sabato 16 giugno 2012

CONCORSI UNIVERSITARI


Da "Micromega" on line.
Fabio Sabatini

A volte gli atenei sembrano entità extraterritoriali in cui l’ordinamento giuridico italiano non ha alcun valore. È il caso clamoroso dell’Università di Milano, in cui un Rettore, in carica nonostante il pensionamento e la scadenza del suo mandato tre anni fa, approva per tre volte gli atti di un concorso prima annullato e poi sospeso dal TAR a causa del mancato rispetto della legge. E in cui la vincitrice del concorso rimane in servizio per due anni nonostante le decisioni del Tribunale.
Il caso
Ilaria Negri è una giovane entomologa che nel gennaio 2010 partecipa a un concorso da ricercatore in “Entomologia Generale e Applicata”, bandito nel 2009 presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Milano.
Il posto, uno degli ultimi a tempo indeterminato, viene assegnato alla candidata allieva e collaboratrice del Presidente della commissione. Negri ricorre al TAR, che riscontra il mancato rispetto della legge da parte della commissione. Il concorso e la nomina della vincitrice vengono annullati, e la procedura si ripete con la stessa commissione, che conferma l’esito precedente. Il TAR boccia di nuovo gli atti, intima all’ateneo di cambiare commissione e nuovamente sospende la nomina della vincitrice. Che viene invece mantenuta in servizio dall’Università di Milano con il ruolo e lo stipendio di ricercatore, come se i pronunciamenti del tribunale amministrativo fossero irrilevanti. Nell’aprile scorso il concorso si è ripetuto per la terza volta, con lo stesso esito delle volte precedenti.
Il caso di Ilaria Negri (ma sarebbe più corretto dire “il caso dell’Università di Milano”) è emblematico e dimostra l’urgenza di meccanismi di valutazione della ricerca che consentano non solo una più efficiente allocazione dei finanziamenti pubblici agli atenei, ma anche il disegno di procedure di reclutamento trasparenti e basate sul merito.
Molti accademici pensano che la trasparenza nei concorsi sia una questione marginale rispetto a problemi ben più gravi e strutturali che affliggono l’Università italiana, primo tra tutti la mancanza di fondi. È un atteggiamento fuorviante e dannoso, talvolta sostenuto in malafede, che rientra nella categoria del benaltrismo.
È vero, per rilanciare l’Università e la ricerca ci vogliono le risorse. Ma gli italiani non sono disposti a dare risorse a una istituzione che ancora troppo spesso serve a sistemare parenti e amici, piuttosto che a produrre ricerca per il benessere e lo sviluppo del paese.


