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venerdì 8 febbraio 2013

PRECARI DELL'EDITORIA



Segue un articolo del Corriere on-line. Ma l'atto di accusa di Chiara Di Domenico è assolutamente fondato. La figlia di Pietro Ichino è stata assunta alla Mondadori a soli 23 anni (quindici anni fa). Il nome che si fa è quello di Turchetta, ora in Rizzoli. Non c'è possibilità di essere assunti a quell'età senza un motivo che vada al di là delle proprie capacità. Il mondo dell'editoria è pieno di precari con anni di esperienza, bravissimi e preparati. Età media dai 30 in su. Al posto della fortunata figlia di Ichino avrei taciuto. Anche perché sei la figlia di Ichino, e lavori per mister B.

Marconista


ROMA - Alla fine Pier Luigi Bersani le va incontro e l'abbraccia, commosso. Chiara Di Domenico, 36 anni, chiamata da Fausto Raciti, ha appena finito di scuotere per otto minuti la platea democratica: «La verità è scandalosa, ma lo status quo è osceno». L'oscenità, racconta con la passione di chi la vive ogni giorno sulla sua pelle, è nella vita dei precari come lei. Una carriera nell'editoria - da Passigli a Gaffi, da Fernandel a Nottetempo - fino ad approdare con contratto a progetto nell'ufficio stampa della casa editrice l'Orma. Ma l'oscenità, dice, è anche nel nepotismo: «Sono stanca di vedere assunti i "figli di". Faccio i nomi: Giulia Ichino, assunta a 23 anni alla Mondadori». Riferimento che non può passare inosservato, perché il padre Pietro è un giuslavorista noto e perché ha da poco lasciato il Pd per candidarsi con Monti.

L'atto d'accusa non risparmia nessuno, neanche le due pagine sui giovani del «Corriere», a firma Federico Fubini, che viene «invitato a cena, con i miei amici precari». Chiara cita i «Cento passi», e le parole di Majakovskij citate da Peppino Impastato: «Esci dalla sede del partito e vai in strada». Poi Don Milani: «Non si viene a mangiare il pane bianco nelle strade dei poveri». Chiara fa altri due nomi. Quello di Isabella Viola, «36 anni, madre di quattro figli, morta d'infarto e di fatica alla fermata della metro». E quello di Giulia, appunto.

Che dal suo ufficio di Segrate risponde con pacatezza: «So di essere molto fortunata, ma mio padre non c'entra. Studiavo all'università con Vittorio Spinazzola e Gianni Turchetta, ho mandato un curriculum alla Mondadori e fortuna ha voluto che si aprisse allora la collana Sis. Ho fatto la correttrice di bozze per un anno, poi una sostituzione maternità e l'assunzione». Giulia, un figlio, si dice «dispiaciuta»: «Anche perché mi faccio un discreto mazzo». E poi «non mi piace questo vittimismo che sconfina in un pubblico attacco disinformato». Si sente una privilegiata: «Noi garantiti con il posticino caldo dobbiamo essere pronti a rimetterci in gioco. Mi indigna avere la maternità e la copertura malattia, a differenza di altri».

Condivide le parole del padre sulle «parole d'ordine demagogiche, come non toccare l'articolo 18». Su Bersani dice: «Spero che vinca la sinistra, ma dissento fortemente dalla linea sul lavoro. Capisco il suo abbraccio, ma ci vuole più coraggio». La Mondadori difende la Ichino. Edoardo Brugnatelli si dice «inorridito». Carlo Carabba solidarizza con Giulia. Per Giuliano Cazzola sono «accuse vili». La Di Domenico chiarisce: «Non ce l'ho con lei, ma la invito a cercare di usare la sua posizione per migliorare i diritti di tutti. E se vuole sono pronta a un confronto pubblico».

mercoledì 13 giugno 2012

ICHINO E IL TERRORISMO





ALFREDO DAVANZO IN AULA A MILANO
Nei giorni scorsi, in occasione del processo d’appello ai presunti appartenenti alle  cosiddette «nuove Brigate rosse», il Senatore Ichino ha proposto a ciascuno degli imputati di rinunciare alla propria costituzione in giudizio contro di loro, in cambio “del puro e semplice riconoscimento del suo diritto a non essere aggredito”. Il senatore, evidentemente, non si accontenta del mercato del lavoro; vuole modificare, ovvero introdurre il mercato anche nella giurisprudenza. Non si era mai vista una tale spudoratezza e un tale spregio dei diritti degli imputati da parte di un senatore della Repubblica. Una domanda del genere, infatti, prescinde dagli esiti del processo e non tiene conto della presunzione di innocenza. Il diritto a non essere aggredito è un diritto naturale. Nessuno di noi lo va a chiedere in un tribunale a degli imputati. Casomai, si rivolge a un magistrato. Ma non mi pare che fino ad oggi Ichino sia stato mai aggredito. Si tratta, dunque, di un’azione preventiva.
Per maggiore evidenziare la proposta, il senatore Ichino ha scritto al “Corriere” di aver ripetuto “l’offerta di conciliazione e di dialogo”, ma di aver ricevuto come risposta da Alfredo Davanzo le seguenti parole:

«Questo signore - che sarei io - rappresenta il capitalismo, lui è l'esecutore di questo sistema e noi eseguiremo il dovere di sbarazzarci di questo sistema».

Del sistema, ha detto Davanzo, ma Ichino la interpreta come personale. Crede che si vogliano sbarazzarsi di lui.
E si è arrabbiato, perché la sentenza di condanna non riconosce agli imputati il reato di terrorismo. Solo associazione sovversiva” (articolo 270 del codice penale), ma non di terrorismo (articolo 270-bis).

Il motivo è giuridico. La corte non ha riscontrato nel comportamento dei brigatisti, «il proposito di intimidire indiscriminatamente la popolazione, l'intenzione di esercitare costrizione sui pubblici poteri», oppure «la volontà di destabilizzare» o addirittura «distruggere gli assetti istituzionali del Paese».

Ichino non ci sta. E parte con i paragoni. Se non è terrorismo quello dei nuovi brigatisti, ancor meno lo è quello dei feritori (afferma gli anarchici) di Roberto Adinolfi.

E ancor meno, potrà ravvisarsi un siffatto intendimento politico nell'attentato di Brindisi contro un istituto scolastico”. Come potrebbe «destabilizzare o distruggere gli assetti istituzionali del Paese» un attentatore che neppure fa conoscere all'opinione pubblica tale suo preciso intendimento?

Ma perché questo paragone, senatore? Come può una persona che dia senso alle proprie parole paragonare la propria situazione al tentativo di strage in una scuola?

Ichino non ammette che stiamo vivendo un lungo periodo di scontro sociale altissimo, che la ristrutturazione capitalistica che ha causato la crisi economico-finanziaria che stiamo vivendo è costata il lavoro e in alcuni casi la vita a decine di migliaia di persone; ha reso liquido il concetto stesso di lavoro e con esso la prospettiva per molti di una vita normale, nel senso di “programmabile”. Viviamo in un paese con un’altissima disoccupazione giovanile, una generazione di lavoratori, i nati tra il 1965 e il 1975, che se perdono il lavoro lo ritrovano in 8 su cento entro un anno. Né ammette, Ichino, di essere uno dei ristrutturatori del sistema. Di essere per l’abolizione, o la riforma in senso restrittivo, dell’articolo 18, di aver scritto più volte contro le cause di lavoro, che ritiene una perdita di tempo (meglio l’accordo privato, dice – e spesso ciò accade, ci si mette d’accordo, ma in altri casi la possibilità di denunciare è una tutala). Ecco la parola. Tutela. Non piace a Ichino per gli altri. Ma la vuole per sé. Vuole essere tutelato e offre una pipa di pace ai presunti brigatisti. Per poter continuare indisturbato a contribuire all’abbattimento del sistema sociale così faticosamente creato nel corso di un centinaio di anni.

Il terrorismo è tante cose: una bomba che uccide in modo indiscriminato la popolazione, i bombardamenti di civili a Gaza, in Siria, in Afganistan, in Iraq, le autobomba, i treni e le piazze, da Portella della Ginestra nella piana degli Albanesi in Sicilia in poi. Non è terrorismo minacciare un giuslavorista perché anziché difendere gli interessi dei lavoratori, si occupa di quelli dei padroni. È un reato, una cosa che non fa parte del convivere civile, ma non è terrorismo.

Sono contro ogni terrorismo e ogni forma di violenza, e in questo mi trovo d’accordo con Ichino. Lo invito allora a scrivere dei bombardamenti sulle popolazioni civili, che il senatore ha approvato, rifinanziando le missioni italiane all’estero e in particolare quella in Afganistan. Perché Ichino, da quando è iniziata questa storia, ha ancora maggiore visibilità mediatica ed è stato eletto, ovviamente, senatore.

Forse ha ragione lui. Che i presunti militanti delle Nuove Br, o chi per loro, lo lasci stare. Magari non verrà più rieletto, gli toglieranno la scorta e sarà costretto a cercare lavoro nel privato. Lo troverà, ovviamente, ma almeno non lo pagheremo più noi. 

MARCONISTA

martedì 29 maggio 2012

COSA VUOLE ICHINO

Lettera di ICHINO al "Corriere della Sera"




Caro direttore, fin dall'inizio, in primo grado, del processo contro gli appartenenti alle «nuove Brigate rosse», che si è concluso ieri con la seconda sentenza della Corte d'Assise d'Appello di Milano, ho proposto a ciascuno degli imputati di rinunciare alla mia costituzione in giudizio contro di loro, in cambio del puro e semplice riconoscimento del mio diritto a non essere aggredito.

Ieri, durante l'ultima udienza del processo, ho ripetuto quella mia offerta di conciliazione e di dialogo. La risposta del loro leader, Alfredo Davanzo, è stata: «Questo signore - che sarei io - rappresenta il capitalismo, lui è l'esecutore di questo sistema e noi eseguiremo il dovere di sbarazzarci di questo sistema». Dove «sbarazzarci» è evidentemente un eufemismo, mentre l'accento sinistro della frase sta tutto in quell'«eseguiremo». In ogni caso, la risposta alla mia proposta è stata chiara: «non ti riconosciamo il diritto a non essere aggredito». E la stessa minaccia ha numerosissimi destinatari, poiché di «esecutori di questo sistema» in giro per l'Italia ce ne sono evidentemente molti altri.
A questo punto qualcuno potrebbe sorprendersi che il processo si sia poi concluso con una sentenza che riconosce gli imputati colpevoli, sì, di associazione sovversiva (articolo 270 del codice penale), ma non di terrorismo (articolo 270-bis). Ma chi è addentro nelle cose della giustizia si è sorpreso un po' meno di questo esito. È plausibile, infatti, che con questa decisione la Corte d'Assise d'Appello abbia inteso conformarsi alla sentenza con cui il 2 aprile scorso la Cassazione aveva annullato la prima decisione, del 2010, della stessa Corte d'Assise, nello stesso processo, nella quale invece le finalità di terrorismo erano state riconosciute. In sostanza, la Cassazione imputava alla Corte milanese di non avere sufficientemente individuato e dimostrato, nel comportamento di questi brigatisti, «il proposito di intimidire indiscriminatamente la popolazione, l'intenzione di esercitare costrizione sui pubblici poteri», oppure «la volontà di destabilizzare» o addirittura «distruggere gli assetti istituzionali del Paese». Dunque, progettare un attentato alla sede di un grande quotidiano nazionale e un agguato mirato a ferire o uccidere una persona qualsiasi, assunta quale «rappresentante del capitalismo», secondo questa nuova giurisprudenza, non è «terrorismo». Resta il problema di capire che cosa, allora, secondo la Corte di Cassazione, sia «terrorismo».
Se non è «terroristico» quel progetto dei nuovi brigatisti, ancor meno può qualificarsi come tale quello degli anarchici che a Genova hanno ferito il dirigente dell'Ansaldo di Genova Roberto Adinolfi. Questi ultimi infatti confessano di non credere nel valore politico della loro azione violenta, ma di farlo soltanto per motivi esistenziali e di auto-gratificazione: «impugnando la pistola abbiamo solo fatto un passo in più per uscire dall'alienazione»; «con una certa gradevolezza abbiamo armato le nostre mani, con piacere abbiamo riempito il caricatore scegliere e seguire l'obiettivo, coordinare mente e mano sono stati un passaggio obbligato, la logica conseguenza di un'idea di giustizia, il rischio di una scelta e nello stesso tempo un confluire di sensazioni piacevoli»; «non cerchiamo consenso, ma complicità». Qui c'è principalmente la soddisfazione di una qualche pulsione sadica, ma con un'esplicita rinuncia a perseguire concretamente e credibilmente effetti politici generali. Gli attentatori di Genova mostrano una piena consapevolezza della propria incapacità di «esercitare costrizione sui pubblici poteri» o, tanto meno, di «destabilizzare o addirittura distruggere gli assetti istituzionali del Paese».
Ancor meno, probabilmente, potrà ravvisarsi un siffatto intendimento politico nell'attentato di Brindisi contro un istituto scolastico, dal momento che chi l'ha compiuto non lo ha in alcun modo esplicitato: come potrebbe «destabilizzare o distruggere gli assetti istituzionali del Paese» un attentatore che neppure fa conoscere all'opinione pubblica tale suo preciso intendimento? Neppure lì, dunque, può essersi trattato di terrorismo. A ben vedere, questo è un bene per il Paese: tra le tante piaghe da curare, almeno questa del terrorismo non ce l'abbiamo più.
Pietro Ichino