NON É EVOCANDO WEIMAR CHE LA EVITEREMO
Il referendum di domenica 4 dicembre e il suo esito, in particolare, hanno determinato la fine di qualcosa.
Non rappresentano solo la fine di un’esperienza di governo o della legislatura che ha, evidentemente, esaurito gran parte della propria ragione politica. Si è esaurito un intento riformista che ha caratterizzato l’impegno di molti durante un arco di tempo ventennale e che aveva al suo centro il tentativo di modernizzare e di innovare le istituzioni come risposta ai bisogni sociali. I bisogni sociali, però, sono arrivati prima dell’esito e del risultato di quell’intento, complici gli effetti di una crisi, prima negata, poi usata e finalmente affrontata e non ancora arrestata i cui effetti hanno surclassato questo sforzo riformista.
Si tratta quindi di vedere e comprendere la fine di una fase. La fine di questa lunga fase della vicenda repubblicana inevitabilmente ne apre un’altra sia in termini storici che politici.
Sono convinto che questo referendum assumerà presto una funzione simbolica di ampia portata come lo furono i referendum di inizio anni ’90, che inaugurarono una stagione maggioritaria e tendenzialmente bipolare.
Se è vero che assistiamo alla fine di una fase e di certi suoi intenti riformisti, allora è altrettanto vero che sarebbe auspicabile terminassero anche elementi deleteri di questa stagione, primo fra tutti la subalternità della politica alla tecnica e alla burocrazia. Subalternità ricercata come risposta ad un una domanda di frenare la corruzione e l’assenza di moralità, rivelatasi inutile se non deleteria anche in questo senso.
Non possiamo guardare al risultato referendario con il miopismo di chi considera solo i numeri assoluti, i 13 milioni contro i 19, e nemmeno di chi si abbandona a scenari evocativi ricercando analogie nei risultati percentuali.
Per una volta dovremmo provare a considerare non solo quanti voti abbiamo preso, ma quali e dove. Non possiamo esimerci da constatare che chi ha raccolto con maggiore ardore la possibilità di cambiamento offerta da questa sfida riformista raccoglie consensi in luoghi e ceti che si sono sentiti più al riparo da una crisi che non è solo economica, ma sociale e molto più marcatamente culturale. La cosa più triste è che questo consenso, se venisse tradotto in consenso elettorale non verrebbe raccolto nemmeno da chi, opponendosi tentativo di cambiamento, occupa uno spazio “preteso di sinistra”. Queste formazioni, anzi, al netto del minoritarismo congenito che le mina dal proprio interno, subiscono ancora più del Partito Democratico la propria limitazione di consenso ad ceto riflessivo, basso, medio o alto che sia.
La fase che si apre è difficilissima ed è caratterizzata da una reale minaccia per le istituzioni e, come si sarebbe detto un tempo, per la tenuta democratica. Questa minaccia è rappresentata dal grillismo e da tutti gli altri movimenti populisti e xenofobi presenti nel nostro panorama nazionale, in questo non dissimile, per una volta, dal contesto europeo.
Purtroppo è evidente che non prenderemo un solo voto in più continuando a denunciare quale pericolo rappresentino queste forze. Aumenteremo il nostro consenso solo risultando efficaci nelle proposte rispetto alla loro volgarità e rappresentazione anche estetica di un disagio a cui non offrono risposta né rappresentanza, ma una inutile auto-rappresentazione indulgente.
Non è evocando Weimar, per quanto il pericolo sia quanto mai reale e drammaticamente ravvicinato, che eviteremo Weimar. Questo grido resterà inascoltato e un redivivo spirito proporzionalista non ci aiuterà in alcun modo, in questo senso. Eviteremo Weimar solo se ne saremo capaci davvero.
E’ tempo, che in questa nuova fase la politica esca dalla subalternità alla burocrazia e alla tecnica in cui si è cacciata, o è stata cacciata.
Il protagonismo della politica, come luogo di programmazione ed azione, deve tornare altrimenti non vi sarà più politica. Serietà e capacità dei propri gruppi dirigenti, non scelti solo come destinatari di consenso, sono l’anticorpo per non soccombere alla soverchiante preponderanza delle macchine burocratiche, locali o nazionali. Solo così chi ricopre figure istituzionali potrà non doversi quasi scusare dei propri incarichi perché risiederà nella propria efficacia d’azione la natura stessa del proprio rispetto. Non più la percezione di essere “ceto politico”, ma semplice e primigenia rappresentanza delle istituzioni per poter essere giudicati in base alle proprie azioni e non denigrati per il proprio stesso incarico.
Si tratta, in primo luogo, di un’operazione culturale che deve investire tutti e in tempi che probabilmente non saranno brevi.
Si tratta di un ritorno al passato questa nuova fase? Per alcuni di quelli che l’hanno volutamente determinata certamente si. Sono tuttavia convinto che vivere questa nuova fase guardando al passato non servirà di certo ad affrontarla ma quasi sicuramente a soccombervi.
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