Si è svolto ieri a Monza al Binario 7 un convegno su Aldo Moro in occasione del 35° anniversario del suo rapimento e della sua uccisione.
Nella stessa sala era esposta parte della mostra di Daniela Novella "Un giorno Imperfetto", di cui riporto alcune immagini.
Di seguito il lungo intervento che avevo scritto e al quale ho poi rinunciato per parlare più in generale di una storia di cui, a 35 anni di distanza, si fa ancora molta fatica a tracciarne almeno contorni fermi per l'opinione pubblica. La quale è sempre più confusa, convinta di cose sbagliate e senza riscontro, ammaliata e martellata dai mezzi di comunicazione che ogni anno propongono un nuovo tema e un nuovo mistero da sciogliere.
Oggi i dietrologi sono di seconda generazione. A differenza della prima, ci troviamo di fronte a studiosi preparati, che citano anche fonti bibliografiche attendibili, non mettono in discussione più che le Br siano state le Br e Moro - Moro. Ma spostano poi il discorso sulle "edizioni della prigione del popolo", la manipolazione e la costruzione dell'ostaggio. E qualcuno diventa pure senatore.
Nella stessa sala era esposta parte della mostra di Daniela Novella "Un giorno Imperfetto", di cui riporto alcune immagini.
Di seguito il lungo intervento che avevo scritto e al quale ho poi rinunciato per parlare più in generale di una storia di cui, a 35 anni di distanza, si fa ancora molta fatica a tracciarne almeno contorni fermi per l'opinione pubblica. La quale è sempre più confusa, convinta di cose sbagliate e senza riscontro, ammaliata e martellata dai mezzi di comunicazione che ogni anno propongono un nuovo tema e un nuovo mistero da sciogliere.
Oggi i dietrologi sono di seconda generazione. A differenza della prima, ci troviamo di fronte a studiosi preparati, che citano anche fonti bibliografiche attendibili, non mettono in discussione più che le Br siano state le Br e Moro - Moro. Ma spostano poi il discorso sulle "edizioni della prigione del popolo", la manipolazione e la costruzione dell'ostaggio. E qualcuno diventa pure senatore.
MONZA. BINARIO 7 |
L’ultima battaglia
politica di Aldo Moro
Partiamo da un concetto che deve
essere fermo: non esiste un’edizione critica delle lettere di Moro, né può
esistere perché le stesse contengono molte correzioni fatte dallo stesso
autore. Si può ricostruire un Uhrtext da
versioni corrotte nel corso dei secoli dai copisti, ma non di un testo di cui
abbiamo testimonianza diretta e che non ha subito corruzioni del genere. Del
resto, si pone subito un problema insuperabile: come ricostruire lo stemma
codicum? L’originalità di quel pensiero si
può pertanto ritrovare solo dal contesto della vicenda: da un lato quella più
generale delle Brigate Rosse. Dall’altro del sequestro e l’assassinio di Aldo
Moro. Il quale, caduto nelle mani dell’organizzazione militare, cominciò dalla
“prigione del popolo” una doppia partita politica finalizzata a spingere il
governo verso un accordo con la banda armata, una trattativa: qualcosa di
estremamente concreto, ma non più di un’ipotesi, come ha osservato di recente
M. Mastrogregori [La lettera blu. Le
Brigate rosse, il sequestro Moro e la costruzione dell’ostaggio, Ediesse, Roma 2012, p. 23]. Allo stesso
tempo, tentò di difendersi dalle accuse di quello che venne chiamato
“processo”, ma che fu, in realtà, la scontata conclusione di un passaggio già
deciso: condannare a morte l’ostaggio per costringere le parti politiche a una
trattativa. Con le lettere, quindi, Aldo Moro si rivolse ai suoi pari per
spingerli ad aperture verso le richieste dei brigatisti, mentre con il
cosiddetto Memoriale, o meglio – Memoria difensiva – l’ostaggio tentò di
difendersi dalle accuse dei brigatisti e dimostrare la propria responsabilità,
che intendeva essere relativa rispetto a scelte più globali. In questa sede ci
occuperemo del contenuto di alcune lettere con le quali Moro cercò argomenti a
sostegno del suo progetto di mediazione, senza dimenticare che le stesse vanno lette
in modo dialettico con il contenuto della sua Memoria difensiva.
