martedì 21 maggio 2013

IL GIORNO IMPERFETTO

Si è svolto ieri a Monza al Binario 7 un convegno su Aldo Moro in occasione del 35° anniversario del suo rapimento e della sua uccisione.
Nella stessa sala era esposta parte della mostra di Daniela Novella "Un giorno Imperfetto", di cui riporto alcune immagini.

Di seguito il lungo intervento che avevo scritto e al quale ho poi rinunciato per parlare più in generale di una storia di cui, a 35 anni di distanza, si fa ancora molta fatica a tracciarne almeno contorni fermi per l'opinione pubblica. La quale è sempre più confusa, convinta di cose sbagliate e senza riscontro, ammaliata e martellata dai mezzi di comunicazione che ogni anno propongono un nuovo tema e un nuovo mistero da sciogliere.
Oggi i dietrologi sono di seconda generazione. A differenza della prima, ci troviamo di fronte a studiosi preparati, che citano anche fonti bibliografiche attendibili, non mettono in discussione più che le Br siano state le Br e Moro - Moro. Ma spostano poi il discorso sulle "edizioni della prigione del popolo", la manipolazione e la costruzione dell'ostaggio. E qualcuno diventa pure senatore.





MONZA. BINARIO 7




L’ultima battaglia politica di Aldo Moro

Partiamo da un concetto che deve essere fermo: non esiste un’edizione critica delle lettere di Moro, né può esistere perché le stesse contengono molte correzioni fatte dallo stesso autore. Si può ricostruire un Uhrtext da versioni corrotte nel corso dei secoli dai copisti, ma non di un testo di cui abbiamo testimonianza diretta e che non ha subito corruzioni del genere. Del resto, si pone subito un problema insuperabile: come ricostruire lo stemma codicum? L’originalità di quel pensiero si può pertanto ritrovare solo dal contesto della vicenda: da un lato quella più generale delle Brigate Rosse. Dall’altro del sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. Il quale, caduto nelle mani dell’organizzazione militare, cominciò dalla “prigione del popolo” una doppia partita politica finalizzata a spingere il governo verso un accordo con la banda armata, una trattativa: qualcosa di estremamente concreto, ma non più di un’ipotesi, come ha osservato di recente M. Mastrogregori [La lettera blu. Le Brigate rosse, il sequestro Moro e la costruzione dell’ostaggio, Ediesse, Roma 2012, p. 23]. Allo stesso tempo, tentò di difendersi dalle accuse di quello che venne chiamato “processo”, ma che fu, in realtà, la scontata conclusione di un passaggio già deciso: condannare a morte l’ostaggio per costringere le parti politiche a una trattativa. Con le lettere, quindi, Aldo Moro si rivolse ai suoi pari per spingerli ad aperture verso le richieste dei brigatisti, mentre con il cosiddetto Memoriale, o meglio – Memoria difensiva – l’ostaggio tentò di difendersi dalle accuse dei brigatisti e dimostrare la propria responsabilità, che intendeva essere relativa rispetto a scelte più globali. In questa sede ci occuperemo del contenuto di alcune lettere con le quali Moro cercò argomenti a sostegno del suo progetto di mediazione, senza dimenticare che le stesse vanno lette in modo dialettico con il contenuto della sua Memoria difensiva.
Il 16 marzo 1978, poco dopo il rapimento dello statista, Fanfani annotava sul suo diario: “Ora la situazione è disperata. Da parte eversiva si ha un gruppo di cervelli, da parte governativa nulla”. E il 19 marzo, commentando il primo comunicato Br, lo definiva “molto significativo. È un appello a tutti gli insoddisfatti di sinistra di concentrarsi nel partito comunista proletario combattente. Da ciò il concentrarsi di critiche al sistema, che per vari aspetti è una antologia che ogni componente di estrema sinistra tira fuori”.
Fanfani, e come lui molti altri politici democristiani, lessero il comunicato come se per la prima volta si trovassero di fronte a uno scritto delle Br. Meno impreparata apparve la dirigenza del Pci, che assunse immediatamente la linea più intransigente. Berlinguer pubblicò sull’Unità del 19 marzo un pezzo nel quale parlò di

forze potenti, interne e internazionali, che muovono le fila di questo attacco spietato contro lo Stato e le libertà repubblicane. [...] È giunto il momento di decidere da che parte si sta. Noi la scelta l’abbiamo fatta. Essa è scritta nella nostra storia. Il regime democratico e la Costituzione italiana sono conquiste decisive e irrinunciabili del movimento popolare, delle sue lotte, del suo cammino.


