Un articolo di Stefano Anastasia, presidente onorario dell'Associazione Antigone, sull'abolizione dell'ergastolo dal nostro ordinamento.
Detto, fatto. Lo avevano annunciato a ridosso dell'estate e sono stati di parola. Roberto Speranza e Danilo Leva, rispettivamente capogruppo alla Camera e responsabile giustizia del Partito democratico, hanno presentato la loro proposta di legge per l'abolizione dell'ergastolo. Non sono i soli e non sono i primi, ma un simile impegno, da parte di dirigenti di prima fila di uno dei principali partiti italiani, su un tema così scabroso come quello dell'ergastolo, non si vedeva da tempo e merita di essere rilevato.
Se la proposta dovesse tradursi in legge, la pena dell'ergastolo sarebbe sostituita dalla pena massima temporanea, fissata dall'ordinamento in trent'anni di reclusione. In questi giorni, fosche nubi tornano ad addensarsi sul prosieguo della legislatura, ma la contemporanea raccolta di firme dei radicali per i referendum terrà all'ordine del giorno la questione, in questa come nella prossima legislatura, anche se dovessimo tornare a votare in tempi brevi.
Come di ogni previsione normativa, anche dell'ergastolo ci si può chiedere se sia giusto, se sia giuridicamente legittimo, se sia effettivamente applicato. Della (in)giustizia dell'ergastolo scriveva Aldo Moro in quella ormai celeberrima lezione tenuta in uno dei suoi ultimi corsi universitari (ora in S. Anastasia-F. Corleone (a cura di), Contro l'ergastolo. Il carcere a vita, la rieducazione e la dignità della persona, Ediesse 2009) giustamente richiamata da Speranza e Leva nella relazione introduttiva alla loro proposta: "un giudizio negativo, in linea di principio, deve essere dato non soltanto per la pena capitale, che istantaneamente, puntualmente, elimina dal consorzio sociale la figura del reo, ma anche nei confronti della pena perpetua: l'ergastolo, che, privo com'è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento e al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumano non meno di quanto lo sia la pena di morte".
Della disumanità dell'ergastolo si è recentemente occupata la Corte europea dei diritti umani che, nel caso Vinter, ha condannato la Gran Bretagna per l'impossibilità di una effettiva revisione della pena dell'ergastolo in corso di esecuzione che, appunto, lo renderebbe una pena inumana.
Della legittimità dell'ergastolo nel nostro ordinamento si discute sin da quando l'Assemblea costituente scrisse quel comma 3 dell'articolo 27 che impone la finalità rieducativa della pena e il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità. Può tendere alla rieducazione una pena senza fine? o meglio: la cui fine coincida con la morte del condannato (perché questo, si ricordi, è il significato della pena dell'ergastolo)? Nel 1974 la Corte costituzionale se la cavò con un paradosso: l'ergastolo è legittimo in quanto anche all'ergastolano è data la possibilità di accesso alla liberazione condizionale, che poi vuol dire che l'ergastolo è legittimo nella misura in cui non venga effettivamente applicato, e cioè: nella misura in cui non sia tale. Insomma, l'ergastolo in quanto tale non è legittimo, ma sul presupposto che non sia applicato può essere mantenuto nell'ordinamento.
Più recentemente (nel 2003) la Corte costituzionale ha salvato anche il cosiddetto "ergastolo ostativo", l'ergastolo senza possibilità di accesso alla liberazione condizionale per coloro che non collaborino con la giustizia, sul presupposto che - se rifiuta di collaborare - sia responsabilità del condannato il mancato accesso alla liberazione condizionale, minimamente facendosi carico del fatto che la pretesa di collaborazione è tipicamente inquisitoria: il pubblico ministero persegue un'ipotesi accusatoria nei confronti di qualcuno che non ha la forza per dimostrare e sostenere in giudizio; gli serve una denuncia o, meglio, una chiamata in correità; il condannato all'ergastolo che corrisponde alle esigenze del Pm potrà avere accesso alla liberazione condizionale e sperare di terminare la sua vita in libertà; quello che si rifiuterà di collaborare sarà schiacciato a vita dal "fine pena mai", come recitano i fascicoli penitenziari.