Il 16 marzo
1978, poco dopo il rapimento dello statista, Fanfani annotava sul suo diario:
“Ora la situazione è disperata. Da parte eversiva si ha un gruppo di cervelli,
da parte governativa nulla”. E il 19 marzo, commentando il primo comunicato Br,
lo definiva “molto significativo. È un appello a tutti gli insoddisfatti di
sinistra di concentrarsi nel partito comunista proletario combattente. Da ciò
il concentrarsi di critiche al sistema, che per vari aspetti è una antologia
che ogni componente di estrema sinistra tira fuori”.
Fanfani, e
come lui molti altri politici democristiani, lessero il comunicato come se per
la prima volta si trovassero di fronte a uno scritto delle Br. Meno impreparata
apparve la dirigenza del Pci, che assunse immediatamente la linea più
intransigente. Berlinguer pubblicò sull’Unità del 19 marzo un pezzo nel quale
parlò di
forze potenti, interne e internazionali,
che muovono le fila di questo attacco spietato contro lo Stato e le libertà
repubblicane. [...] È giunto il momento di decidere da che parte si sta. Noi la
scelta l’abbiamo fatta. Essa è scritta nella nostra storia. Il regime
democratico e la Costituzione italiana sono conquiste decisive e irrinunciabili
del movimento popolare, delle sue lotte, del suo cammino.
Antonio
Tatò, un cattolico segretario particolare di Berlinguer, ebbe a dichiarare:
Se [...] aderissimo al principio della
trattativa per salvare la vita fisica di Moro, in realtà (e senza alcuna
garanzia di riaverlo vivo) faremmo credere che anche noi siamo interessati a
che Moro mantenga i suoi segreti: avvaloreremmo cioè la difesa di uno Stato e
di una Dc che vogliono tenere nascosti i loro misfatti [...] la politica del
compromesso storico [porterebbe allora] la classe operaia e i suoi vecchi e
nuovi alleati al progressivo cedi- mento, alla capitolazione, alla resa nei
confronti della Dc, “lo scudo crociato della borghesia, degli imperialisti e
delle multinazionali”, come le Br chiamavano la Dc. [Barbagallo, p. 67]
Per
parte sua, il segretario della DC Zaccagnini ricordò il primo problema politico
che avrebbe influito immediatamente sulla posizione della Dc e, quindi, sulla
sorte di Moro: le cinque vite umane spezzate in via Fani dai brigatisti.
L’agguato di via Fani condizionò inevitabilmente la risposta della Dc e
Zaccagnini fu costretto a parlare di Repubblica, governo e Stato, di escalation
della guerriglia, e di reazione «con misure organiche e proporzionate al
terrorismo». Gli uomini della Dc erano
tutti insieme ad Aldo Moro per la sua salvezza e per il suo
ritorno alla fa- miglia, all’Italia e al nostro partito, [ma erano]
particolarmente con tutti i cittadini, gli agenti di Ps, i carabinieri, i
magistrati, i giornalisti, gli uomini politici che sono stati più direttamente
colpiti da questo tentativo di devastazione.
Insomma,
non c’era solo Moro.
Il quale,
prigioniero delle Brigate rosse, ha un interesse comune con i rapitori: che si
apra una trattativa con lo Stato per la sua liberazione. A differenza delle Br,
che giocano una partita tutta politica, Moro deve lottare per la vita. Le Br
sostengono una linea dura: Parlano di processo [comunicato numero 2, 24 marzo],
di interrogatorio [comunicato n. 3, 29 marzo], e di condanna a morte
[comunicato n. 6, 15 aprile]. Solo con il comunicato n. 8 del 24 aprile
chiedono una contropartita per Moro: la liberazione di SANTE NOTARNICOLA, MARIO
ROSSI, GIUSEPPE BATTAGLIA, AUGUSTO VIEL, DOMENICO DELLI VENERI, PASQUALE
ABATANGELO, GIORGIO PANIZZARI, MAURIZIO FERRARI, ALBERTO FRANCESCHINI, RENATO
CURCIO, ROBERTO OGNIBENE, PAOLA BESUSCHIO e CRISTOFORO PIANCONE.
Mentre ciò si
sviluppa nell’arco di più di un mese, Moro ha cominciato la sua battaglia
politica, doppia, come abbiamo detto all’inizio. Da un lato, con la memoria
difensiva, vuole convincere le Br di non essere il burattinaio o l’uomo dello
Stato Imperialista delle Multinazionali che esse credono. Dall’altra, con le
missive, è intento a stimolare e indirizzare in qualche modo la risposta della Dc
alle mosse dei brigatisti.
Scrive
perciò, prima di tutti, a Cossiga il 29 marzo, una missiva recapitata con il
terzo comunicato.
