mercoledì 25 settembre 2013

L'UNIVERSITA' DI COLLOCAMENTO

L'interno di un dipartimento dell'UNICAL
Com'è noto, in Italia gli uffici di collocamento hanno sempre funzionato male. Ci si sorprendeva, arrivando in Inghilterra (che pure non era il paradiso, anzi), della loro capacità di mettere anche uno straniero sprovveduto dentro il mercato del lavoro e fargli addirittura percepire una sovvenzione di disoccupazione. In tempi più recenti furono le agenzie interinali a sostituire i primi. Più efficienti, nate sotto il segno del liberismo, hanno in parte contribuito alla precarizzazione del mondo del lavoro. Poi è arrivata la crisi del 2008, che ha fatto il resto. Il governo italiano ha risposto con tagli alla spesa pubblica, non potendo più svalutare la lira. Tra le istituzioni che più ne hanno risentito, si trova l'università. Premetto che considero più deleterio per il cattivo funzionamento della struttura il baronaggio incipiente che i tagli, ma dopo averla spolpata, adesso si vuole addirittura mutarne volto e finalità. Con, ovviamente, la complicità di quei baroni che per decenni l'hanno screditata a livello internazionale (al punto che ormai mi vergogno con i ricercatori precari a dire che sono di ruolo). Ieri l'altro il giornale della borghesia milanese pubblicava un articolo di Roger Abravanel che riprendeva le parole di Letta sull'università, per le quali l'ascensore sociale che essa aveva un tempo rappresentato si era bloccato. Roger è un capitalista di livello, uno con le mani in pasta e il culo su sedie di diversi importanti consigli di amministrazione. Uno squalo, un nemico di classe. Vabbè, nessuno è perfetto. E' poi autore di un best-seller uscito nel 2008: Meritocrazia: Quattro proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro paese più ricco e più giusto. Uno così, insomma, di quelli che ti propone la rivoluzione dall'alto della borghesia in crisi. E cosa propone adesso? Anziché porre in evidenza come l'Italia sia l'unico paese europeo, con la Finlandia, ancora in grave recessione, che il suo mercato del lavoro è bloccato da una burocrazia improduttiva e fatiscente, dal limitato accesso al credito, dall'alto costo degli oneri da lavoro e dal fatto che, con Cipro, paghiamo il prezzo più alto per le fonti energetiche, se ne esce con la seguente affermazione, da far rizzare i capelli anche all'economista più sprovveduto:

"per creare lavoro servono anche i professori universitari di cui parla il premier: non come sbocco di carriera, ma come docenti di una nuova generazione di giovani, con le competenze che si chiedono nel mercato del lavoro del Duemila e che sono radicalmente diverse da quelle di cinquant'anni fa. I professori universitari devono esser egli "ascensoristi", non i passeggeri dell'ascensore sociale".

Ora, che Letta l'abbia detta grossa puntando alla carriera universitaria come fattore di emancipazione sociale, siamo d'accordo. Ma che l'università serva a formare un lavoratore nel senso in cui lo richiede il capitale finanziario (se vogliamo dirla alla Fumagalli, il capitale cognitivo - e aggiungiamo pure Negri - dell'impero!) beh, direi che non ci siamo proprio. Uno dei limiti delle riforme universitarie degli ultimi quindici anni, a parte l'aumentata burocratizzazione dell'istituzione, sono stati proprio i rapporti distorti con il mondo del lavoro. L'università è istruzione superiore, serve a formare coscienza e mente di un ragazzo, non a creare il prototipo del bravo lavoratore pronto a essere inserito con la sua specializzazione limitata da 20 stupidi esami iperconcentrati. L'università serve a far crescere negli studenti l'amore per la ricerca, la passione per la cultura, le competenze per il lavoro che vorrebbero fare, ma in senso ampio e, soprattutto, critico. Non solo non è un ufficio di collocamento, ma non è neanche un corso di aggiornamento. Quello se lo fanno le aziende. Le quali, se proprio vogliono, potranno sempre aprirsi le proprie università private dove formare quel lavoratore lobotomizzato di cui sembrano avere così disperato bisogno. Dentro la mia facoltà in tre abbiamo vinto una battaglia perché non venisse data una laurea Honoris Causa a Marchionne in tempi ancora non sospetti. Non solo per Marchionne e il capitale, ma perché non volevamo che questo legame università-azienda, che si è in parte già formato, venisse sanzionato in modo così fortemente simbolico. Abbiamo gli spin-off accademici che già operano con sufficiente pervasività. A questi non si possono aggiungere altre forme di dipendenza che, anzi, dovrebbero essere arginate. L'università, come la scuola, devono tornare a fare quello per cui sono nate. Istruire e preparare ad affrontare una vita. Non si esce medici o avvocati. Si esce laureati. Medici, avvocati o architetti si diventa con la pratica. Comincino i vari Abranel e i suoi amici meritocratici a sboccare il mercato del lavoro universitario, a fare in modo che ci siano più possibilità - non dico di fare carriera - almeno di spostarsi di sede in sede senza che ciò comporti ogni volta la scalata di un 7000. Che si paghino anche un po' di più i professori e che si lascino i ricercatori al loro lavoro di ricerca. Che sia l'eccezione il ricercatore che insegna, e non la regola. E che si torni ad investire, subito, proprio sulla ricerca. E che il capitalista torni a fare il suo, ossia investire denaro e non attendere che lo Stato - che a parole rinnega - gli sforni annualmente un parco buoi da dove assumere sottopagando.




 











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