Di tutte queste cose e dei buoni argomenti per riproporre alla Corte costituzionale la questione della legittimità dell'ergastolo ha scritto recentemente Andrea Pugiotto, ordinario di diritto costituzionale nell'Università di Ferrara, mettendo a disposizione di magistrati e avvocati una bozza di ricorso alla Consulta.
Ma di tutte queste cose, della (in)giustizia dell'ergastolo e della sua (il)legittimità, nel dibattito pubblico italiano non se ne discute più (e qui è il merito dei dirigenti del Pd, e dei radicali e degli altri proponenti l'abolizione dell'ergastolo) perché la vulgata vuole che l'ergastolo in realtà non esista, che non lo sconti più nessuno.
È un particolare tipo di allucinazione, questa che spinge molti autorevoli commentatori a dare per chiusa la questione etica e giuridica dell'ergastolo in nome della sua (supposta) non applicazione. È una allucinazione che colpisce tipicamente i giuristi (ma che può essere condivisa anche dai profani che si dilettano con la materia): il codice dice che l'ergastolano può essere ammesso alla liberazione condizionale dopo aver scontato ventisei anni di pena, e dunque così è.
I più ferrati ricordano poi che il detenuto che abbia tenuto una buona condotta può vedersi cancellati quarantacinque giorni di pena ogni semestre: fatti due conti, l'ergastolano esce a ventidue anni. E poi c'è la semilibertà, i permessi, .... Insomma: gli ergastolani non lo sono per niente. Dunque, è inutile disquisire di una cosa (l'ergastolo) che non esiste. Ma si tratta, appunto, di un'allucinazione.
La realtà invece ci dice di un universo in continua e incessante crescita. Nell'ultimo ventennio gli ergastolani si sono moltiplicati per quattro: erano 408 nel 1992, sono diventati 990 nel 2002 e poi 1581 il 31 dicembre del 2013. Se il complesso della popolazione detenuta avesse seguito lo stesso trend in questi vent'anni, oggi avremmo altri centomila detenuti oltre la capienza massima delle nostre carceri.
Ma veniamo alla ineffettività dell'ergastolo. Nel 1997, quando il Parlamento ha esaminato per l'ultima volta una proposta abolizionista (approvandola nel solo Senato), gli ergastolani erano 875: di questi tre erano in carcere da più di trent'anni (la pena massima temporanea prevista dall'ordinamento) e sedici da più di ventisei (la soglia per richiedere l'accesso alla liberazione condizionale). Nel decennio '86-'96 solo 27 detenuti avevano avuto accesso alla liberazione condizionale.
Dieci anni dopo, nel 2007, quando gli ergastolani erano circa 1350, 49 erano quelli in carcere da più di trent'anni, 94 da più di ventisei. Solo 29 di questi godevano della semilibertà, gli altri erano ordinariamente e quotidianamente chiusi in carcere. Qualche mese fa mi telefona uno di quei 29. Si chiama Calogero Diana ed è probabilmente un record-man dell'ergastolo: secondo il calcolo fatto dalla Procura generale competente ha scontato quarantuno anni di pena.
Dal 1994 è in semi-libertà: esce tutti i giorni dal carcere, va a lavorare in una cooperativa sociale che si occupa di tossicodipendenze, immigrazione, tratta di esseri umani e malati di Alzheimer; fa quel che deve e se ne torna in carcere; tutti i santi giorni da vent'anni in qua. Eppure non è stato giudicato meritevole di essere ammesso alla liberazione condizionale. Ci ha provato due volte, nel 2002 e nel 2004 (quando aveva già superato i trent'anni di pena scontata) e non ha più voglia di fare una nuova istanza, avendo ragione di pensare che sia "a prognosi infausta".
Si può dire che Calogero Diana e gli altri 1580 che lo seguiranno in questo calvario, magari senza neanche godere della semilibertà, non stiano effettivamente scontando l'ergastolo? No, non si può. E per questo è utile e urgente che si riapra la discussione sulla (in)giustizia e la (il)legittimità dell'ergastolo.
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