Caro Francesco,
mentre t'indirizzo un caro
saluto, sono indotto dalle difficili circostanze a svolgere dinanzi a te, avendo
presenti le tue responsabilità (che io ovviamente rispetto) alcune lucide e
realistiche considerazioni.
Prescindo volutamente da ogni
aspetto emotivo e mi attengo ai fatti. Benché non sappia nulla né del modo né
di quanto accaduto dopo il mio prelevamento, è fuori discussione - mi è stato
detto con tutta chiarezza - che sono considerato un prigioniero politico,
sottoposto, come Presidente della D.C., ad un processo diretto ad accertare le
mie trentennali responsabilità (processo contenuto in termini politici, ma che
diventa sempre più stringente). [...] Devo pensare che il grave addebito
che mi viene fatto, si rivolge a me in quanto esponente qualificato della DC
nel suo insieme nella gestione della sua linea politica.
In verità siamo tutti noi del
gruppo dirigente che siamo chiamati in causa ed è il nostro operato collettivo
che è sotto accusa e di cui devo rispondere.
Moro propone
una linea politica che sosterrà con molta dignità, senza mutazioni degne di
nota, per tutti i 55 giorni del rapimento. Questo è forse il suo limite. Egli
cercherà una via sempre partendo dallo stesso punto di vista, quello del
Palazzo. Del resto, è l’unico riferimento che conosce. Ed è l’unico che resta
estraneo ai brigatisti.
Le Br non comprendono lo scopo che Moro si era prefissato
nello scrivere la missiva a Cossiga, tanto che la rendono pubblica là, dove era
necessario che restasse segreta. Lo fanno per debolezza. Hanno paura di una
trattativa che rischiano di non controllare politicamente. E travisano, tanto
che indicano nella lettera «una esplicita chiamata di correità» da parte di un
imputato che sapeva «di non essere il solo» e che sollecitava «gli altri
gerarchi a dividere con lui le responsabilità».
Ovviamente, le Br sbagliavano. Moro conosceva la Dc come
pochi dirigenti e sapeva che quello era sempre stato il partito della
mediazione. La segretezza serviva a dare margine al partito per trovare una
versione per l’opinione pubblica, la più opportuna dal punto di vista politico.
Nel frattempo il fronte della fermezza si consolida. Il Pci difende la propria linea appellandosi alla ragione
di Stato, un’ottica che si rivelerà alquanto miope, perché significa rinunciare
a salvare la vita di Moro a prescindere da qualsiasi novità. E Moro per il Pci
non è un politico qualunque, ma l’uomo che stava portando, seppur in modo
tattico e non strategico, il partito di Botteghe oscure al governo. Assistiamo
a quello che può sembrare un paradosso. Mentre l’artefice del governo di
solidarietà nazionale si trova nelle mani di un gruppo rivoluzionario che tende
ad impedire a quell’accordo di assestarsi e migliorare, i partiti messi insieme
proprio da Moro si stringono su una linea di non ascolto. E tanto Moro
quanto le Br ne restano sorprese. Le Br proprio dalla posizione del Pci. Moro
da quella del suo partito.
Afferma
Moretti:
C’è stata un’ingenuità al limite dell’autolesionismo. Il Pci aveva
portato a compimento la parabola, non c’era più margine perché la base
esprimesse qualcosa di diverso. Forse lo sapevamo già ma non volevamo crederci.
Quando il Pci si compatta sulla fermezza, questo ci colpisce come una mazzata
[Una storia italiana]
Moro
viene informato; gli forniscono ritagli di giornale, attraverso i quali può
prendere atto delle posizioni comunista e democristiana. E ne rimane
«incredulo, sconcertato, irritato». Comprende, allora, che per aprirsi uno
spiraglio, doveva rompere la solidarietà che proprio lui aveva creato tra le
due forze politiche, rimandando il Pci all’opposizione. Fu in quei frangenti
che Moro progettò una vera politica con il suo partito e probabilmente fu
grazie alla sua azione che si creò quel margine nel quale si infilò con grande
capacità il neosegretario del Psi Bettino Craxi. In questo frangente nascono i
presupposti politici degli anni Ottanta, con le prime presidenze del consiglio
non democristiane e il Pci che finirà i suoi giorni politicamente e
strategicamente sconfitto.
Il 4 aprile,
insieme al comunicato numero 4 delle Br, viene recapitata una lettera a
Zaccagnini, il segretario della Dc. Nel comunicato le Br scrivono: “La manovra
messa in atto dalla stampa di regime, attribuendo alla nostra organizzazione
quanto Moro ha scritto di suo pugno nella lettera a Cossiga, è stata subdola
quanto maldestra. Lo scritto rivela invece, con una chiarezza che sembra non
gradita alla cosca democristiana, il suo punto di vista e il nostro”. Quello
delle Br riguarda i prigionieri politici, quello di Moro la già ricordata
chiamata in correità dei dirigenti democristiani:
Abbiamo più volte affermato che uno dei punti
fondamentali del programma della nostra Organizzazione è la liberazione di
tutti i prigionieri comunisti e la distruzione dei campi di concentramento e
dei lager di regime. Che su questa linea di combattimento il movimento
rivoluzionario abbia già saputo misurarsi vittoriosamente è dimostrato dalla
riconquistata libertà dei compagni sequestrati nei carceri di Casale, Treviso,
Forli, Pozzuoli, Lecce etc.
Certo perseguiremo ogni strada che porti alla
liberazione dei comunisti tenuti in ostaggio dalla Stato Imperialista, ma
denunciamo come manovre propagandistiche e strumentali i tentativi del regime
di far credere nostro ciò che invece cerca di imporre: trattative segrete,
misteriosi intermediari, mascheramento dei fatti
Vediamo,
invece, cosa afferma Moro, che ha come riferimento la linea del Pci:
Caro
Zaccagnini,
scrivo a te, intendendo rivolgermi a Piccoli, Bartolomei,
Galloni, Gaspari, Fanfani, Andreotti e Cossiga ai quali tutti vorrai leggere la
lettera e con i quali tutti vorrai assumere le responsabilità, che sono ad un
tempo individuali e collettive. Parlo innanzitutto della D.C. alla quale si
rivolgono accuse che riguardano tutti, ma che io sono chiamato a pagare con
conseguenze che non è difficile immaginare. Certo nelle decisioni sono in gioco
altri partiti; ma un così tremendo problema di coscienza riguarda innanzitutto
la D.C., la quale deve muoversi, qualunque cosa dicano, o dicano
nell'immediato, gli altri. Parlo innanzitutto del Partito Comunista, il quale,
pur nella opportunità di affermare esigenze di fermezza, non può dimenticare
che il mio drammatico prelevamento è avvenuto mentre si andava alla Camera per
la consacrazione del Governo che m'ero tanto adoperato a costituire. [...] Sono
un prigioniero politico che la vostra brusca decisione di chiudere un qualsiasi
discorso relativo ad altre persone parimenti detenute, pone in una situazione
insostenibile. Il tempo corre veloce e non ce n'è purtroppo abbastanza. Ogni
momento potrebbe essere troppo tardi.
Siamo al 4 aprile. Mancano 14
giorni al 18 aprile, giorno del falso comunicato con la morte di Moro, e 20
all’8 comunicato, che contiene la condanna a morte dell’ostaggio e la richiesta
di liberazione dei detenuti che abbiamo visto. Cosa accade nel frattempo? Le Br
rendono noto un passo della memoria difensiva su Paolo Emilio Taviani,
pubblicato sul “Corriere della Sera l’11 aprile, Moro si rivolge a personalità
diverse, nazionali e internazionali e, in particolare, a Paolo VI con una
lettera il cui incipit serve ad accattivarsi il destinatario: Moro si dice
“memore della paterna benevolenza che la Santità Vostra mia ha tante volte
dimostrato”, e tra l’altro quando io ero giovane dirigente della Fuci”. La
lettera è scritta intorno all’8 aprile. Il papa risponde dopo una decina di
giorni. La sera del 21 aprile, dopo la recita del
rosario, il Papa si ritirò nella sua camera per stendere una missiva con la quale
chiedere la liberazione di Moro direttamente ai brigatisti, ma sulla base
dell’appello del 2 aprile, non delle richieste dell’ostaggio; egli si rivolge
«agli uomini delle Brigate rosse» perché restituiscano alla libertà, alla sua
famiglia, alla vita civile l’onorevole Aldo Moro, un uomo onesto e buono, che
nessuno può accusare di scarso senso sociale e di mancato servizio alla
giustizia e alla pacifica convivenza civile. Ricorda di essere stato suo amico
di studi, quindi, parlando in modo di- retto ai rapitori nel nome di Cristo, li
prega in ginocchio di liberarlo «semplicemente, senza condizioni, non tanto per
motivo della mia umile e affettuosa intercessione, ma in virtù della sua
dignità di comune fratello in umanità».