Antonio Tatò, un cattolico segretario particolare di Berlinguer, ebbe a dichiarare:

Se [...] aderissimo al principio della trattativa per salvare la vita fisica di Moro, in realtà (e senza alcuna garanzia di riaverlo vivo) faremmo credere che anche noi siamo interessati a che Moro mantenga i suoi segreti: avvaloreremmo cioè la difesa di uno Stato e di una Dc che vogliono tenere nascosti i loro misfatti [...] la politica del compromesso storico [porterebbe allora] la classe operaia e i suoi vecchi e nuovi alleati al progressivo cedi- mento, alla capitolazione, alla resa nei confronti della Dc, “lo scudo crociato della borghesia, degli imperialisti e delle multinazionali”, come le Br chiamavano la Dc. [Barbagallo, p. 67]



Per parte sua, il segretario della DC Zaccagnini ricordò il primo problema politico che avrebbe influito immediatamente sulla posizione della Dc e, quindi, sulla sorte di Moro: le cinque vite umane spezzate in via Fani dai brigatisti. L’agguato di via Fani condizionò inevitabilmente la risposta della Dc e Zaccagnini fu costretto a parlare di Repubblica, governo e Stato, di escalation della guerriglia, e di reazione «con misure organiche e proporzionate al terrorismo». Gli uomini della Dc erano

tutti insieme ad Aldo Moro per la sua salvezza e per il suo ritorno alla fa- miglia, all’Italia e al nostro partito, [ma erano] particolarmente con tutti i cittadini, gli agenti di Ps, i carabinieri, i magistrati, i giornalisti, gli uomini politici che sono stati più direttamente colpiti da questo tentativo di devastazione.


Insomma, non c’era solo Moro.


Il quale, prigioniero delle Brigate rosse, ha un interesse comune con i rapitori: che si apra una trattativa con lo Stato per la sua liberazione. A differenza delle Br, che giocano una partita tutta politica, Moro deve lottare per la vita. Le Br sostengono una linea dura: Parlano di processo [comunicato numero 2, 24 marzo], di interrogatorio [comunicato n. 3, 29 marzo], e di condanna a morte [comunicato n. 6, 15 aprile]. Solo con il comunicato n. 8 del 24 aprile chiedono una contropartita per Moro: la liberazione di SANTE NOTARNICOLA, MARIO ROSSI, GIUSEPPE BATTAGLIA, AUGUSTO VIEL, DOMENICO DELLI VENERI, PASQUALE ABATANGELO, GIORGIO PANIZZARI, MAURIZIO FERRARI, ALBERTO FRANCESCHINI, RENATO CURCIO, ROBERTO OGNIBENE, PAOLA BESUSCHIO e CRISTOFORO PIANCONE.

Mentre ciò si sviluppa nell’arco di più di un mese, Moro ha cominciato la sua battaglia politica, doppia, come abbiamo detto all’inizio. Da un lato, con la memoria difensiva, vuole convincere le Br di non essere il burattinaio o l’uomo dello Stato Imperialista delle Multinazionali che esse credono. Dall’altra, con le missive, è intento a stimolare e indirizzare in qualche modo la risposta della Dc alle mosse dei brigatisti.

Scrive perciò, prima di tutti, a Cossiga il 29 marzo, una missiva recapitata con il terzo comunicato.

Caro Francesco,
mentre t'indirizzo un caro saluto, sono indotto dalle difficili circostanze a svolgere dinanzi a te, avendo presenti le tue responsabilità (che io ovviamente rispetto) alcune lucide e realistiche considerazioni.
Prescindo volutamente da ogni aspetto emotivo e mi attengo ai fatti. Benché non sappia nulla né del modo né di quanto accaduto dopo il mio prelevamento, è fuori discussione - mi è stato detto con tutta chiarezza - che sono considerato un prigioniero politico, sottoposto, come Presidente della D.C., ad un processo diretto ad accertare le mie trentennali responsabilità (processo contenuto in termini politici, ma che diventa sempre più stringente). [...] Devo pensare che il grave addebito che mi viene fatto, si rivolge a me in quanto esponente qualificato della DC nel suo insieme nella gestione della sua linea politica.
In verità siamo tutti noi del gruppo dirigente che siamo chiamati in causa ed è il nostro operato collettivo che è sotto accusa e di cui devo rispondere.