La storia

Vediamo nel dettaglio la storia del concorso. Nel luglio 2010 la Commissione giudicatrice, presieduta da Luciano Süss dell’Università di Milano, formula i criteri di valutazione che saranno adottati nella selezione. Viene stabilito di non valutare i brevetti (come invece obbligatoriamente disposto dalla legge), con il pretesto che non sono strettamente pertinenti al settore scientifico del concorso. Scelta singolare, visto che in altri concorsi dello stesso settore i brevetti vengono di norma presi in considerazione.
Inoltre, la Commissione dichiara che al fine della valutazione delle pubblicazioni scientifiche potrà anche servirsi (ma poi non lo farà) di parametri riconosciuti in ambito scientifico internazionale, quali gli indici bibliometrici.
Come abbiamo più volte ricordato su questo blog, l’uso degli indici bibliometrici nella valutazione delle pubblicazioni non dipende dalle scelte discrezionali di una commissione. È un obbligo previsto dalla legge, con ottime ragioni. Ovviamente gli indici devono essere trattati cum grano salis. Nessuno sostiene che i numeri bastino, di per sé, a stabilire chi deve vincere un concorso. Per esempio, se il valore di un dato indice per il ricercatore A è pari a 10 e per il ricercatore B è pari a 20, può essere comunque ragionevole e giusto che il concorso sia vinto dal ricercatore A. Magari perché i suoi lavori sono più originali, o rigorosi, o promettenti, anche se hanno trovato collocazione su riviste scientifiche meno prestigiose o hanno temporaneamente ricevuto meno citazioni. Oppure perché le ricerche di A si inseriscono in una corrente di pensiero minoritaria, che è giusto salvaguardare nel quadro della tutela del pluralismo degli approcci scientifici. O anche perché A è il capofila delle ricerche che lo hanno portato al valore 10, mentre B è stato solo un collaboratore marginale. Per valutare elementi così complessi è necessario il lavoro di esperti della materia (i professori che compongono la commissione giudicatrice, appunto). Altrimenti basterebbe un computer. Nel caso di confronti, per così dire “equilibrati”, gli indici non sono quindi necessariamente determinanti.
Altre volte invece può capitare che il ricercatore A abbia accumulato, in tutta la sua carriera, zero punti. E il ricercatore B ne abbia, per dire, 40. In questi casi gli indici servono a segnalare una evidente sproporzione nella qualità della ricerca dei due candidati, di cui una commissione giudicatrice non può che tenere conto. Anzi, secondo la legge (DM 2009/89) qualsiasi commissione èobbligata a tenerne conto.
L’esempio non è scelto a caso. Il concorso all’Università di Milano viene vinto infatti da una ricercatrice che non ha mai pubblicato un articolo su una rivista scientifica dotata di impact factor.
L’impact factor di una rivista è un indicatore che riflette il numero medio di citazioni ricevute dagli articoli pubblicati in un determinato arco di tempo (ne vengono calcolate due versioni, riferite all’ultimo anno e agli ultimi cinque anni). Può quindi essere utilizzato per capire qual è la rilevanza di tale rivista nel dibattito scientifico.
Ora, se si volesse calcolare la somma degli impact factor delle riviste su cui la vincitrice del concorso milanese ha pubblicato i propri lavori si otterrebbe un totale pari a zero. Lo stesso totale per Ilaria Negri sarebbe invece pari a 40. E per gli altri quattro partecipanti del concorso è comunque positivo: la vincitrice è dunque ultima su sei.
Quaranta a zero dunque. Non quattro a tre, o dieci a cinque, o trenta a dieci. 40 a 0. Si può obiettare che sommare gli indici di impatto delle riviste scientifiche ai fini della valutazione dei ricercatori non è corretto, dato che tali indici sono intrinsecamente inconfrontabili tra loro. Sarebbe come sommare le mele con le pere insomma. Obiezione ragionevole, di cui bisogna tenere conto.
Meglio allora ricorrere a un criterio comunemente accettato, anche da parte dei più accaniti detrattori degli indici bibliometrici. Il numero di volte in cui il lavoro di un autore (per esempio un saggio) è stato citato da altri autori può essere considerato (salvo rare eccezioni), un testimone affidabile della sua rilevanza scientifica. Al momento della chiusura del bando, la vincitrice del concorso di Milano aveva raccolto appena 11 citazioni. La perdente 146. Negli ultimi due anni tale divario è aumentato arrivando a 16 contro 249. Il numero medio di citazioni per articolo della vincitrice era 0,3 nel 2010 ed è 0,4 oggi. Quello della perdente era 8,2 ed è oggi arrivato a 13,8.
Come è possibile dunque che il concorso abbia avuto tale esito? Un indizio c’è: la vincitrice del concorso è allieva e collaboratrice del Presidente della Commissione giudicatrice, insieme al quale ha scritto circa metà delle sue pubblicazioni. Il presidente della commissione quindi, nel valutare la produzione scientifica della candidata, si è trovato a dover valutare il proprio stesso lavoro. Per giunta, gli unici articoli di rilevanza internazionale della candidata vincitrice sono pubblicati sul “Bollettino di Zoologia Agraria e Bachicoltura”, una rivista (minore) diretta proprio dal presidente della Commissione giudicatrice ed edita dal Dipartimento di loro afferenza.
Il conflitto di interessi è macroscopico e ricorda da vicino quello dei concorsi da ricercatore in Economia presso le Università dell’Insubria e del Piemonte Orientale, entrambi vinti da candidati che, pur essendo inferiori a tutti gli altri concorrenti in termini di produzione scientifica, potevano vantare uno stretto legame professionale col presidente della commissione.
Tali elementi evidentemente non hanno destato alcuna perplessità nel Rettore dell’ateneo milanese, Enrico Decleva, in carica da ben undici anni e già noto alle cronache per via del caso giudiziario che ha coinvolto sua moglie Fernanda Caizzi Decleva, anche lei professore ordinario all’Università di Milano e, come racconta Repubblica qui e qui, condannata dalla Corte di appello di Firenze a un anno di reclusione per abuso di ufficio. L’accusa, per inciso, era quella di aver pilotato un concorso all’Università di Siena.

È interessante notare anche che secondo alcuni il Rettore non dovrebbe nemmeno essere in servizio. Il Corriere della Sera riporta che il suo mandato è scaduto nel 2009, e il professore è in pensione ormai dal novembre scorso.

Inizia allora l’odissea accademico-giudiziaria di Ilaria Negri, che nel dicembre 2010 presenta ricorso al TAR Lombardia. Il 25 Gennaio 2011 il tribunaleaccoglie il ricorso e annulla tutti gli atti del concorso. Secondo il TAR: “La Commissione doveva obbligatoriamente applicare tutti gli indici bibliometrici per valutare le pubblicazioni”. Viene annullato anche il decreto del Rettore con cui è stata disposta la nomina a ricercatore della vincitrice. Che tuttavia rimane in servizio, in modo evidentemente illegittimo.
Nel marzo 2011 l’Università di Milano riattiva la procedura di selezione, affidando la responsabilità del giudizio alla stessa identica Commissione. Che incredibilmente non convoca nemmeno i candidati al colloquio e si limita a rielaborare i giudizi dei candidati, confermando l’esito iniziale del concorso (i verbali sono disponibili qui).
Il giudizio su Ilaria Negri è notevolmente sminuito. Per esempio, questa volta sono escluse dalla valutazione pubblicazioni su riviste con elevato impact factor, perché ora la stessa Commissione non le considera più congruenti al settore scientifico (misteri dell’Entomologia). Si afferma inoltre che il contributo di Ilaria Negri nelle pubblicazioni non è ben enucleabile, mentre prima, secondo la stessa Commissione, lo era. Nei verbali la commissione ignora nuovamente gli indici bibliometrici, mostrando indifferenza non solo nei confronti della legge (il solito DM 89/2009) ma anche della sentenza del TAR. Vengono invece utilizzati due criteri numerici arbitrari, che sembrano costruiti appositamente per favorire la candidata vincitrice, ormai già in servizio presso l’ateneo.