Il gesto è apparentemente di alto profilo
morale; Paolo VI si appella ai rapitori di Moro, li chiama per nome e chiede
che l’agire politico lasci il posto a considerazioni umanitarie. Per un verso,
quindi, egli si pone umilmente in ginocchio di fronte a loro; per un altro,
però, dimostra di aver compreso la posizione del governo italiano e il suo
nobile gesto non travalica i confini che regolarono l’azione politica di
Palazzo Chigi. La missiva, infatti, non coincide in nulla con quanto richiesto
da Moro, secondo il quale non era ai brigatisti che il Papa avrebbe dovuto
rivolgersi, bensì al governo. E se è vero, come affermato da molti, che si
tratta di un documento considerevole, è anche lecito sostenere che il pontefice
sceglie in coscienza di scrivere una lettera molto diversa da quanto richiesto
da Moro. Il Vaticano, insomma, che a partire dal 19 marzo era in costante
contatto con il governo italiano, non poteva andare contro la politica della
fermezza, con la quale concordava e verso la quale, nei 55 giorni del
sequestro, non ebbe mai una parola di biasimo. Un’altra circostanza, inoltre,
proprio in quei giorni suggeriva prudenza, sebbene la sua influenza, in questo
caso, fu di secondo piano. Attenendoci a quanto accertato da Vladimiro Satta, nonché
confermato in tempi diversi da Giulio Andreotti, da monsignor Fabbri e da
Pasquale Macchi, in una data compresa tra il 15 e il 22 di aprile Paolo VI
attraverso i suoi collaboratori incaricò il capo dei cappellani delle carceri
italiane e di San Vittore a Milano, Cesare Curioni, di ricercare il modo di
favorire l’ipotesi del pagamento di un forte riscatto (si parla di cinque
miliardi di lire) per la liberazione di Moro. Curioni era stato avvicinato in
carcere da un sedicente brigatista, che gli aveva prospettato tale possibilità
e il Vaticano si era fatto premura di avvertire il governo nella persona di
Andreotti, che aveva manifestato il proprio assenso all’operazione dopo essersi
consultato con Berlinguer.
Una serie di circostanze riportate da Satta,
però, fanno ritenere che quel sedicente emissario fosse, in realtà, un
impostore che avrebbe sfruttato il falso comunicato del 18 aprile, quello che
rendeva nota la morte di Moro e l’occultamento del suo cadavere nel lago della
Duchessa, per accreditarsi di fronte al Vaticano, annunciandone, appena
diffuso, la falsità e la prossima smentita da parte brigatista. Secondo
Andreotti, addirittura, lo stesso personaggio avrebbe segnalato la diffusione
dell’apocrifo ancora prima che esso fosse reso noto, avvertendo che si trattava
di un falso. Se così è stato, si spiega chiaramente lo scopo del falso
comunicato (provare la credibilità di un emissario «brigatista» al fine di
estorcere denaro per la liberazione del prigioniero), mentre cadono le
congetture e i collegamenti con la scoperta della base di via Gradoli, avvenuta
quello stesso giorno a Roma; e la questione non muta nemmeno nel caso si
tratti, da parte di Andreotti, di un falso ricordo e quel personaggio abbia
parlato dell’apocrifo solo dopo la sua diffusione. Il sedicente brigatista,
infatti, tentò in ogni caso di sfruttare la vicenda del falso comunicato per
accreditarsi, ma scomparve la mattina del 9 maggio, adducendo scuse, dopo il
ritrovamento del cadavere dell’ostaggio in via Caetani, senza essere riuscito a
spostare la «trattativa» dal suo stato embrionale.
L’appello di Paolo VI fu diffuso il 22 aprile
sulla prima pagina dell’«Osservatore Romano» e venne accolto positivamente da
molte forze politiche, sebbene il cavallo di razza Amintore Fanfani non
sembrasse aver del tutto gradito; «generale» scrisse «è il riconoscimento del
gesto del Papa», ma «discusso qualche aspetto della lettera». L’attenzione di
tutti, com’è naturale, si concentrò sulla locuzione «senza condizioni» e in
seguito Guerzoni dichiarò che sarebbe stato Andreotti a imporla al Papa,
circostanza mai provata. A mio parere non furono né Andreotti né altri a
suggerire quelle parole al pontefice, ma le circostanze, la situazione
politica, la strettissima strada scelta dal governo italiano, che non concesse
a nessuno – pena il chiamarsi fuori – la possibilità di uscire dagli angusti
limiti della fermezza, che prevedeva solo il bene e il male, senza alcuna zona
grigia. Andreotti, comunque, accolse positivamente il documento del pontefice:
Il Papa, con inaspettata decisione, rivolge un elevatissimo
appello per la liberazione di Moro [...]. Lo ha scritto questa notte di getto;
lo ha poi ri- veduto e copiato di suo pugno perché – dalla pubblicazione – si
vedesse chiaro la natura personale del gesto stupendo.
A dire
del presidente del Consiglio, che il 25 inviò una sua missiva di ringraziamento
in Vaticano, il Papa aveva fatto per la liberazione di Moro «più
dell’immaginabile con forza e insieme con delicatezza», ma «la durezza del
cuore dei destinatari ha resistito anche a questo eccezionale appello». Nella
medesima lettera, inoltre, il capo del governo sentì il bisogno di spiegare
ufficialmente il motivo per il quale uno scambio non fosse proponibile: era
assurdo equiparare gli ostaggi di un gruppo criminale con coloro che dovevano
rispondere alla giustizia per gravi delitti (coloro per i quali si chiedeva lo
scambio). L’ipotesi di Moro, secondo cui ci si sarebbe trovati in guerra, era
vista come un espediente dei brigatisti per giustificare uccisioni e attentati;
inoltre «gli umili servitori dello Stato» non avrebbero potuto sopportare che
per liberare un uomo politico si calpestassero le leggi, e anche una grazia
presidenziale avrebbe provocato una rivolta morale. Affermava infine che il
Parlamento condivideva la linea della fermezza «nella coscienza che
diversamente si aprirebbero davvero pagine di avventura in una irrefrenabile
spirale di violenza».
Dentro la prigione del popolo,
però, l’appello del papa provoca un dramma e azzera le speranze di liberazione.
È in questo preciso momento che Moro si sente perduto. Conoscendo come gira il
palazzo, egli è in grado di interpretare il significato vero di quel messaggio
“apolitico”: il sigillo a una decisione che non si sarebbe più mossa.
Arriviamo così al comunicato n. 8
con la “condanna a morte” di Moro del 24 aprile.
Quattro giorni dopo Moro scrive
alla DC una lettera di cui – lo ricordo – abbiamo tre versioni e che
Mastrogregori, autore de La Lettera
blu, ha definito “un evidente, documentato
montaggio di fogli autografi dell’ostaggio” [p. 89], “edito a cura dei
terroristi” [p. 96]. Recentemente, su alcune lettere è stata eseguita
un’analisi da parte dell’Istituto centrale per il restauro e la conservazione
del patrimonio archivistico e librario italiano. La direttrice del laboratorio
di biologia dello stesso, Flavia Pinzari, ha affermato che sono state trovate
tracce saline che fanno pensare a lacrime. La missiva alla Dc è la seconda di
un gruppo di undici, scritte tra il 20 e il 29 aprile, che a suo dire supporta
più di tutte il peso psicologico del sequestro [Il Venerdì di Repubblica, 13
gennaio 2012, p. 18]. Aggiunge la direttrice dell’Istituto, Maria Cristina
Misiti, che “la lettera alla Dc p la più lunga di tutte: si compone di 10 fogli
ed è l’unica ad essere stata scritta su carta extra strog”. La migliore qualità
della carta rispetto alle altre ha posto la questione: “Perché è stata scelta?
E chi ha deciso? [...] E’ evidente che questa lettera dovesse condensare
l’estremo appello di Moro” [ivi], e forse è per questo che adesso ne viene
messa fortemente in dubbio non l’autenticità ma la paternità, nel senso che:
“Le lettere sono autentiche, ne senso che non sono scritte sotto dettatura
delle Brigate rosse. Sono però costruite, montante, portate all’esterno del
covo [...] sotto la direzione e a cura delle Brigate rosse” [Il Venerdì, cit].. Per completezza di
informazione, quello che Filippo Ceccarelli considera il massimo esperto
“dell’estremo moroteismo”, Miguel Gotor, sostiene che le lettere erano vagliate
dai brigatisti e quindi riconsegnate all’ostaggio perché ne ricopiasse la
versione finale [Il Venerdì, cit., p. 22].
Ciò
detto, e spiegato che più semplicemente Moro scriveva e riscriveva le proprie
missive per trovare le parole più adatte a farsi comprendere dai propri
interlocutori, vediamo un passaggio della lettera alla DC.
Dopo la mia
lettera comparsa in risposta ad alcune ambigue, disorganiche, ma
sostanzialmente negative posizioni della D.C. sul mio caso, non è accaduto
niente. Non che non ci fosse materia da discutere. Ce n'era tanta. Mancava
invece al Partito, al suo segretario, ai suoi esponenti il coraggio civile di
aprire un dibattito sul tema proposto che è quello della salvezza della mia
vita e delle condizioni per conseguirla in un quadro equilibrato. E' vero: io
sono prigioniero e non sono in uno stato d'animo lieto. Ma non ho subito
nessuna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che
sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, un altro e non merito di
essere preso sul serio. Allora ai miei argomenti neppure si risponde. E se io
faccio l'onesta domanda che si riunisca la direzione o altro organo
costituzionale del partito, perché sono in gioco la vita di un uomo e la sorte
della sua famiglia, si continua invece in degradanti conciliaboli, che significano
paura del dibattito, paura della verità, paura di firmare col proprio nome una
condanna a morte. [...] Ma tra le Brigate Rosse e me non c'è la minima
comunanza di vedute. E non fa certo identità di vedute la circostanza che io
abbia sostenuto sin dall'inizio (e, come ho dimostrato, molti anni fa) che
ritenevo accettabile, come avviene in guerra, uno scambio di prigionieri
politici. E tanto più quando, non scambiando, taluno resta in grave sofferenza,
ma vivo, l'altro viene ucciso. [...] Da che cosa si può dedurre che lo Stato va
in rovina, se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, a compenso, altra
persona va, invece che in prigione, in esilio? Il discorso è tutto qui. [...]
Vorrei ora tornare un momento indietro con questo ragionamento che fila come
filavano i miei ragionamenti di un tempo. [...] in moltissimi casi scambi sono
stati fatti in passato, ovunque, per salvaguardare ostaggi, per salvare vittime
innocenti. Ma è tempo di aggiungere che, senza che almeno la D.C. lo ignorasse,
anche la libertà (con l'espatrio) in un numero discreto di casi è stata
concessa a palestinesi, per parare la grave minaccia di ritorsioni e
rappresaglie capaci di arrecare danno rilevante alla comunità. E, si noti, si
trattava di minacce serie, temibili, ma non aventi il grado d'immanenza di
quelle che oggi ci occupano. Ma allora il principio era stato accettato.
“Accettato” al punto che
possediamo una nota informativa dell’Ucigos del 1979 che fa il punto della
situazione sul terrorismo palestinese in Italia. A p. 8 si legge:
Dal 1974 al 1978
nelle vicende del terrorismo si alternano periodi di fecondità a periodi di
stasi, ma per quanto riguarda l’Italia essa resta un punto di riferimento
costante nell’ottica delle varie organizzazioni arabe. La politica dei vari
governi italiani è sempre stata ispirata a non irritare i regimi arabi affinché
non attuassero misure di rappresaglia in campo economico. Lo scotto di questo
vantaggio è stato tuttavia pagato in termini di insicurezza nazionale.
E ancora: “Da tale premesse discende quindi coerente
l’esigenza dell’adozione di misure cautelative attraverso il potenziamento dei
mezzi, la revisione dei criteri finora seguiti nel controllo degli stranieri e
l’individuazione degli strumenti garantistici se non si vuole che l’Italia
diventi, nel volgere di poco tempo, più fertile terreno per i fautori del
terrorismo [p. 9]. E, a p. 4, “l’Italia è base preferita dei terroristi
palestinesi” dal 1968.
Racconta Valerio
Fioravanti: “Cossiga ci ricordò che l’accordo a cui faceva riferimento Pifano
era un accordo informale di cui lui, né come ministro dell’interno, né come
primo ministro, né come presidente della repubblica aveva mai trovato una
versione scritta, ufficiale. Ma era risaputo che si trattava d’un accordo
raggiunto nel 1974 da Aldo Moro, subito dopo l’attentato palestinese
all’aeroporto di Fiumicino del 15 dicembre 1973 in cui si contarono 32 morti e
15 feriti. In base a quell’accordo l’Italia avrebbe lasciato libertà di
passaggio ai palestinesi; in cambio, i palestinesi s’impegnavano a non fare
altri attentati in Italia, a non dirottare aerei italiani, a non colpire
cittadini italiani all’estero. Inoltre, l’Italia s’impegnava ad impedire che i
servizi segreti israeliani continuassero a compiere “omicidi mirati” di
palestinesi sul suolo italiano.”
Dunque, Aldo Moro sapeva di cosa
stava parlando, così come lo sapevano i dirigenti del suo partito.
Disperando di riuscire ad aprire
una trattativa, due giorni più tardi, direi con grave ritardo, le Br nella
persona di Moretti telefonano a casa Moro:
Noi facciamo questa telefonata per puro scrupolo perché suo padre
insiste nel dire che siete stati un po’ ingannati e probabilmente state
ragionando su un equivoco. Finora avete fatto tutte cose che non servono
assolutamente a niente. Noi crediamo invece che i giochi siano fatti e abbiamo
già preso una decisione. Nelle prossime ore non possiamo fare altro che
eseguire ciò che abbiamo detto nel comunicato numero 8. Quindi chiediamo solo
questo: che sia possibile un intervento di Zaccagnini, immediato e
chiarificatore in questo senso. Se ciò non avviene, rendetevi conto che noi non
potremo fare altro che questo. Mi ha capito esattamente? [...] Ecco, quindi è
possibile solo questo. Lo abbiamo fatto semplicemente per scrupolo nel senso
che, sa, una condanna a morte non è una cosa che possa essere presa alla leggera
neanche da parte nostra. Noi siamo disposti a sopportare le responsabilità che
ci competono. [...] Il problema è politico e a questo punto deve intervenire la
Democrazia cristiana. Abbiamo insistito moltissimo su questo, perché è l’unica
maniera in cui si può arrivare eventualmente a una trattativa. [...] Solo un
intervento diretto, immediato e chiarificatore, preciso di Zaccagnini può
modificare la situazione. Noi abbiamo già preso la decisione. Nelle prossime
ore accadrà l’inevitabile, non possiamo fare altrimenti. Non ho niente altro da
dirle.
Pochissimi giorni prima, tra il
22 e il 23 aprile, Moro aveva scritto a Bettino Craxi, di cui aveva colto, tra
frammentarie notizie, “una forte sensibilità umanitaria del tuo partito”. In
questa lettera si può vedere il tentativo di Moro di portare Craxi verso la
rottura con il governo di solidarietà nazionale perché si doveva dar luogo “con
la dovuta urgenza ad una seria ed equilibrata trattativa per lo scambio di
prigionieri politici” [...] Ogni ora che passa potrebbe renderla vana ed allora
io ti scongiuro di fare in ogni sede opportuna tutto il possibile nell’unica
direzione giusta che non è quella della declamazione”. Craxi ebbe a definire il
24 maggio in occasione del CC del partito, che la sua iniziativa fu
“costituzionale” e non umanitaria. Il 30 aprile, parlando con Mitterand, allora
segretario del PSF si sfogò, come ricorda il futuro presidente francese: “Craxi
ha ricevuto ieri una lettera del prigioniero e attende dalle pressioni
congiunte di Paolo VI, Fanfani e Saragat sul presidente della Repubblica Leone,
che questo firmi un decreto di grazia e che il governo si decida a uno scambio
limitato – uno contro uno – con le Brigate Rosse, le quali, raggiunto il loro
obiettivo, possono accontentarsi. Craxi ha avuto parole terribili per la
Democrazia Cristiana” [Mitterand, La paglia e il grano, p. 188].
Nel
1995 “Critica Sociale” pubblicò un volume intitolato Lettere dal patibolo, che conteneva 38 missive scritte da Moro durante i
55 giorni. L’introduzione, non firmata, era opera di Craxi. In questo scritto
l’ex leader socialista offre una lettura inedita della figura di Moro, non uomo
della mediazione, ma addirittura dello scontro con i comunisti. Parte dalla
memoria pubblica: la statua di Moro con in tasca una copia dell’Unità. Secondo
Craxi le cose non erano in questi termini: “Il Pci – scrive – aveva un rapporto
di solidarietà con Mosca che l’eurocomunismo aveva solo in parte incrinato
facendo sorgere sospetti tanto nell’uno che nell’altro campo”. Mentre uomini
come Zaccagnini e La Malfa aprono ai comunisti, sarebbe stato Moro a imporre un
governo monocolore, rifiutando addirittura ministri tecnici graditi ai
comunisti e inserendo uomini come Toni Bisaglia e Carlo Donat Cattin che erano
“nella lista di proscrizione del Pci”. Questa lettura rovescerebbe tutto il
quadro di chi ha visto in Moro l’uomo del compromesso storico e nelle Br l’arma
in mano a qualcuno che quel programma volle far fallire.
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