Moro propone una linea politica che sosterrà con molta dignità, senza mutazioni degne di nota, per tutti i 55 giorni del rapimento. Questo è forse il suo limite. Egli cercherà una via sempre partendo dallo stesso punto di vista, quello del Palazzo. Del resto, è l’unico riferimento che conosce. Ed è l’unico che resta estraneo ai brigatisti.
Le Br non comprendono lo scopo che Moro si era prefissato nello scrivere la missiva a Cossiga, tanto che la rendono pubblica là, dove era necessario che restasse segreta. Lo fanno per debolezza. Hanno paura di una trattativa che rischiano di non controllare politicamente. E travisano, tanto che indicano nella lettera «una esplicita chiamata di correità» da parte di un imputato che sapeva «di non essere il solo» e che sollecitava «gli altri gerarchi a dividere con lui le responsabilità».
Ovviamente, le Br sbagliavano. Moro conosceva la Dc come pochi dirigenti e sapeva che quello era sempre stato il partito della mediazione. La segretezza serviva a dare margine al partito per trovare una versione per l’opinione pubblica, la più opportuna dal punto di vista politico.
Nel frattempo il fronte della fermezza si consolida. Il Pci difende la propria linea appellandosi alla ragione di Stato, un’ottica che si rivelerà alquanto miope, perché significa rinunciare a salvare la vita di Moro a prescindere da qualsiasi novità. E Moro per il Pci non è un politico qualunque, ma l’uomo che stava portando, seppur in modo tattico e non strategico, il partito di Botteghe oscure al governo. Assistiamo a quello che può sembrare un paradosso. Mentre l’artefice del governo di solidarietà nazionale si trova nelle mani di un gruppo rivoluzionario che tende ad impedire a quell’accordo di assestarsi e migliorare, i partiti messi insieme proprio da Moro si stringono su una linea di non ascolto. E tanto Moro quanto le Br ne restano sorprese. Le Br proprio dalla posizione del Pci. Moro da quella del suo partito.

Afferma Moretti:

C’è stata un’ingenuità al limite dell’autolesionismo. Il Pci aveva portato a compimento la parabola, non c’era più margine perché la base esprimesse qualcosa di diverso. Forse lo sapevamo già ma non volevamo crederci. Quando il Pci si compatta sulla fermezza, questo ci colpisce come una mazzata [Una storia italiana]

Moro viene informato; gli forniscono ritagli di giornale, attraverso i quali può prendere atto delle posizioni comunista e democristiana. E ne rimane «incredulo, sconcertato, irritato». Comprende, allora, che per aprirsi uno spiraglio, doveva rompere la solidarietà che proprio lui aveva creato tra le due forze politiche, rimandando il Pci all’opposizione. Fu in quei frangenti che Moro progettò una vera politica con il suo partito e probabilmente fu grazie alla sua azione che si creò quel margine nel quale si infilò con grande capacità il neosegretario del Psi Bettino Craxi. In questo frangente nascono i presupposti politici degli anni Ottanta, con le prime presidenze del consiglio non democristiane e il Pci che finirà i suoi giorni politicamente e strategicamente sconfitto. 
Il 4 aprile, insieme al comunicato numero 4 delle Br, viene recapitata una lettera a Zaccagnini, il segretario della Dc. Nel comunicato le Br scrivono: “La manovra messa in atto dalla stampa di regime, attribuendo alla nostra organizzazione quanto Moro ha scritto di suo pugno nella lettera a Cossiga, è stata subdola quanto maldestra. Lo scritto rivela invece, con una chiarezza che sembra non gradita alla cosca democristiana, il suo punto di vista e il nostro”. Quello delle Br riguarda i prigionieri politici, quello di Moro la già ricordata chiamata in correità dei dirigenti democristiani:

Abbiamo più volte affermato che uno dei punti fondamentali del programma della nostra Organizzazione è la liberazione di tutti i prigionieri comunisti e la distruzione dei campi di concentramento e dei lager di regime. Che su questa linea di combattimento il movimento rivoluzionario abbia già saputo misurarsi vittoriosamente è dimostrato dalla riconquistata libertà dei compagni sequestrati nei carceri di Casale, Treviso, Forli, Pozzuoli, Lecce etc. 
Certo perseguiremo ogni strada che porti alla liberazione dei comunisti tenuti in ostaggio dalla Stato Imperialista, ma denunciamo come manovre propagandistiche e strumentali i tentativi del regime di far credere nostro ciò che invece cerca di imporre: trattative segrete, misteriosi intermediari, mascheramento dei fatti

Vediamo, invece, cosa afferma Moro, che ha come riferimento la linea del Pci:

Caro Zaccagnini,
scrivo a te, intendendo rivolgermi a Piccoli, Bartolomei, Galloni, Gaspari, Fanfani, Andreotti e Cossiga ai quali tutti vorrai leggere la lettera e con i quali tutti vorrai assumere le responsabilità, che sono ad un tempo individuali e collettive. Parlo innanzitutto della D.C. alla quale si rivolgono accuse che riguardano tutti, ma che io sono chiamato a pagare con conseguenze che non è difficile immaginare. Certo nelle decisioni sono in gioco altri partiti; ma un così tremendo problema di coscienza riguarda innanzitutto la D.C., la quale deve muoversi, qualunque cosa dicano, o dicano nell'immediato, gli altri. Parlo innanzitutto del Partito Comunista, il quale, pur nella opportunità di affermare esigenze di fermezza, non può dimenticare che il mio drammatico prelevamento è avvenuto mentre si andava alla Camera per la consacrazione del Governo che m'ero tanto adoperato a costituire. [...] Sono un prigioniero politico che la vostra brusca decisione di chiudere un qualsiasi discorso relativo ad altre persone parimenti detenute, pone in una situazione insostenibile. Il tempo corre veloce e non ce n'è purtroppo abbastanza. Ogni momento potrebbe essere troppo tardi.