Negri non si dà per vinta e presenta allora un secondo ricorso al TAR. Il tribunale le dà nuovamente ragione ed emette un’ordinanza lampo che sospende tutti gli atti del concorso, ordina all’Università di Milano di sostituire la Commissione “recidiva” con una nuova Commissione e di ripetere la procedura rispettando stavolta la sentenza del TAR (e magari anche la legge, se non crea troppo disturbo).
Per l’Università di Milano è una sconfitta imbarazzante, che costringe il Rettore a sospendere gli atti del concorso (compresa la nomina della vincitrice) e ordinare la ripetizione della procedura. Tuttavia, nonostante l’ordinanza del TAR e la decisione del Rettore, la candidata vincitrice rimane ancora in servizio. Per Decleva tale situazione surreale è giustificata da motivi di “continuità scientifica e didattica”.

Nel settembre 2011, La Facoltà di Agraria dell’Università di Milano designa come nuovo membro “interno” della Commissione giudicatrice il Prof. Giuseppe Carlo Lozzia, membro del Dipartimento di cui il Prof. Luciano Süss è direttore e al quale, sempre illegittimamente, afferisce la vincitrice del concorso annullato.
Tuttavia anche tale nomina è illegittima, in quanto il Prof. Lozzia è stato già membro nella Commissione dell’altro concorso da ricercatore tenutosi nella stessa sessione presso l’Università di Catania. La legge vieta allo stesso docente di far parte di più di una commissione proprio per rendere più difficile la manipolazione dei concorsi. Viene quindi designato un nuovo membro interno, il prof. Santi Longo, dell’Università di Catania.
Nel febbraio 2012 l’Università di Milano decide di ripetere il concorso per due sole concorrenti. La vincitrice del concorso annullato – sempre in servizio con un ruolo di ricercatore che non le spetta – e la ricorrente Ilaria Negri. In aprile si svolgono i due colloqui, e dopo appena tre giorni lavorativi il Rettore Decleva approva i nuovi atti del concorso: la candidata interna vince per la terza volta.
E per la terza volta l’esito del concorso sembra viziato dal mancato uso degli indici bibliometrici, secondo i quali la distanza tra la ricorrente e la vincitrice rimane siderale. Non ci sarebbe da sorprendersi dunque se la perdente decidesse di ricorrere di nuovo. In tal caso, i ricercatori dell’ormai famigerato gruppo Secs in the cities si sono dichiarati disponibili a organizzare una raccolta fondi per finanziare il suo ricorso, come già avvenuto nel caso del concorso da ricercatore in Politica economica presso l’Università dell’Insubria.
Intanto l’Associazione dei Precari della Ricerca (APRI) ha promosso una petizione al Rettore dell’Università di Milano, e per conoscenza al Ministro Francesco Profumo, con la richiesta di annullare il concorso “al fine di fugare le ombre che si verrebbero a creare sulle procedure di reclutamento in atto presso l’Università di Milano, anche a tutela dei valori di trasparenza e merito propugnati dal Rettore stesso nello Statuto di Ateneo”.
Nel frattempo per vivere Ilaria Negri insegna scienze in una scuola superiore. Un osservatore esterno potrebbe chiedere: come mai non emigra in un paese che sappia apprezzare il suo talento? È una domanda che tante volte ho sentito rivolgere, a me o a miei colleghi precari, da parte di professori ordinari, e che suona beffarda e a volte perfino offensiva.
I ricercatori non emigrano perché sono amanti dell’avventura, o perché attratti da stipendi straordinari. Semplicemente, sono costretti. Nella grande maggioranza dei casi, l’emigrazione è una scelta residuale e molto dolorosa. Chiunque, potendo, farebbe a meno di separarsi dai suoi affetti e lasciare il suo paese per trovare lavoro. Coloro che, pur avendo i titoli per affermarsi in università straniere, rimangono in Italia in situazioni di precariato dovrebbero essere apprezzati per questo. Ci aiutano a stabilire il principio che il paese non appartiene solo ai prepotenti, ai baroni, ai corrotti.
È anche grazie alle persone che restano e combattono per il rispetto delle regole che il nostro paese ancora conserva la speranza di cambiare.
Fabio Sabatini
(10 giugno 2012

Nessun commento: