martedì 15 gennaio 2013

I LIBRI DI PROSPERO



Non è stato solo un contadino Prospero Gallinari e la sua autobiografia non è l'unico libro che ha scritto. Durante gli anni del carcere partecipò al dibattito interno che avrebbe portato le BR alla scissione, opponendosi alle tesi di Curcio e del Partito Guerriglia. Assieme ad Angelo Coi, Francesco Piccioni e Bruno Seghetti nel 1983 scrisse un lungo saggio, divenuto il libro Politica e Rivoluzione, oggi una rarità bibliografica che la casa editrice Odradek ha pensato, senza mai realizzarla, di fare un reprint.

Nel libro i quattro ribattono le tesi di Gocce di sole e analizzarono i motivi della sconfitta della lotta armata42. Si tratta di un testo complesso, che affronta i problemi cercando di mantenere una linea di corretta interpretazione del pensiero marxi- sta, correggendo l’impostazione di Curcio e Franceschini e, di conseguenza, portando un’ampia critica alla pratica del Partito guerriglia. Secondo Gallinari e gli altri, il capi- tale non era giunto a un punto di espansione totale, in quanto anche in una società molto avanzata tecnologicamente, accanto al lavoro superqualificato si incontravano condizio- ni di sottoccupazione, lavoro nero, part-time ecc. nel cuore stesso delle metropoli. Su scala planetaria, la dialettica sviluppo-sottosviluppo era la dimostrazione di come il dominio del capitale non fosse uniforme e producesse delle contraddizioni che non pote- vano essere risolte dal progresso. In altre parole, non ci si trovava di fronte a un «domi- nio totale» del capitale, né su scala mondiale, né nelle metropoli occidentali, all’interno delle quali, invece, permanevano aree estranee ai rapporti di produzione capitalistici. Dopo un’analisi accurata dei vari passaggi di Gocce di sole, che secondo i quattro auto- ri travisavano completamente il pensiero di Karl Marx, Politica e rivoluzione contesta- va le conclusioni di Curcio secondo le quali la metropoli doveva diventare il luogo dello scontro totale e permanente tra le classi. L’antagonismo di classe si trasformava in ini- micizia assoluta solo in un contesto rivoluzionario, dal quale si trovava ben lontana l’Italia del 1983. Il mondo non era affatto una metropoli informatizzata e non si era giun- ti per nulla alla «fine della Storia», come sembrava derivare dalla visione apocalittica dei fondatori del Partito guerriglia. Né era possibile accettare la concezione della violenza espressa da Curcio e Franceschini, che diventava violenza in sé, svincolata da qualsiasi motivazione politica, una sorta di catarsi individuale. Ma così era proprio la politica ad essere rifiutata dai due, in quanto la loro guerra usciva dagli schemi classici alla von Clausewitz (momentanea interruzione del dialogo politico) per diventare una guerra sociale totale al di fuori di qualsiasi fase, congiuntura, periodo di transizione ecc. Era, a dire di Piccioni e degli altri, la liquidazione della lotta armata come strategia di lotta e abbattimento dello Stato, della possibilità per il proletariato di conquistare il potere poli- tico e di gestirlo; ciò derivava dall’introduzione di teorie non marxiste e dal ritorno di un idealismo soggettivista che «ha tormentato fin dall’inizio la sinistra rivoluzionaria in Italia»43. Dunque, la «guerra totale» curciana non era mai stata una tesi delle Br, nean- che di quella produzione teorica «più contraddittoria» come sono giudicati L’ape e il comunista e la Risoluzione della direzione strategica del 1980. Essa, invece, è esclusiva caratteristica del Partito guerriglia, che era nato, a dire dei quattro, su tesi antimarxiste, anticomuniste e reazionarie, che avevano condotto Curcio e gli altri a negare in modo deciso la necessità di alcuna forma partito.
Dopo aver ampiamente criticato le posizioni di Curcio e Franceschini e del Partito guerriglia, dunque, Piccioni, Coi, Gallinari e Seghetti affrontarono la più generale crisi della lotta armata in Italia partendo dal fallimento dell’azione Dozier. Quel rapimento aveva definitivamente posto in uno stato di paralisi le organizzazioni comuniste combat- tenti, incapaci di adeguarsi alla nuova fase politica apertasi in Italia con la fine della ristrutturazione e della solidarietà nazionale. Il rapimento di Moro, infatti, aveva contri- buito a questa svolta, ma ciò aveva comportato la caduta del Pci in una crisi politica senza precedenti e che avrebbe avuto il suo apice nel 1985 con la sconfitta, come si vedrà, al referendum sulla scala mobile. L’ingresso dell’Italia nel serpente monetario (Sme) e l’installazione dei missili balistici sul territorio della penisola avevano visto il Pci su posizione critiche e determinato nuovi spostamenti, anche a livello internaziona- le; gli Stati Uniti, in particolare, dopo aver accarezzato per un certo periodo l’ipotesi di un Pci maggiormente impegnato all’interno della responsabilità governativa, pur conti- nuando a mantenere un rapporto importante con il partito di Berlinguer, compresero che i tempi non erano ancora maturi e preferirono appoggiare il rinnovato Partito socialista craxiano, finalmente più consistente anche da un punto di vista elettorale.
Dopo la marcia dei quarantamila del 1980 la centralità della fabbrica aveva perduto ogni consistenza, ma il brigatismo era stato incapace di compiere delle analisi adeguate per la comprensione dei nuovi rapporti di forza. Era necessario il ritorno a una mentalità scien- tifica, al ragionamento politico e al centralismo democratico, mentre l’approssimazione, le improvvisazioni e le deviazioni minoritarie del Partito guerriglia erano da respingere come reazionarie. In tale contesto la ritirata strategica era considerata necessaria al fine di «rimettere in discussione tutto nella strategia guerrigliera nella metropoli». Non si trattava di una resa, dunque, né di essere diventati «aspiranti bagnini alle Seychelles», come qual- cuno del Partito guerriglia li aveva definiti45. Il problema era più generale e stava nel ten- tativo curciano, ma anche di ex militanti dell’autonomia come Toni Negri, di togliere la valenza politica alla lotta armata, ridotta a un coacervo di tensioni sociali di giovani «arrab- biati e apolitici»46. Per gli autori del denso volume teorico, invece, si era chiuso un perio- do determinato, quello della «infanzia della lotta armata per il comunismo», dominato da una linea politica di sostanziale estremizzazione sistematica delle istanze rivoluzionarie.
Passando all’analisi del momento storico loro coevo, partendo dalla stessa nozione dello Sim si giungeva alla lettura dell’evoluzione internazionale del capitale all’interno di un mondo molto integrato e guidato dagli Stati Uniti. Per quanto riguarda lo Sim, il concetto veniva corretto nel senso che si metteva in risalto una dialettica tra gli interes- si dello Stato-nazione, che opera su progetti di medio e lungo termine per la crescita complessiva del paese, e le singole multinazionali, interessate al profitto immediato. Il capitale non si doveva interpretare come un Moloch onnipotente, ma come una comples- sa macchina che creava, operando, delle contraddizioni soprattutto all’interno del campo capitalista e, in particolare, proprio tra lo Stato-nazionale e le multinazionali.
Lo Stato delle Multinazionali, dunque, esisteva solo là dove la forza economica dello Stato era davvero debole e dipendente in modo quasi totale dal flusso commerciale garantito dalle imprese straniere. Nei paesi più ricchi, invece, lo Sim non si poteva realizzare per la resistenza dello Stato stesso all’invadenza delle corporations. Dunque, non ci si trovava di fronte a un unico progetto imperialista, ma a tanti in concorrenza tra loro e il «cuore dello Stato», di conseguenza era costituito dal progetto politico dominante in una determinata congiun- tura e non da un assoluto. L’aver letto il cuore dello Stato come il punto di rottura del potere capitalistico, al contrario, aveva condotto le Br nel vicolo cieco in cui si trovava la lotta armata come elemento strategico di emancipazione del proletariato. Allora, il parti- to armato non poteva essere l’elemento di organizzazione della vita delle masse ma solo l’organo tendente a diventare la loro direzione politico-militare, al fine di trasformare la loro mobilitazione rivoluzionaria in conquista del potere. Gli obiettivi politici del partito dovevano coincidere con l’interesse generale del proletariato e il suo programma doveva prevedere i contenuti politici generali della mobilitazione di classe (l’esempio portato è il no all’installazione dei missili balistici in Italia e il no alla revisione della scala mobile). Ma si tratta di obiettivi parziali, in quanto il proletariato sentirà la necessità di armarsi e combattere solo quando milioni di persone si sarebbero trovate a non poter più vivere come prima. Dunque, la fase nuova che si doveva aprire per le organizzazioni comuniste combattenti in Italia doveva necessariamente partire dal superamento dell’idea che l’atti- vità del partito e quella delle masse non potevano essere unificate da una pratica di lotta armata né giungere a una unità ideologica, ma che poteva aspirare a trovare dei momen- ti di mediazione in un programma politico generale, nuovo compito delle Br-pcc.

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