Siamo al 4 aprile. Mancano 14 giorni al 18 aprile, giorno del falso comunicato con la morte di Moro, e 20 all’8 comunicato, che contiene la condanna a morte dell’ostaggio e la richiesta di liberazione dei detenuti che abbiamo visto. Cosa accade nel frattempo? Le Br rendono noto un passo della memoria difensiva su Paolo Emilio Taviani, pubblicato sul “Corriere della Sera l’11 aprile, Moro si rivolge a personalità diverse, nazionali e internazionali e, in particolare, a Paolo VI con una lettera il cui incipit serve ad accattivarsi il destinatario: Moro si dice “memore della paterna benevolenza che la Santità Vostra mia ha tante volte dimostrato”, e tra l’altro quando io ero giovane dirigente della Fuci”. La lettera è scritta intorno all’8 aprile. Il papa risponde dopo una decina di giorni. La sera del 21 aprile, dopo la recita del rosario, il Papa si ritirò nella sua camera per stendere una missiva con la quale chiedere la liberazione di Moro direttamente ai brigatisti, ma sulla base dell’appello del 2 aprile, non delle richieste dell’ostaggio; egli si rivolge «agli uomini delle Brigate rosse» perché restituiscano alla libertà, alla sua famiglia, alla vita civile l’onorevole Aldo Moro, un uomo onesto e buono, che nessuno può accusare di scarso senso sociale e di mancato servizio alla giustizia e alla pacifica convivenza civile. Ricorda di essere stato suo amico di studi, quindi, parlando in modo di- retto ai rapitori nel nome di Cristo, li prega in ginocchio di liberarlo «semplicemente, senza condizioni, non tanto per motivo della mia umile e affettuosa intercessione, ma in virtù della sua dignità di comune fratello in umanità».
Il gesto è apparentemente di alto profilo morale; Paolo VI si appella ai rapitori di Moro, li chiama per nome e chiede che l’agire politico lasci il posto a considerazioni umanitarie. Per un verso, quindi, egli si pone umilmente in ginocchio di fronte a loro; per un altro, però, dimostra di aver compreso la posizione del governo italiano e il suo nobile gesto non travalica i confini che regolarono l’azione politica di Palazzo Chigi. La missiva, infatti, non coincide in nulla con quanto richiesto da Moro, secondo il quale non era ai brigatisti che il Papa avrebbe dovuto rivolgersi, bensì al governo. E se è vero, come affermato da molti, che si tratta di un documento considerevole, è anche lecito sostenere che il pontefice sceglie in coscienza di scrivere una lettera molto diversa da quanto richiesto da Moro. Il Vaticano, insomma, che a partire dal 19 marzo era in costante contatto con il governo italiano, non poteva andare contro la politica della fermezza, con la quale concordava e verso la quale, nei 55 giorni del sequestro, non ebbe mai una parola di biasimo. Un’altra circostanza, inoltre, proprio in quei giorni suggeriva prudenza, sebbene la sua influenza, in questo caso, fu di secondo piano. Attenendoci a quanto accertato da Vladimiro Satta, nonché confermato in tempi diversi da Giulio Andreotti, da monsignor Fabbri e da Pasquale Macchi, in una data compresa tra il 15 e il 22 di aprile Paolo VI attraverso i suoi collaboratori incaricò il capo dei cappellani delle carceri italiane e di San Vittore a Milano, Cesare Curioni, di ricercare il modo di favorire l’ipotesi del pagamento di un forte riscatto (si parla di cinque miliardi di lire) per la liberazione di Moro. Curioni era stato avvicinato in carcere da un sedicente brigatista, che gli aveva prospettato tale possibilità e il Vaticano si era fatto premura di avvertire il governo nella persona di Andreotti, che aveva manifestato il proprio assenso all’operazione dopo essersi consultato con Berlinguer.
Una serie di circostanze riportate da Satta, però, fanno ritenere che quel sedicente emissario fosse, in realtà, un impostore che avrebbe sfruttato il falso comunicato del 18 aprile, quello che rendeva nota la morte di Moro e l’occultamento del suo cadavere nel lago della Duchessa, per accreditarsi di fronte al Vaticano, annunciandone, appena diffuso, la falsità e la prossima smentita da parte brigatista. Secondo Andreotti, addirittura, lo stesso personaggio avrebbe segnalato la diffusione dell’apocrifo ancora prima che esso fosse reso noto, avvertendo che si trattava di un falso. Se così è stato, si spiega chiaramente lo scopo del falso comunicato (provare la credibilità di un emissario «brigatista» al fine di estorcere denaro per la liberazione del prigioniero), mentre cadono le congetture e i collegamenti con la scoperta della base di via Gradoli, avvenuta quello stesso giorno a Roma; e la questione non muta nemmeno nel caso si tratti, da parte di Andreotti, di un falso ricordo e quel personaggio abbia parlato dell’apocrifo solo dopo la sua diffusione. Il sedicente brigatista, infatti, tentò in ogni caso di sfruttare la vicenda del falso comunicato per accreditarsi, ma scomparve la mattina del 9 maggio, adducendo scuse, dopo il ritrovamento del cadavere dell’ostaggio in via Caetani, senza essere riuscito a spostare la «trattativa» dal suo stato embrionale.
L’appello di Paolo VI fu diffuso il 22 aprile sulla prima pagina dell’«Osservatore Romano» e venne accolto positivamente da molte forze politiche, sebbene il cavallo di razza Amintore Fanfani non sembrasse aver del tutto gradito; «generale» scrisse «è il riconoscimento del gesto del Papa», ma «discusso qualche aspetto della lettera». L’attenzione di tutti, com’è naturale, si concentrò sulla locuzione «senza condizioni» e in seguito Guerzoni dichiarò che sarebbe stato Andreotti a imporla al Papa, circostanza mai provata. A mio parere non furono né Andreotti né altri a suggerire quelle parole al pontefice, ma le circostanze, la situazione politica, la strettissima strada scelta dal governo italiano, che non concesse a nessuno – pena il chiamarsi fuori – la possibilità di uscire dagli angusti limiti della fermezza, che prevedeva solo il bene e il male, senza alcuna zona grigia. Andreotti, comunque, accolse positivamente il documento del pontefice:

Il Papa, con inaspettata decisione, rivolge un elevatissimo appello per la liberazione di Moro [...]. Lo ha scritto questa notte di getto; lo ha poi ri- veduto e copiato di suo pugno perché – dalla pubblicazione – si vedesse chiaro la natura personale del gesto stupendo.

A dire del presidente del Consiglio, che il 25 inviò una sua missiva di ringraziamento in Vaticano, il Papa aveva fatto per la liberazione di Moro «più dell’immaginabile con forza e insieme con delicatezza», ma «la durezza del cuore dei destinatari ha resistito anche a questo eccezionale appello». Nella medesima lettera, inoltre, il capo del governo sentì il bisogno di spiegare ufficialmente il motivo per il quale uno scambio non fosse proponibile: era assurdo equiparare gli ostaggi di un gruppo criminale con coloro che dovevano rispondere alla giustizia per gravi delitti (coloro per i quali si chiedeva lo scambio). L’ipotesi di Moro, secondo cui ci si sarebbe trovati in guerra, era vista come un espediente dei brigatisti per giustificare uccisioni e attentati; inoltre «gli umili servitori dello Stato» non avrebbero potuto sopportare che per liberare un uomo politico si calpestassero le leggi, e anche una grazia presidenziale avrebbe provocato una rivolta morale. Affermava infine che il Parlamento condivideva la linea della fermezza «nella coscienza che diversamente si aprirebbero davvero pagine di avventura in una irrefrenabile spirale di violenza».

Dentro la prigione del popolo, però, l’appello del papa provoca un dramma e azzera le speranze di liberazione. È in questo preciso momento che Moro si sente perduto. Conoscendo come gira il palazzo, egli è in grado di interpretare il significato vero di quel messaggio “apolitico”: il sigillo a una decisione che non si sarebbe più mossa.

Arriviamo così al comunicato n. 8 con la “condanna a morte” di Moro del 24 aprile.

Quattro giorni dopo Moro scrive alla DC una lettera di cui – lo ricordo – abbiamo tre versioni e che Mastrogregori, autore de La Lettera blu, ha definito “un evidente, documentato montaggio di fogli autografi dell’ostaggio” [p. 89], “edito a cura dei terroristi” [p. 96]. Recentemente, su alcune lettere è stata eseguita un’analisi da parte dell’Istituto centrale per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico e librario italiano. La direttrice del laboratorio di biologia dello stesso, Flavia Pinzari, ha affermato che sono state trovate tracce saline che fanno pensare a lacrime. La missiva alla Dc è la seconda di un gruppo di undici, scritte tra il 20 e il 29 aprile, che a suo dire supporta più di tutte il peso psicologico del sequestro [Il Venerdì di Repubblica, 13 gennaio 2012, p. 18]. Aggiunge la direttrice dell’Istituto, Maria Cristina Misiti, che “la lettera alla Dc p la più lunga di tutte: si compone di 10 fogli ed è l’unica ad essere stata scritta su carta extra strog”. La migliore qualità della carta rispetto alle altre ha posto la questione: “Perché è stata scelta? E chi ha deciso? [...] E’ evidente che questa lettera dovesse condensare l’estremo appello di Moro” [ivi], e forse è per questo che adesso ne viene messa fortemente in dubbio non l’autenticità ma la paternità, nel senso che: “Le lettere sono autentiche, ne senso che non sono scritte sotto dettatura delle Brigate rosse. Sono però costruite, montante, portate all’esterno del covo [...] sotto la direzione e a cura delle Brigate rosse” [Il Venerdì, cit].. Per completezza di informazione, quello che Filippo Ceccarelli considera il massimo esperto “dell’estremo moroteismo”, Miguel Gotor, sostiene che le lettere erano vagliate dai brigatisti e quindi riconsegnate all’ostaggio perché ne ricopiasse la versione finale [Il Venerdì, cit., p. 22].
Ciò detto, e spiegato che più semplicemente Moro scriveva e riscriveva le proprie missive per trovare le parole più adatte a farsi comprendere dai propri interlocutori, vediamo un passaggio della lettera alla DC.

Dopo la mia lettera comparsa in risposta ad alcune ambigue, disorganiche, ma sostanzialmente negative posizioni della D.C. sul mio caso, non è accaduto niente. Non che non ci fosse materia da discutere. Ce n'era tanta. Mancava invece al Partito, al suo segretario, ai suoi esponenti il coraggio civile di aprire un dibattito sul tema proposto che è quello della salvezza della mia vita e delle condizioni per conseguirla in un quadro equilibrato. E' vero: io sono prigioniero e non sono in uno stato d'animo lieto. Ma non ho subito nessuna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, un altro e non merito di essere preso sul serio. Allora ai miei argomenti neppure si risponde. E se io faccio l'onesta domanda che si riunisca la direzione o altro organo costituzionale del partito, perché sono in gioco la vita di un uomo e la sorte della sua famiglia, si continua invece in degradanti conciliaboli, che significano paura del dibattito, paura della verità, paura di firmare col proprio nome una condanna a morte. [...] Ma tra le Brigate Rosse e me non c'è la minima comunanza di vedute. E non fa certo identità di vedute la circostanza che io abbia sostenuto sin dall'inizio (e, come ho dimostrato, molti anni fa) che ritenevo accettabile, come avviene in guerra, uno scambio di prigionieri politici. E tanto più quando, non scambiando, taluno resta in grave sofferenza, ma vivo, l'altro viene ucciso. [...] Da che cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina, se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, a compenso, altra persona va, invece che in prigione, in esilio? Il discorso è tutto qui. [...] Vorrei ora tornare un momento indietro con questo ragionamento che fila come filavano i miei ragionamenti di un tempo. [...] in moltissimi casi scambi sono stati fatti in passato, ovunque, per salvaguardare ostaggi, per salvare vittime innocenti. Ma è tempo di aggiungere che, senza che almeno la D.C. lo ignorasse, anche la libertà (con l'espatrio) in un numero discreto di casi è stata concessa a palestinesi, per parare la grave minaccia di ritorsioni e rappresaglie capaci di arrecare danno rilevante alla comunità. E, si noti, si trattava di minacce serie, temibili, ma non aventi il grado d'immanenza di quelle che oggi ci occupano. Ma allora il principio era stato accettato.

“Accettato” al punto che possediamo una nota informativa dell’Ucigos del 1979 che fa il punto della situazione sul terrorismo palestinese in Italia. A p. 8 si legge:

Dal 1974 al 1978 nelle vicende del terrorismo si alternano periodi di fecondità a periodi di stasi, ma per quanto riguarda l’Italia essa resta un punto di riferimento costante nell’ottica delle varie organizzazioni arabe. La politica dei vari governi italiani è sempre stata ispirata a non irritare i regimi arabi affinché non attuassero misure di rappresaglia in campo economico. Lo scotto di questo vantaggio è stato tuttavia pagato in termini di insicurezza nazionale.

E ancora: “Da tale premesse discende quindi coerente l’esigenza dell’adozione di misure cautelative attraverso il potenziamento dei mezzi, la revisione dei criteri finora seguiti nel controllo degli stranieri e l’individuazione degli strumenti garantistici se non si vuole che l’Italia diventi, nel volgere di poco tempo, più fertile terreno per i fautori del terrorismo [p. 9]. E, a p. 4, “l’Italia è base preferita dei terroristi palestinesi” dal 1968.


Racconta Valerio Fioravanti: “Cossiga ci ricordò che l’accordo a cui faceva riferimento Pifano era un accordo informale di cui lui, né come ministro dell’interno, né come primo ministro, né come presidente della repubblica aveva mai trovato una versione scritta, ufficiale. Ma era risaputo che si trattava d’un accordo raggiunto nel 1974 da Aldo Moro, subito dopo l’attentato palestinese all’aeroporto di Fiumicino del 15 dicembre 1973 in cui si contarono 32 morti e 15 feriti. In base a quell’accordo l’Italia avrebbe lasciato libertà di passaggio ai palestinesi; in cambio, i palestinesi s’impegnavano a non fare altri attentati in Italia, a non dirottare aerei italiani, a non colpire cittadini italiani all’estero. Inoltre, l’Italia s’impegnava ad impedire che i servizi segreti israeliani continuassero a compiere “omicidi mirati” di palestinesi sul suolo italiano.”



Dunque, Aldo Moro sapeva di cosa stava parlando, così come lo sapevano i dirigenti del suo partito.
Disperando di riuscire ad aprire una trattativa, due giorni più tardi, direi con grave ritardo, le Br nella persona di Moretti telefonano a casa Moro:

Noi facciamo questa telefonata per puro scrupolo perché suo padre insiste nel dire che siete stati un po’ ingannati e probabilmente state ragionando su un equivoco. Finora avete fatto tutte cose che non servono assolutamente a niente. Noi crediamo invece che i giochi siano fatti e abbiamo già preso una decisione. Nelle prossime ore non possiamo fare altro che eseguire ciò che abbiamo detto nel comunicato numero 8. Quindi chiediamo solo questo: che sia possibile un intervento di Zaccagnini, immediato e chiarificatore in questo senso. Se ciò non avviene, rendetevi conto che noi non potremo fare altro che questo. Mi ha capito esattamente? [...] Ecco, quindi è possibile solo questo. Lo abbiamo fatto semplicemente per scrupolo nel senso che, sa, una condanna a morte non è una cosa che possa essere presa alla leggera neanche da parte nostra. Noi siamo disposti a sopportare le responsabilità che ci competono. [...] Il problema è politico e a questo punto deve intervenire la Democrazia cristiana. Abbiamo insistito moltissimo su questo, perché è l’unica maniera in cui si può arrivare eventualmente a una trattativa. [...] Solo un intervento diretto, immediato e chiarificatore, preciso di Zaccagnini può modificare la situazione. Noi abbiamo già preso la decisione. Nelle prossime ore accadrà l’inevitabile, non possiamo fare altrimenti. Non ho niente altro da dirle.


Pochissimi giorni prima, tra il 22 e il 23 aprile, Moro aveva scritto a Bettino Craxi, di cui aveva colto, tra frammentarie notizie, “una forte sensibilità umanitaria del tuo partito”. In questa lettera si può vedere il tentativo di Moro di portare Craxi verso la rottura con il governo di solidarietà nazionale perché si doveva dar luogo “con la dovuta urgenza ad una seria ed equilibrata trattativa per lo scambio di prigionieri politici” [...] Ogni ora che passa potrebbe renderla vana ed allora io ti scongiuro di fare in ogni sede opportuna tutto il possibile nell’unica direzione giusta che non è quella della declamazione”. Craxi ebbe a definire il 24 maggio in occasione del CC del partito, che la sua iniziativa fu “costituzionale” e non umanitaria. Il 30 aprile, parlando con Mitterand, allora segretario del PSF si sfogò, come ricorda il futuro presidente francese: “Craxi ha ricevuto ieri una lettera del prigioniero e attende dalle pressioni congiunte di Paolo VI, Fanfani e Saragat sul presidente della Repubblica Leone, che questo firmi un decreto di grazia e che il governo si decida a uno scambio limitato – uno contro uno – con le Brigate Rosse, le quali, raggiunto il loro obiettivo, possono accontentarsi. Craxi ha avuto parole terribili per la Democrazia Cristiana” [Mitterand, La paglia e il grano, p. 188].
            Nel 1995 “Critica Sociale” pubblicò un volume intitolato Lettere dal patibolo, che conteneva 38 missive scritte da Moro durante i 55 giorni. L’introduzione, non firmata, era opera di Craxi. In questo scritto l’ex leader socialista offre una lettura inedita della figura di Moro, non uomo della mediazione, ma addirittura dello scontro con i comunisti. Parte dalla memoria pubblica: la statua di Moro con in tasca una copia dell’Unità. Secondo Craxi le cose non erano in questi termini: “Il Pci – scrive – aveva un rapporto di solidarietà con Mosca che l’eurocomunismo aveva solo in parte incrinato facendo sorgere sospetti tanto nell’uno che nell’altro campo”. Mentre uomini come Zaccagnini e La Malfa aprono ai comunisti, sarebbe stato Moro a imporre un governo monocolore, rifiutando addirittura ministri tecnici graditi ai comunisti e inserendo uomini come Toni Bisaglia e Carlo Donat Cattin che erano “nella lista di proscrizione del Pci”. Questa lettura rovescerebbe tutto il quadro di chi ha visto in Moro l’uomo del compromesso storico e nelle Br l’arma in mano a qualcuno che quel programma volle far fallire. 














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