni sociali. I bisogni sociali, però, sono arrivati prima dell’esito e del risultato di quell’intento, complici gli effetti di una crisi, prima negata, poi usata e finalmente affrontata e non ancora arrestata i cui effetti hanno surclassato questo sforzo riformista.
Si tratta quindi di vedere e comprendere la fine di una fase. La fine di questa lunga fase della vicenda repubblicana inevitabilmente ne apre un’altra sia in termini storici che politici.
Sono convinto che questo referendum assumerà presto una funzione simbolica di ampia portata come lo furono i referendum di inizio anni ’90, che inaugurarono una stagione maggioritaria e tendenzialmente bipolare.
Se è vero che assistiamo alla fine di una fase e di certi suoi intenti riformisti, allora è altrettanto vero che sarebbe auspicabile terminassero anche elementi deleteri di questa stagione, primo fra tutti la subalternità della politica alla tecnica e alla burocrazia. Subalternità ricercata come risposta ad un una domanda di frenare la corruzione e l’assenza di moralità, rivelatasi inutile se non deleteria anche in questo senso.
Non possiamo guardare al risultato referendario con il miopismo di chi considera solo i numeri assoluti, i 13 milioni contro i 19, e nemmeno di chi si abbandona a scenari evocativi ricercando analogie nei risultati percentuali.
Per una volta dovremmo provare a considerare non solo quanti voti abbiamo preso, ma quali e dove. Non possiamo esimerci da constatare che chi ha raccolto con maggiore ardore la possibilità di cambiamento offerta da questa sfida riformista raccoglie consensi in luoghi e ceti che si sono sentiti più al riparo da una crisi che non è solo economica, ma sociale e molto più marcatamente culturale. La cosa più triste è che questo consenso, se venisse tradotto in consenso elettorale non verrebbe raccolto nemmeno da chi, opponendosi tentativo di cambiamento, occupa uno spazio “preteso di sinistra”. Queste formazioni, anzi, al netto del minoritarismo congenito che le mina dal proprio interno, subiscono ancora più del Partito Democratico la propria limitazione di consenso ad ceto riflessivo, basso, medio o alto che sia.
La fase che si apre è difficilissima ed è caratterizzata da una reale minaccia per le istituzioni e, come si sarebbe detto un tempo, per la tenuta democratica. Questa minaccia è rappresentata dal grillismo e da tutti gli altri movimenti populisti e xenofobi presenti nel nostro panorama nazionale, in questo non dissimile, per una volta, dal contesto europeo.
Purtroppo è evidente che non prenderemo un solo voto in più continuando a denunciare quale pericolo rappresentino queste forze. Aumenteremo il nostro consenso solo risultando efficaci nelle proposte rispetto alla loro volgarità e rappresentazione anche estetica di un disagio a cui non offrono risposta né rappresentanza, ma una inutile auto-rappresentazione indulgente.
Non è evocando Weimar, per quanto il pericolo sia quanto mai reale e drammaticamente ravvicinato, che eviteremo Weimar. Questo grido resterà inascoltato e un redivivo spirito proporzionalista non ci aiuterà in alcun modo, in questo senso. Eviteremo Weimar solo se ne saremo capaci davvero.
E’ tempo, che in questa nuova fase la politica esca dalla subalternità alla burocrazia e alla tecnica in cui si è cacciata, o è stata cacciata.
Il protagonismo della politica, come luogo di programmazione ed azione, deve tornare altrimenti non vi sarà più politica. Serietà e capacità dei propri gruppi dirigenti, non scelti solo come destinatari di consenso, sono l’anticorpo per non soccombere alla soverchiante preponderanza delle macchine burocratiche, locali o nazionali. Solo così chi ricopre figure istituzionali potrà non doversi quasi scusare dei propri incarichi perché risiederà nella propria efficacia d’azione la natura stessa del proprio rispetto. Non più la percezione di essere “ceto politico”, ma semplice e primigenia rappresentanza delle istituzioni per poter essere giudicati in base alle proprie azioni e non denigrati per il proprio stesso incarico.
Si tratta, in primo luogo, di un’operazione culturale che deve investire tutti e in tempi che probabilmente non saranno brevi.
Si tratta di un ritorno al passato questa nuova fase? Per alcuni di quelli che l’hanno volutamente determinata certamente si. Sono tuttavia convinto che vivere questa nuova fase guardando al passato non servirà di certo ad affrontarla ma quasi sicuramente a soccombervi.

sabato 5 settembre 2015

LA BUONA SCUOLA CON LE GAMBE CORTE

Il trasferimento di città con un bimbo di pochi mesi il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini l’ha vissuto sulla sua pelle. «Avevo trent’anni, vinsi una cattedra a 350 chilometri di distanza da casa, mio figlio aveva pochi mesi...».

E cosa ha fatto? Si è trasferita con suo figlio?
«Non era possibile, ho fatto la pendolare settimanale, è stato un grande sacrificio, quindi ho il massimo rispetto per le storie individuali visto che l’ho vissuto sulla mia pelle».

E' la ministra Giannini che parla. Purtroppo, la cattedra di cui parla non era scolastica, bensì universitaria. La Giannini, infatti, è nata nel 1960 a Lucca. Nel 1991, dunque a 31 anni, vinse una cattedra di professoressa associata all'Università di Perugia. Si tratta di 120 ore di lezione all'anno e di una situazione normale per l'Università italiana, che sta in piedi (traballanti) grazie ai pendolari.

Dunque, nessuna necessità di cambiare vita, a meno che non lo si voglia. Altra storia per i docenti di scuola, che "timbrano" ogni giorno. Insomma, la ministra dà informazioni parziali durante un'intervista (e poi, diciamolo, ma perché l'esperienza personale di una ministra dovrebbe in qualche modo essere "giustificativa?) e il giornalista neanche si insospettisce. 

lunedì 20 luglio 2015

Il Piano Schäuble-Lamers

La ragione per cui cinque mesi di negoziati tra la Grecia e l’Europa hanno portato all’impasse è che questo è proprio quello che il dottor Schäuble voleva si realizzasse.
Nel periodo dei miei primi incontri a Bruxelles all’inizio di febbraio, una potente maggioranza in seno all’Eurogruppo si era già formata. Si muoveva  intorno alla pressante figura del ministro delle Finanze della Germania, la sua missione era quella di bloccare qualsiasi accordo sulla costruzione di un terreno comune tra il nostro governo appena eletto e il resto della zona euro. [1. “Le elezioni non possono cambiare nulla” e “O il Memorandum o nulla” furono le affermazioni di principio con cui salutò il mio primo intervento all’Eurogruppo.]
Così cinque mesi di intensi negoziati non hanno mai avuto la possibilità di uno sbocco reciprocamente utile. Erano condannati a condurre alla situazione di stallo, il loro scopo era quello di preparare il terreno per quello che il dottor Schäuble aveva già deciso che fosse ‘ottimale’ ben prima che il nostro governo fosse stato eletto: il principio che la Grecia doveva essere aiutata a uscire fuori della zona euro, al fine di disciplinare gli stati membri a condividere il suo piano molto specifico per la ristrutturazione della zona euro. Questa non è una mia teoria. Come faccio a sapere che la Grexit è una parte importante del piano del Dr. Schäuble per l’Europa? Perché mi ha detto così!
Sto scrivendo questo non come un politico greco critico nei confronti della stampa tedesca per la denigrazione delle nostre proposte ragionevoli, o del rifiuto di Berlino di considerare seriamente il nostro piano di ristrutturazione moderata del debito, o della decisione altamente politica della Banca centrale europea di soffocare il nostro governo, oppure della decisione dell’Eurogruppo di dare alla BCE la luce verde per chiudere le nostre banche. Sto scrivendo questo come europeo osservando lo svolgersi di un piano particolare per l’Europa – il Piano del dottor Schäuble. E io pongo una semplice domanda ai lettori informati del Die ZeitSi tratta di un piano che voi approvate? E’ questo un buon piano per l’Europa?
Il Piano del dottor Schäuble per l’Eurozona
La valanga di salvataggi tossici che ha seguito la prima crisi finanziaria della zona euro offre un’ampia prova che il non credibile principio de ‘alcuna clausola di salvataggio’ fosse un terribile facente funzione al posto dell’unione politica. Wolfgang Schäuble lo sa e ha messo in chiaro il suo piano di forgiare una unione più stretta. “Idealmente, l’Europa sarebbe un’unione politica”, ha scritto in un articolo congiunto con Karl Lamers, ex capo degli affari esteri (Financial Times, 1 settembre 2014) della CDU.
Il Dr Schäuble ha ragione a sostenere cambiamenti istituzionali che potrebbero fornire alla zona euro i meccanismi politici che le mancano. Non solo perché è impossibile altrimenti affrontare le crisi finanziarie della zona euro, ma anche allo scopo di preparare la nostra unione monetaria per la prossima crisi. La domanda è: è il suo piano specifico una cosa buona?E’ un programma che gli europei dovrebbero volere di più? Come i suoi autori propongono che venga attuato?
Il Piano Schäuble-Lamers si basa su due idee: «Perché non ha un commissario del bilancio europeo” chiese Schäuble e Lamers “? Con poteri di respingere i bilanci nazionali se non corrispondono alle regole che abbiamo concordato congiuntamente”. “Abbiamo anche favorito”, hannoaggiunto “un parlamento dell’Eurozona che comprenda i deputati dei paesi della zona euro per rafforzare la legittimità democratica delle decisioni che riguardano l’area della moneta unica”.
Il primo punto da rilevare sul Piano Schäuble-Lamers è che è in contrasto con qualsiasi nozione di federalismo democratico. Una democrazia federale, come la Germania, gli Stati Uniti o in Australia, si fonda sulla sovranità dei suoi cittadini che si riflette nella forza positiva dei loro rappresentanti di legiferare quello che deve essere fatto in nome del popolo sovrano.
In netto contrasto, il Piano Schäuble-Lamers prevede solo poteri preclusivi verso gli stati: un Signore supremo del Bilancio dell’Eurozona (forse una versione abbellita del Presidente dell’Eurogruppo) equipaggiato da poteri esclusivamente negativi, di veto, delle attribuzioni dei parlamenti nazionali.
In primo luogo, tutto questo non sarebbe sufficiente ad aiutare a salvaguardare i fondamentali macroeconomici della zona euro. In secondo luogo, violerebbe i principi fondamentali della democrazia liberale occidentale.
Consideriamo gli eventi, sia prima della scoppio della crisi dell’euro, nel 2010, che dopo. Prima della crisi, se il Lord protettore del Bilancio immaginato da Schauble fosse esistito, lei o lui sarebbero stati in grado di porre il veto sulla dissenatezza del governo greco, ma non sarebbero assolutamente stati in grado di fare nulla per quanto riguarda lo tsunami di finanziamenti derivanti dai banche private di Francoforte e Parigi alla periferia di banche private.  
Tali deflussi di capitale hanno creato un debito insostenibile che, inevitabilmente, ha trasferito di nuovo sulle spalle del settore pubblico l’implosione dei mercati finanziari. Post-crisi, il Leviatano di bilancio del dottor Schäuble si sarebbe dimostrato ancora impotente, di fronte alla potenziale insolvenza dei diversi stati causati dal loro salvataggio (diretto o indiretto) delle banche private.
In breve, il nuovo massimo ufficio previsto dal Piano Lamers-Schäuble sarebbe stato impotente a prevenire le cause della crisi e nell’ affrontare le sue ripercussioni. Inoltre, ogni volta che avesse posto in atto il suo potere,  ponendo il veto a un bilancio nazionale, il nuovo alto incarico avrebbe annullato la sovranità di un popolo europeo senza averla sostituita con una sovranità di ordine superiore a livello federale o sovranazionale.
Il Dr Schäuble è stato coerente in modo impressionante nel suo immaginare il connubio tra un’unione politica e l’andare contro i principi fondamentali di una federazione democratica.
In un articolo su Die Welt pubblicato il 15 giugno 1995, egli ha respinto il “dibattito accademico” sul fatto se l’Europa debba essere “… una federazione o un’alleanza di Stati”. Era giusto affermare che non c’è alcuna differenza tra una federazione e un’ alleanza di stati? Io sostengo che la mancata distinzione tra i due costituisce una grave minaccia per la democrazia europea.
I prerequisiti dimenticati per una società democratica, multinazionale unione politica liberale.
Un fatto spesso dimenticato nelle democrazie liberali è che la legittimità delle sue leggi e la costituzione non è determinata dal suo contenuto giuridico, ma dalla politica. Affermare, come ha fatto il dottor Schäuble nel 1995, e implicitamente di nuovo nel 2014, che non fa alcuna differenza se la zona euro sia un’alleanza di stati sovrani o uno Stato federale è ignorare volutamente che quest’ultimo possa creare autorità politica mentre la prima non può.
Per un ‘alleanza di Stati’ è possibile, naturalmente, concludere accordi reciprocamente vantaggiosi contro un aggressore comune (ad esempio nel contesto di un’alleanza militare difensiva), o accettando standard comuni in diversi settori, o anche effettuare una zona di libero scambio. Ma, tale alleanza di Stati sovrani non può mai creare legittimamente un Protettore con il diritto di eliminare la sovranità degli stati, poiché non vi è alcuna scelta collettiva, a livello di alleanza, da cui trarre l’autorità politica necessaria per farlo.
È per questo che la differenza tra una federazione e un ‘alleanza di Stati’  è una questione enorme. Infatti, mentre una federazione sostituisce la sovranità incamerando quella a livello nazionale o statale con un nuova sovranità a livello federale unitario, centralizzare il potere all’interno di un ‘alleanza di Stati’ è, per definizione, illegittimo e privo di qualsiasi corpo politico sovrano che lo renda possibile.
Né può alcuna Camera del Parlamento europeo, legittimare il potere di veto del commissario per il bilancio su parlamenti nazionali, ove manchino altri poteri e competenze legislative.
Per dirla in modo leggermente diverso, le piccole nazioni sovrane, ad esempio, l’Islanda, hanno scelte politiche da fare nelle materie più ampie creati per loro dalla natura e per il resto dell’umanità. Anche se limitato in alcune di queste scelte il corpo politico islandese mantiene l’autorità assoluta di mantenere i propri funzionari eletti responsabili delle decisioni che hanno raggiunto entro i vincoli esogeni dell’interesse della loro piccola nazione e quindi di eliminare o stravolgere ogni atto legislativo che hanno deciso in passato.
In contrapposizione, i ministri delle finanze della zona euro spesso tornano dalle riunioni dell’Eurogruppo lamendosi  delle scelte a cui hanno appena aderito, usando la scusa standard che “è stata la migliore che abbiamo potuto negoziare all’interno dell’Eurogruppo”.
La crisi dell’euro ha ampliato tale vulnus democratico al cuore dell’Europa, in modo orribile. Un organo informale, l’Eurogruppo, le cui decisioni non sono verbalizzate, e alle quali ci si attiene senza regole scritte, non è responsabile verso nessuno, e governa con le sue regole macroeconomiche una delle più grandi economie del mondo, con una Banca centrale che lotta per rimanere all’interno di regole vaghe che crea di pari passo a come va l’economia,  senza che nessun corpo politico fornisca la base necessaria di legittimità politica sui cui possano poggiare le decisioni fiscali e monetarie.
Semmai, è solo avvolgere l’attuale  inefficace e autoritaria governance politica dell’Eurogruppo in un mantello di pseudo-legittimazione.I tumori maligni della presente ‘Alleanza degli Stati’ sarebbero codificati come legittimi e il sogno di una federazione europea democratica sarebbe spinta ulteriormente verso un futuro incerto.
La pericolosa strategia del Dr. Schäuble per l’attuazione del Piano di Schäuble-Lamers.
A maggio, in margine all’ennesima riunione dell’Eurogruppo, avevo avuto il privilegio di una conversazione affascinante con il dottor Schäuble. Abbiamo parlato a lungo sia per quanto riguarda la Grecia e per quanto riguarda il futuro della zona euro. Più tardi, all’ordine del giorno della riunione dell’Eurogruppo fu incluso un articolo sulle modifiche istituzionali future per rafforzare la zona euro. In quella conversazione, era evidente che il piano del dottor Schäuble fosse l’asse attorno al quale convergessero la maggior parte dei ministri delle finanze.
Anche se la Grexit non è stata menzionata direttamente in quella riunione dell’Eurogruppo di diciannove ministri, più i leader delle istituzioni [FMI, BCE e Commissione], i riferimenti velati erano sicuramente fatte ad essa. Ho sentito un collega dire che gli stati membri che non possono soddisfare i loro impegni non dovrebbero contare sull’indivisibilità della zona euro, in quanto una disciplina rafforzata era essenziale.
Alcuni hanno menzionato l’importanza di conferire a un Presidente permanente dell’Eurogruppo il potere di veto sui bilanci nazionali.
Altri hanno discusso la necessità di convocare una Camera di parlamentari dell’eurozona per legittimare la sua autorità. L’eco del Piano del dottor Schäuble risuonava in tutta la stanza.
A giudicare da quella conversazione dell’ Eurogruppo, e dai miei colloqui con il ministro delle Finanze della Germania, le caratteristiche della Grexit erano, per il piano del dottor Schäuble, come una mossa cruciale che desse il via al processo della sua attuazione.
Una escalation controllata del dolore dei greci  a lungo sofferenti, intensificata dalla chiusura delle banche e lenita da alcuni aiuti umanitari, è stata prefigurata come il momento precursore della nuova zona euro.
Da una parte, il destino dei greci “spendaccioni” avrebbe agito come un racconto morale per i governi che vogliono giocherellare con l’idea di sfidare le ‘regole’ esistenti (ad esempio Italia), o di resistere al trasferimento della sovranità nazionale sui bilanci all’Eurogruppo (ad esempio la Francia).D’altra parte, la prospettiva di (limitati) trasferimenti fiscali (ad esempio, una più stretta unione bancaria e un fondo comune  di aiuti contro la disoccupazione) offrirebbe la “carota” (che le nazioni più piccole desideravano).
Mettendo da parte tutte le obiezioni morali o filosofiche in relazione all’idea di costituire un’unione migliore attraverso l’aumento della sofferenza della popolazione di un stato membro costituente, alcune domande più ampie si pongono con urgenza:
– sono i mezzi adatti alle finalità?
– l’abrogazione della indivisibilità costituzionale della zona euro [si può quindi cacciare uno Stato mantenendo l’Euro per gli altri ndr] un mezzo sicuro di assicurare il suo futuro come un regno di prosperità condivisa?
– Può il sacrificio rituale di uno stato membro aiutare a riunire gli europei?
– La tesi secondo cui le elezioni non possono cambiare nulla negli stati membri indebitati ispira fiducia nelle istituzioni europee?
– Oppure potrebbe avere l’effetto opposto, come paura e disgusto che diventano elementi fondati delle relazioni tra Stati in Europa?
Conclusioni: l’Europa a un bivio.
I difetti delle fondamenta della zona euro si sono rivelate in Grecia, prima che la crisi li diffondesse altrove. Cinque anni più tardi, la Grecia è di nuovo alla ribalta per lunico statista tedesco sopravvissuto dell’epoca che ha forgiato l’euro, Wolfgang Schäuble, il quale ha un piano per ristrutturare l’unione monetaria europea che deve  disfarsi della Grecia con la scusa che il governo greco non ha ‘credibili’ riforme da offrire in cambio.
La realtà è che un Eurogruppo venduto al Piano del dottor Schäuble, e alla sua strategia, non ha mai avuto alcuna seria intenzione di trovare un nuovo accordo con la Grecia che rifletta gli interessi comuni dei creditori e di una nazione il cui reddito era stato schiacciato, e la cui società era stata frammentata,  a seguito di un ‘programma’ progettato in modo assurdo.L’insistenza ufficiale dell’ Europa, che questo Programma non riuscito deve essere il ‘Programma’ del nostro nuovo governo,  ‘oppure’ si deve uscire, non era altro che l’innesco per l’attuazione del Piano del dottor Schäuble.
È piuttosto indicativo che, nel momento in cui i negoziati sono crollati, la tesi del nostro governo per cui il debito della Grecia doveva essere ristrutturato come parte di un qualsiasi accordo fattibile, è stata, tardivamente, riconosciuta. Il Fondo Monetario Internazionale fu la prima istituzione a farlo. Straordinariamente, lo stesso Dr. Schauble riconobbe che la riduzione del debito era necessaria ma si affrettò ad aggiungere che era politicamente impossibile. Sono sicuro che volesse dire che era sgradita, a lui, perchè il suo obiettivo è giustifcare un Grexit che permetta la realizzazione del suo Piano per l’Europa.
Forse è vero che, da greco e da  protagonista dei negoziati negli ultimi cinque mesi, la mia valutazione del Piano Schauble-Lamers, e dei mezzi da loro scelti, è posto in modo troppo fazioso per essere considerata in Germania.
La Germania è stata una leale cittadina europea e il popolo tedesco, occorre riconoscerlo, ha sempre desiderato di incardinare il suo Stato-Nazione dentro un’Europa unita. Così, mettendo da parte i miei punti di vista sulla questione, la domanda è questa:
Caro lettore, cosa ne pensi? Il Piano del Dr Schauble è in conformità con il tuo sogno di un’Europa democratica?
Oppure la sua realizzazione inizierà con il trattamento della Grecia come qualcosa tra uno “Stato paria” e un agnello sacrificale, che innescherà un feedback continuo tra l’instabilità economica e l’autoritarismo che da questa trae energia.

giovedì 2 luglio 2015

I GIORNI DEL NO

La Grecia ha detto molti No nel corso della sua storia. No ai Persiani (certo, un'altro mondo), no ai Turchi, no agli Italiani. Ha sempre pagato un prezzo altissimo, perché la vita non perdona chi non subisce i rapporti di forza, chi non si piega e non rinuncia alla propria libertà di fronte a "generose offerte".
Oggi il dilemma è simile a quello del 1940, anche se storicamente ha un significato ancora più profondo. Allora, nel 1940, il NO della Grecia all'ultimatum di un membro dell'Asse, veniva dopo una serie di innumerevoli SI, che con la complicità delle Potenze europee occidentali avevano sconvolto la carta europea (diviso la Cecoslovacchia, ridotto la Boemia a un protettorato tedesco, l'Etiopia a una colonia italiana, l'Albania a un'appendice del nostro re, la Romania e l'Ungheria a pedine in mano di Berlino, messo in un angolo, isolata da tutti, l'Unione Sovietica, costretta a un accordo con il nazismo - accordo molto discutibile, certo - per non restare isolata). E quei SI avevano permesso, infine, alla Germania di conquistare l'Europa intera, con l'esclusione di Spagna e Portogallo, Italia (per modo di dire) e parte dell'Unione Sovietica (1941). Insomma, la Grecia fu l'unico paese ad andare in guerra sapendo di perdere, ma con la volontà di resistere. Pagò un prezzo altissimo, ma ancora oggi può scrivere che l'unico alto prelato europeo che protestò ufficialmente con i tedeschi per la deportazione degli ebrei, fu l'Arcivescovo di Atene (per esempio). E l'unica isola europea occupata da cui non fu deportato un solo ebreo, perché tutti vennero nascosti in montagna, fu, sempre per esempio, Zacinto. 
Ebbene, oggi il NO dei greci è un sacrificio immane, che pagherebbero per i popoli europei ancora una volta. Le conseguenze non saranno deportazioni o bombardamenti, magari neanche la fame, ma probabilmente una depressione economica ancora più forte di quella di oggi. Un sacrificio, però, che significherebbe politicamente la più grande vittoria no global del nostro tempo, una Genova vendicata, un NO alla politica finanziaria delle multinazionali, allo sfruttamento dell'uomo sull'uomo nelle condizioni di questo mercato, ai diktat dei tecnocrati europei, alla crescita ineguale e alla mancanza di solidarietà tra i paesi. Un NO a tutto questo sarebbe un SI alla vita, a una vita sconosciuta, per ora, ma diversa da questa, a una eco-nomia più vicina all'uomo, una bio-nomia, un SI per tutti quelli che si sono ritirati nel privato aspettando GODOT. Ebbene, GODOT è finalmente arrivato e si chiama OXI.