giovedì 28 maggio 2020

WALTER TOBAGI 40 ANNI DOPO

Oggi è il quarantesimo anniversario dell'uccisione di Walter Tobagi, giornalista del Corriere della Sera. Nel brano che segue Sandro Padula ricostruisce la vicenda.





«Contropiano», 28 maggio 2020
Sandro Padula

La mattina del 28 maggio 1980 il cronista del Corriere della Sera e presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti, Walter Tobagi, un uomo cattolico e di area socialista a cui nel gennaio 1979 – dopo il recupero di una valigetta attribuita ai Reparti Comunisti d’attacco – venne proposta una scorta che lui non volle, fu vittima di un attentato mortale nella città di Milano, e precisamente in via Solari.
La responsabilità dell’omicidio venne assunta da un gruppetto che, con esplicito richiamo alla data del 1980 in cui a Genova erano stati uccisi quattro brigatisti rossi, si autodefinì Brigata 28 marzo.
In questa circostanza le indagini della Procura e dei carabinieri si focalizzarono subito, in alcuni giorni, sull’area delle ex Formazioni Comuniste Combattenti, organizzazione in cui aveva militato Corrado Alunni, e  su Marco Barbone, il fondatore della Brigata 28 marzo. Durarono alcuni mesi, ma soltanto allo scopo di ottenere il maggior numero possibile di prove d’accusa e informazioni.
Secondo Armando Spataro, il Pubblico Ministero del processo ai responsabili dell’omicidio Tobagi, il merito nell’individuazione della “pista giusta” sarebbe stato dell’allora capitano dei carabinieri Alessandro Ruffino.
Costui, sempre a parere di tale magistrato, avrebbe scoperto “che la particolare grafia con cui erano stati scritti gli indirizzi sulle buste spedite per la rivendicazione degli attentati a firma  Guerriglia Rossa era identica (non vi fu neppure bisogno di una perizia) a quella di un documento che era stato trovato anch’esso, nel settembre 1978, nel covo di Alunni di via Negroli (…) . Fu possibile anche attribuire quella calligrafia a Marco Barbone: un campione era stato acquisito dai carabinieri nel corso delle indagini in precedenza svolte sulla sua fidanzata Caterina Rosenzweig con la quale lui viveva.” (pag. 83 di Ne valeva la pena, A. Spataro, editori Laterza, 2010)
A dire il vero, individuare l’autore di una grafia fra centinaia di possibili responsabili, e addirittura senza nemmeno una perizia, non è possibile se non ci sono delle precedenti e più precise informazioni che in qualche modo indirizzino su lui. Specie con le tecnologie d’allora…
In realtà, il capo della Brigata 28 marzo era talmente controllato dagli uomini del generale Dalla Chiesa che quest’ultimo, in un’intervista rilasciata a Panorama il 22 settembre 1980, giunse ad esaltare la propria tecnica di “massima riservatezza, conoscenza anche culturale dell’avversario, infiltrazione”.
Negli stessi giorni, creando con ciò sconcerto nella Procura di Milano, L’Espresso pubblicò un articolo dal quale si capiva che le indagini per l’omicidio di Tobagi erano concentrate sull’area delle ex Formazioni Comuniste Combattenti.
Marco Barbone, figlio ventiduenne di un alto dirigente della casa editrice Rizzoli, costituiva il principale indagato e, per evitarne la possibile fuga, fu arrestato il 25 settembre 1980 con imputazioni che poi saranno relative ad altri reati: rapina e partecipazione a banda armata precedente e diversa rispetto alla Brigata 28 marzo.
In seguito, nella prima metà di ottobre del 1980, quel giovane confermò di essere l’omicida di Tobagi e diede inizio a un “pentimento” che ebbe l’effetto di portare in carcere prima gli altri militanti della Brigata 28 marzo e poi, nell’arco grosso modo di un anno, oltre un centinaio di persone legate ad una vasta area del sovversivismo milanese e lombardo.
A questi fatti, già di per sé molto significativi, se ne aggiunsero altri di particolare rilievo.
Caterina Rosenzweig, la fidanzata e convivente di Marco Barbone, non comparve mai al maxi processo Rosso-Tobagi. Lei non fu imputata rispetto ai reati compiuti dalla Brigata 28 marzo perché, dalle parole dei “pentiti”, non risultava che avesse fatto parte di tale organizzazione. Fu imputata a piede libero per un “esproprio proletario”, rivendicato da un altro e precedente gruppo, e poi assolta per insufficienza di prove.
Era una ragazza dell’alta borghesia che, alcuni anni prima della nascita della Brigata 28 marzo, aveva conosciuto direttamente, per motivi di lavoro, il giornalista de La Repubblica ed ex militante di Lotta Continua Guido Passalacqua e, per motivi di studio universitario, lo stesso Walter Tobagi. Il quale, oltre ad essere giornalista, era anche professore di storia moderna alla Statale di Milano. Il primo fu ferito alla gambe il 7 maggio del 1980 dalla Brigata 28 marzo e il secondo, come abbiamo detto, ucciso ventuno giorni dopo.
La sentenza di primo grado del processo Rosso-Tobagi
Il 28 novembre 1983, quando si concluse il primo grado del processo Rosso-Tobagi, il giudice Cusumano concesse a sei “pentiti” (fra cui Marco Barbone, Paolo Morandini e Rocco Ricciardi) «il beneficio della libertà provvisoria ordinandone l’immediata scarcerazione».
Nell’aula bunker di piazza Filangeri, dove mancava la scritta La legge è uguale per tutti (vedasi pag. 360 del secondo volume de “La Mappa Perduta”, casa editrice Sensibili alle Foglie, Roma, 1995), solo tre ex militanti della Brigata 28 marzo ricevettero lunghe condanne detentive: Manfredi De Stefano, poi morto il 6 aprile 1984 nell’ospedale di Udine dopo una traduzione d’urgenza dal carcere in cui stava scontando la pena, Francesco Giordano, Daniele Laus.
La sentenza, considerata da Armando Spataro una “delle più equilibrate e difficili” (pag. 198 di Ne valeva la pena, A. Spataro, editori Laterza, 2010), suscitò lo sgomento di Ulderico Tobagi, padre di Walter, e una rinnovata serie di polemiche.
Qualche giorno dopo Bettino Craxi, all’epoca Presidente del Consiglio e segretario del Partito Socialista, riportò in modo approfondito una notizia da lui vagamente anticipata nel mese di giugno, in piena campagna elettorale. Si trattava dell’esistenza di un’informativa dei carabinieri di Milano, datata 13 dicembre 1979, secondo la quale un confidente aveva detto a un sottufficiale dei carabinieri che un gruppo sovversivo era operante in via Solari, dove abitava Walter Tobagi, con la probabile intenzione di sequestrare o uccidere il giornalista del Corriere della Sera.
Stando alle dichiarazioni in parlamento del 19 dicembre 1983 da parte dell’allora ministro degli Interni Oscar Luigi Scalfaro, quell’informativa esisteva effettivamente ma il Comando Generale dei carabinieri l’avrebbe considerata alla stregua di una insignificante illazione e comunque sbagliò a non comunicarla alla magistratura.
Fedele alla “linea della fermezza” il Pci continuò invece ad appoggiare la versione ufficiale fornita dalla Procura di Milano. Convinto che l’omicidio Tobagi fosse frutto di un “contesto inquinato”, come aveva suggerito il direttore del Corriere della Sera Franco Di Bella (poi rivelatosi uomo della P2), il Psi continuò invece a pensare che per l’omicidio di Tobagi ci fossero dei mandanti esterni alla Brigata 28 marzo, addirittura fra i giornalisti dell’area del Pci, e che il Procuratore Spataro avesse contrattato col “pentito” Barbone allo scopo di nascondere quei presunti mandanti.
In seguito emersero fatti nuovi che precisarono meglio i contorni della vicenda. La polemica anti-Pci aveva fuorviato i craxiani, ma l’intuizione che dietro la morte di Tobagi vi fossero molti aspetti da chiarire da parte delle Istituzioni non era sbagliata.
Avvenne pure, come abbiamo già accennato,  la morte dell’imputato Manfredi De Stefano.
La morte di Manfredi De Stefano
Manfredi morì il 6 aprile 1984 nell’ospedale di Udine, dopo una traduzione d’urgenza dal carcere in cui stava scontando la pena. Lui era in attesa del processo di Appello, ma cessò di vivere ben prima del suo inizio;  si sentì male per motivi naturali nella cella in cui era alloggiato e, secondo la perizia ufficiale, morì per un aneurisma.
A confermare ciò c’erano cinque compagni della medesima cella e alcune persone della polizia  penitenziaria.
Molti anni dopo, nel 2009, ci fu un’esternazione di Giorgio Caimmi, a suo tempo giudice istruttore nel processo Rosso-Tobagi, secondo cui Manfredi De Stefano si sarebbe suicidato (dichiarazione riportata in maniera scandalizzata da Benedetta Tobagi nel numero speciale n. 4, luglio-agosto 2009 di Ristretti Orizzonti e a pag. 281-282 del suo libro intitolato “Come mi batte forte il tuo cuore”, Einaudi, 2009), ma finora è rimasta priva di fondamento.
Passiamo perciò a vedere cosa successe alla ripresa del processo “Rosso-Tobagi”.
L’infiltrato Rocco Ricciardi e il “pentito” Marco Barbone
Nel processo di Appello “Rosso-Tobagi”, e siamo nel 1985, emerse pubblicamente che il “confidente” dei carabinieri era, per propria ammissione, il “pentito” Rocco Ricciardi, un imputato che prima di finire in carcere – fatto avvenuto nel novembre 1981, cioè dopo circa un anno dal “pentimento” di Barbone – aveva abitato nel varesotto.
Da quel momento si capì che il ruolo di questo personaggio, divenuto “confidente” dei carabinieri dopo una perquisizione ordinata nel marzo 1979 da Armando Spataro e ufficialmente all’insaputa di quest’ultimo (vedasi pag. 92 del citato Ne valeva la pena), era stato messo in secondo piano dalle chiacchiere sulla presunta spontaneità del “pentimento” di Barbone e sull’eventuale esistenza di mandanti del Pci nell’omicidio di Walter Tobagi. In realtà si trattava di un ex sovversivo e di un vero e proprio infiltrato dei carabinieri.
Il 27 maggio 1979 Rocco Ricciardi aveva un appuntamento con diversi esponenti delle Formazioni Comuniste combattenti presso il Bar Umberto I, in piazza Matteotti, a Como. Non ci andò e fece arrestate sette persone.
Il 13 dicembre del 1979 invece lui mise al corrente un sottufficiale dei carabinieri di un colloquio avuto con Pierangelo Franzetti. Costui, allora esponente dei Reparti comunisti d’attacco (Rca), un gruppo formato nella seconda metà del 1978 da alcuni militanti usciti dalle Formazioni Comuniste Combattenti, gli avrebbe fatto cenno di un progetto d’azione armata a Milano, operativo nella zona di via Solari e ideato dai Rca.
A tale riguardo, Ricciardi fornì l’ipotesi secondo cui quel progetto avrebbe potuto essere contro Tobagi e, per meglio motivare la propria congettura, raccontò che a gennaio o a febbraio del 1978 lui stesso, Marco Barbone e Caterina Rosenzweig avevano tentato di sequestrare il cronista del Corriere della Sera. Tale azione avrebbe dovuto essere rivendicata con la sigla delle Formazioni Comuniste combattenti, organizzazione al cui vertice c’era anche Barbone, ma fallì a causa dell’imprevista presenza di una volante della polizia.
Nel processo di Appello “Rosso-Tobagi” e nei giornali, grazie ad una serie di altri dati e riscontri, emerse anche una sottovalutata ricostruzione di alcune vicende successive al tentato sequestro di Tobagi.
Barbone fu espulso dalle Formazioni Comuniste Combattenti. Caterina Rosenzweig era stata arrestata per partecipazione a un attentato compiuto nel marzo del 1978, nel varesotto, contro la Bassani Ticino, ma lui non volle diventare clandestino a tutti gli effetti. Ebbe invece una corrispondenza postale con la fidanzata fino a maggio, allorché lei fu scarcerata e sottoposta per alcuni mesi a libertà vigilata.
Si sentiva molto sicuro del fatto suo ed ebbe modo di darne prova anche dopo il 13 settembre 1978, giorno in cui le forze dell’ordine irruppero in un appartamento di via Negroli, misero in manette il dirigente delle Formazioni Comuniste combattenti Corrado Alunni e, fra le altre cose, rinvennero il volantino di rivendicazione dell’azione compiuta a marzo da Caterina Rosenzweig.
Pur essendo già schedato e facilmente controllabile dalle forze dell’ordine, Barbone continuò ad agire come se nulla fosse accaduto. Dapprima svolse un’attività il cui scopo era quello di formare un gruppo con idee simili alle sue; poi divenne capo di una micro-organizzazione che mise in atto e rivendicò alcuni sabotaggi ad automezzi adibititi alla distribuzione di quotidiani e contro un’agenzia pubblicitaria: quella Guerriglia Rossa in cui, dalla primavera del 1979 al 28 marzo del 1980, militarono diversi fra coloro che, assieme ad altri provenienti da esperienze diverse, andranno poi a formare la Brigata 28 marzo(vedasi pag. 240 del primo volume de “La Mappa Perduta”, casa editrice Sensibili alle Foglie, Roma, 1994).
Una sostanziale linea di continuità si ebbe dunque, soprattutto per mezzo delle attività di Marco Barbone, fra il tentativo di sequestro di Tobagi del 1978, il gruppo Guerriglia Rossa e la Brigata 28 marzo.
All’Appello del processo Rosso-Tobagi Rocco Ricciardi disse poi la banale verità secondo cui nel dicembre 1979 non aveva ancora mai sentito parlare della Brigata 28 marzo, sigla nata nel 1980 dopo la strage avvenuta nella genovese via Fracchia.
Inoltre affermò che dopo la morte di Tobagi i carabinieri gli chiesero se ne sapesse qualcosa e lui avrebbe fatto queste dichiarazioni:
“Non avevo alcun elemento. Più tardi, un militante dei Reparti comunisti d’attacco, Luciano Marchettini, mi raccontò che un certo Manfredi Di Stefano aveva cercato un collegamento con la loro struttura, presentandosi come uno della “28 marzo”. Lo riferii. La notizia non fu presa sul serio. Fecero qualche accertamento. Mi mostrarono anche una fotografia e riconobbi Di Stefano che avevo conosciuto anni prima“. (La Repubblica, 14 giugno 1985)
Quasi un decennio dopo l’ex carabiniere Dario Covolo, una vecchia conoscenza di Rocco Ricciardi, ha ribadito l’ipotesi, diffusa da Craxi e dal Psi a partire dal 1983, secondo cui le autorità competenti non avrebbero fatto nulla per impedire l’omicidio di Tobagi.
Il lavoro giornalistico di Renzo Magosso sull’omicidio di Tobagi
Nell’ambito di un’intervista pubblicata sul settimanale Gente il 17 giugno 2004 e rilasciata a Renzo Magosso, Dario Covolo ha detto che nel dicembre 1979 aveva trasmesso ai propri superiori, gli allora capitani Umberto Bonaventura e Alessandro Ruffino, l’informativa di Rocco Ricciardi sull’esistenza di un gruppo che avrebbe voluto sequestrare o uccidere Walter Tobagi. Un’informativa di cui quest’ultimo – sia detto da noi oggi, per inciso – non seppe nulla.
A quell’intervista ha fatto seguito una querela per diffamazione presentata da Alessandro Ruffino, nel frattempo diventato generale dei carabinieri in pensione,  e dalla sorella del generale Umberto Bonaventura, deceduto.
Il 20 settembre 2007 Renzo Magosso e l’ex direttore di Gente, Brindani, sono stati poi condannati a una pena pecuniaria dal tribunale di Monza. Il 22 settembre dello stesso anno, in un procedimento stralciato, ma sempre dal tribunale di Monza, è stato condannato allo stesso tipo di pena anche Dario Covolo.
Secondo le sentenze, confermate in Appello il 3 novembre 2009, la ricostruzione oggetto della querela era stata contestata da altre persone e questo avrebbe dovuto essere ricordato nell’intervista.
Al di là di queste decisioni della magistratura italiana, la ricostruzione dei fatti dovrebbe essere sempre essere basata su prove concrete e non su altro.
Di certo, la verità giudiziaria non corrisponde alla verità storica e non di rado la stessa verità giudiziaria italiana è contestata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Non a caso, il 16 gennaio 2020 la CEDU  ha condannato lo Stato italiano per violazione del diritto alla libertà d’espressione  nei confronti del giornalista Renzo Magosso e dell’ex direttore di Gente Brindani. (https://www.camera.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/sentenza/sintesi_sentenzas/000/000/739/Magosso.pdf)
Entusiasta di quest’ultima sentenza, Magosso si è poi lasciato andare ad alcune dichiarazioni,  riportate dal giornale Il Dubbio del 19 gennaio 2020, fra cui queste:
“A giugno del 1980 venni contattato dal direttore del Corriere, Franco Di Bella, che mi disse: il generale Dalla Chiesa mi ha detto che ad ammazzare Tobagi è stato il figlio del nostro direttore generale Donato Barbone. Così andai a verificare con Umberto Bonaventura, che confermò la circostanza, aggiungendo di essere arrivato a Barbone tramite un manoscritto anonimo su un attentato mai avvenuto ordito dalle Fcc nel quale riconobbe la calligrafia del giovane. Non ci ho creduto, ma lui mi disse che era un’informazione sicura che veniva da Varese. Così gli chiesi di informarmi dell’arresto, cosa che fece. Su L’Occhio scrissi: preso Marco Barbone delle Br, l’informazione viene da Varese. Otto giorni prima che confessasse.”.
Queste  ricostruzioni di Magosso sul caso Tobagi non sono risultano però corrette.
A giugno del 1980 il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa (che, secondo gli atti della Commissione Anselmi sulla P2, per motivi mai chiariti, fece richiesta di iscrizione alla Loggia P2 in datata 28 ottobre 1976) potrebbe aver commesso un’imprudenza nel parlare in quel modo al direttore del Corriere della Sera, Franco Di Bella (a quel tempo già membro della Loggia P2), ma non sembra qualcosa di particolarmente strano fra chi apparteneva alla classe dirigente italiana.
La circostanza secondo cui l’allora capitano dei carabinieri Umberto Bonaventura sarebbe arrivato a Marco Barbone tramite delle analisi della calligrafia, a differenza di quanto affermato da Armando Spataro secondo cui quel merito lo avrebbe avuto Alessandro Ruffino, qui sembra realistica solo allorché si precisa che sarebbe basata su “un’informazione sicura che veniva da Varese” e quest’ultima potrebbe riferirsi all’estate del 1980, dopo la morte di Tobagi e prima dell’arresto dei militanti della Brigata 28 marzo,  e nello specifico alle cose che, sulla militanza di Manfredi De Stefano nella Brigata 28 marzo, Rocco Ricciardi apprese da Luciano Marchettini.
Senza dubbio, invece, è del tutto falsa la notizia secondo cui Marco Barbone sarebbe stato un militante delle Br.
Vediamo perciò come invece stavano e stanno le cose.
Verso una più precisa verità storica
Sul piano storico, volendo solo parlare di fatti acclarati e non di polemiche trite e ritrite, abbiamo le prove inconfutabili dell’esistenza di un tentato sequestro di Tobagi nel 1978, del fidanzamento fra Marco Barbone e la pregiudicata Caterina Rosenzweig e della loro passata esperienza nelle Formazioni Comuniste combattenti. Cioè di elementi cognitivi sufficienti alle forze di polizia per controllare meglio Barbone almeno dal 13 dicembre 1979 e soprattutto in seguito al ferimento compiuto il 7 maggio 1980, ai danni del giornalista Passalacqua e rivendicato dalla Brigata 28 marzo.
Di conseguenza, pure al di là  di quali siano state eventualmente le singole responsabilità dei carabinieri e dei loro vertici, la domanda fondamentale a questo punto è: che uso si fece di tutte quelle ampie informazioni su Marco Barbone e dell’infiltrato Rocco Ricciardi?
Una risposta precisa e logica è venuta da alcuni giornalisti addetti a seguire le udienze del processo Rosso-Tobagi. In particolare da Guido Vegani che nel 1985 così scriveva: “Se si sta alla verità di Ricciardi, è legittimo pensare che i carabinieri abbiano, sbagliando, evitato di analizzare quell’abortito sequestro. Se lo avessero fatto, avrebbero automaticamente puntato gli occhi su Marco Barbone che era stato partecipe, e non come comparsa, di quel progetto e che, insieme a Mario Marano, avrebbe, nel maggio del 1980, sparato su Tobagi.
Ma la realtà più logica potrebbe essere un’ altra. L’errore dei carabinieri (lo è, anche se ci si pone nell’ottica di quegli anni di piombo, in cui mille erano i possibili “obbiettivi” del terrorismo e tante le “soffiate” basate su deduzioni) può essere stato dettato anche dalla volontà di non bruciare quel confidente su piste considerate minori, mentre lo si stava usando per tentare di accerchiare la “Brigata Walter Alasia”, la punta milanese delle Br.” (Milano, depone al processo d’appello Rocco Ricciardi, confidente dei carabinieri. “Tobagi? Dovevamo rapirlo“, La Repubblica, 18 giugno 1985).
Si può quindi leggere con una nuova e più chiara ottica cosa intendesse il generale Dalla Chiesa quando, nella citata intervista a Panorama del 22 settembre 1980, parlava della tecnica di «massima riservatezza, conoscenza anche culturale dell’avversario, infiltrazione».
La “massima riservatezza” era tale che il tentato sequestro di Tobagi del 1978 rimase sconosciuto persino al diretto interessato e, per diversi anni, almeno a livello ufficiale, alla stessa magistratura. L’infiltrazione era quella di Rocco Ricciardi.
La “conoscenza anche culturale dell’avversario” significava invece che da tempo i carabinieri avevano molte informazioni a proposito di Barbone. D’altra parte fecero degli errori proprio di carattere culturale. Essendo concentrati nel portare l’attacco alle Brigate Rosse, sottovalutarono il rischio che Barbone potesse realizzare un’azione omicida.
Il cono d’ombra che ancora oggi opacizza la verità sulla morte di Walter Tobagi e sulle dinamiche del processo “Rosso-Tobagi” trova quindi la propria origine fondamentale nella strategia antiguerriglia condotta dai carabinieri, avente come obiettivo principale l’accerchiamento e la distruzione delle Brigate Rosse, e nella connessa “legislazione dell’emergenza”, entrambe avallate e sostenute soprattutto dalla Dc e dal Pci.
Se poi qualcuno pensò di controllare e usare personaggi come Marco Barbone allo scopo di giungere alla colonna milanese delle Br, fece male i conti rispetto alla cultura politica dei brigatisti rossi di quel tempo.
Agli occhi delle Br, almeno dal 1976 al 1981, radicali e socialisti, il cosiddetto “partito della trattativa”, apparivano come le forze istituzionali in grado di proporre dignitose soluzioni politiche, ad esempio nel 1978 durante il sequestro Moro e, tra la fine del 1980 e l’inizio del 1981, nel corso del sequestro D´Urso.
Nella primavera del 1978 lo stesso Walter Tobagi aveva collaborato strettamente con Giannino Guiso, avvocato a quel tempo di alcuni brigatisti rossi detenuti, e fu una delle poche persone che in Italia fece pubblicare tutte le notizie utili per una soluzione politica rispetto al sequestro di Aldo Moro. Di conseguenza, era del tutto improbabile che le Br potessero aprire spazi o varchi ad esperienze come quelle vissute da Marco Barbone.
Rocco Ricciardi continuò nel frattempo a dare informazioni all’antiguerriglia.
Ad esempio, come ha riferito l’ex carabiniere Covolo in una udienza del 11 luglio 2007 presso il Tribunale di Monza, Rocco Ricciardi “ci fece pedinare il Serafini Roberto con il Pezzoli Walter, che poi purtroppo furono oggetto di conflitto a fuoco.”
Questa affermazione, mai smentita dai carabinieri e dallo stesso Rocco Ricciardi, era senza dubbio vera e come tale bisogna considerarla anche oggi.
Serafini e Pezzoli erano i due brigatisti rossi che furono uccisi dai carabinieri la sera dell’11 dicembre 1980, in via Varesina, a Milano. Ricciardi aveva detto che Serafini, ex militante delle Formazioni Comuniste Combattenti e suo ex amico. era un buon tiratore e per questo motivo non ci fu alcun tentativo di arresto ma una mattanza nella quale, oltre ai due brigatisti, morì pure un cane.
In pratica, la lotta dello Stato contro il sovversivismo e il brigatismo rosso a Milano e in Lombardia, tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, fu condotta attraverso infiltrati come Rocco Ricciardi e il controllo di gruppetti come quelli di cui fece parte Marco Barbone dalla primavera del 1979 in poi.
L’antiguerriglia si avvalse anche delle “leggi dell’emergenza” a favore dei “pentiti”, ma se Marco Barbone ebbe un altissimo “potere di contrattazione” fu perché, come ben sapevano i vertici dei carabinieri, il “pentito” avrebbe potuto accusare subito Rocco Ricciardi, ma quest’ultimo doveva ancora dare il proprio contributo per giungere alla colonna milanese delle Br.
Fatto che avvenne nella sanguinosa giornata dell’11 dicembre del 1980.
Ultima modifica: 28 Maggio 2020, ore 13:03 stampa


lunedì 20 aprile 2020

Immuni

Il 4 maggio è stato programmato, sebbene ancora in modo ufficioso, l’inizio della Fase 2, che significa apertura del sistema produttivo e progressivo allentamento delle misure sociali di lockdown. La situazione da cui si parte non sarà di piena sicurezza. Bene che va, avremo ancora più di mille persone in terapia intensiva, decine di migliaia di persone malate in evoluzione e almeno 250 decessi al giorno. Il virus, scappatoci di mano a febbraio, non è stato ancora ripreso. In effetti le premesse per riaprire non ci sono, se non in alcune, poche regioni, come Umbria, Basilicata, Molise e forse Calabria, dove l’epidemia o non c’è stata o è sotto controllo. Il governo per garantire la sicurezza sta decidendo se rendere o meno obbligatoria l’installazione della App “Immuni” con la quale tracciare i contatti dei cittadini ed essere in grado di avvertire i soggetti in caso di positività di uno dei contatti nei tre giorni precedenti. L’App si affiancherebbe alle misure di distanziamento sociale, al contingentamento delle presenze nei trasporti e dentro i negozi e al rispetto delle norme di sicurezza anti Covid-19 nei luoghi di lavoro, oltre al mantenimento dello smartworking dove possibile.
    Non sembra che, messa così, il governo stia per garantire sicurezza. Con una epidemia ancora in corso nelle regioni più industrializzate, la certezza di perdere nuovamente il controllo del virus è più che concreta. Secondo modelli matematici che fino ad oggi hanno avuto margini di errore minimi, come quello messo a punto da alcuni ricercatori e consultabile al sito https://www.predictcovid19.com, se si allentassero le misure di lockdown da maggio a luglio in Italia si avrebbero 20.000 decessi in più rispetto al mantenere. Ieri il “Corriere della sera”, nel dare notizia di questo studio equivocava completamente le argomentazioni degli studiosi, affermando che «sarebbero solo i primi 17 giorni successivi all’applicazione delle misure di contenimento a determinare l’entità della diffusione del contagio nella pandemia di Covid-19, che sembrerebbe dipendere dunque esclusivamente dai focolai divampati per caso nei primi giorni (come quello successo all’ospedale di Codogno o la partita Atalanta–Valencia) e non dalle differenze nel rigore del lockdown. Di conseguenza, qualsiasi misura restrittiva applicata dopo i primi 17 giorni (come la chiusura delle industrie o i divieti alla libertà di movimento dei cittadini) inciderebbe poco o nulla sull’andamento dei contagi e sul numero finale delle vittime». Niente di più sbagliato; lo studio afferma che i suoi modelli matematici si basano sulle progressioni numeriche dei primi 17 giorni dopo il lockdown, ma insiste sulla grande differenza che comporterebbe una apertura prima del tempo, dati quei numeri. Delle stesse ore è un articolo uscito sul “Sole24ore” a firma di Paolo Becchi e Giovanni Zibordi intitolato “L’economia ferma e il dubbio sui decessi in Italia”. Il pezzo, dal quale la redazione del Sole ha preso le distanze con un comunicato sindacale, raddoppia le previsioni del calo di PIL rispetto a quelle dell’FMI, parlando del 20%, afferma che in Italia si sia avuta una chiusura del tipo di Wuhan, mentre è vero che il 52% delle aziende ha proseguito a funzionare, e sostiene che secondo l’Istat in Italia i decessi siano diminuiti rispetto agli anni precedenti. Non voglio neanche entrare nella polemica su questi ultimi dati, limitandomi a ricordare i conteggi svolti nelle anagrafi della provincia di Bergamo che hanno evidenziato un aumento di decessi rispetto al passato superiori al 100%.
    A questo punto appare necessario ricordare che l’Italia ha fino ad ora registrato 23660 decessi per Covid-19 in meno di due mesi e che assieme a Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna, Francia, Turchia, Iran, Russia e Belgio al momento non controlla l’epidemia. Per ripartire, dunque, servirebbe controllarla o, quantomeno, la certezza di una convivenza il più possibile sicura con il virus. A parte il distanziamento sociale, il divieto di assembramento e riunione e il contingentamento degli ingressi nei negozi e nei mezzi pubblici, come detto all’inizio è stata adottata una App, Immuni, che si sta pensando di rendere obbligatoria. L’App registrerebbe i dati in modo anonimo, ma la sua obbligatorietà avrebbe ripercussioni importantissime sulla libertà personale. Un cittadino che volesse prendere un mezzo pubblico, infatti, oltre a vedersi controllata la temperatura corporea, dovrebbe poter mostrare il contenuto del proprio telefono agli addetti ai controlli, o a un poliziotto in strada mentre cammina. Si protrarrebbe, in altre parole, lo stato di limitazione della libertà personale che già dura da più di un mese per il lockdown. Ma con il lockdown tutti abbiamo rinunciato a parte della nostra libertà al fine di salvare vite umane, alleggerire la pressione sul sistema sanitario e non ammalarci. Limitazione in cambio di sicurezza. Nel caso della App, invece, non solo aumenteremo in modo esponenziale i decessi, non solo rischiamo di farci nuovamente sfuggire di mano il virus proprio ora che stiamo per riprenderlo, ma non riceviamo in cambio alcuna sicurezza. Nessuno, infatti, mi garantirebbe di non incontrare il virus in un vagone di un treno; l’unica cosa è che se qualcuno si ammalasse tra i passeggeri nei tre giorni successivi, sarei avvisato. A quel punto, poi, che succederebbe? Qualcuno potrebbe violare il mio domicilio e costringermi a seguirlo in quarantena? Garantire circa 20.000 decessi e allargare ancora di più la rinuncia alla propria libertà personale perché riprenda la produzione, non mi sembra una grande idea. Non vorrei sentirmi complice di una strage in nome del capitale e preferirei, allora, continuare a sacrificarmi per salvare altre vite e portare a zero i contagi, cosa che avverrebbe, se mantenessimo il lockdown, solo alla fine di giugno anche in Lombardia e nelle Marche. Il 19 aprile il nuovo presidente di Confindustria, Bonomi, ha dichiarato che “il lavoro è salute”; in questa fase così drammatica risuona sinistro e ricorda altri slogan, mentre il governo ci offre una App che non salva, mettendo tutti nuovamente in pericolo.

La fase 2 e il futuro che ci aspetta


Perché ripetere che la malattia Covid-19 muterà la nostra vita per sempre? Non lo sappiamo. La sta cambiando adesso, ma per il futuro non esiste nessuna certezza.
    Stanno morendo persone che senza il coronavirus sarebbero rimaste in vita; secondo i dati Istat diramati il 17 aprile 2020, in alcune zone dell’Italia la mortalità tra il primo marzo e il 4 aprile è aumentata del 20% rispetto alla media dello stesso periodo degli anni 2015-2019. Dall’inizio dell’epidemia nel nostro paese e fino al 17 aprile sono decedute ufficialmente 22.745 persone, con il coronavirus o per il coronavirus, differenza che per il nostro discorso è di scarso rilievo. Per queste persone e per i loro familiari la vita è cambiata e per questi ultimi sarà segnata per sempre. Lo stesso accade per quanti si sono ammalati in maniera grave e sono riusciti a guarire, affrontando settimane di paura e di incognite. Non ne conosciamo il numero, ma si tratta di decine di migliaia di persone. Tutti gli altri, tralasciando coloro che si sono ammalati in forma lieve, hanno visto cambiare le loro vite perché costretti a restare nelle proprie abitazioni per un tempo lungo, circa due mesi; tutti, a volte in maniera inconsapevole, hanno contribuito a salvare un numero non basso, sebbene imprecisato di vite, perché grazie al loro sacrificio la corsa del virus è rallentata e il fattore R0, ossia il tasso di contagiosità, è precipitato in febbraio in zone come la Lombardia da circa 3 a poco più di 1. Il pericolo, però, mentre scrivo non è ancora passato, perché fino a quando non scenderà sotto l’1 vivremo la minaccia, anzi, la certezza, che in un tempo relativamente breve il nostro sistema sanitario si ingolferà ancora, provocando una nuova emergenza. La nazione, dunque, ha dimostrato maturità e responsabilità, aderendo a richieste inedite per salvare vite. Le violazioni amministrative registrate in questo periodo sono marginali.
    Quale è stato il prezzo pagato a livello di diritti? L’articolo 13 della Costituzione afferma che la libertà personale è inviolabile e non sono ammesse forme di detenzione, ispezione o perquisizione, né di restrizione della libertà, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. Il lockdown, invece, è stato deciso per decreto e non in forza a una legge dello Stato, tanto che la sanzione penale per i trasgressori prevista inizialmente costituì un atto incostituzionale che dovette essere corretto successivamente, trasformandola in ammenda amministrativa. Non è un dettaglio, perché illustra il grado di conoscenza delle norme da parte dei tecnici che hanno lavorato al decreto e dei politici che lo hanno avallato. Politici, peraltro, che sono in alcuni casi accademici del diritto. Pazienza, nel caos delle prime settimane anche qualcosa che non dovrebbe accadere, può succedere. L’importante è averlo corretto in tempo. Ma è anche e soprattutto importante che la cittadinanza si sia unita nel salvare vite e che si sia riusciti nell’intento. Cosa è accaduto nel frattempo? Lasciamo da parte la questione delle dispute tra regioni e governo centrale e vediamo se noi cittadini, che abbiamo rinunciato a un diritto costituzionale per soccorrere altri cittadini più deboli, siamo stati trattati come tali. Alcuni governatori, così come alcuni sindaci, si sono prodigati per manifestare in maniera forte la loro determinazione a mantenere tutti chiusi in casa nel rispetto delle nuove regole. In che modo? Rispettando i loro concittiadini-elettori o facendoli sentire degli “untori” volontari?
    Il presidente della regione Campania, Vincenzo de Luca, ha dichiarato il 20 marzo 2020 quanto segue: «mi arrivano notizie che qualcuno vorrebbe preparare la festa di laurea. Mandiamo i carabinieri, ma li mandiamo con i lanciafiamme». Cosa voleva dire? Che aveva il potere di interrompere una festa di laurea (presunta) inviando egli stesso i carabinieri? Che le persone che stavano organizzando la festa di laurea meritavano di essere bruciate vive? Che bastava la minaccia, anche se pesante, di bruciare loro la casa? Non lo sappiamo. Nessun presidente di regione, però, ha il potere di inviare in una casa privata i carabinieri, specialmente se armati di lanciafiamme. Attilio Fontana, suo omologo lombardo, lo stesso giorno si è scagliato contro la categoria dei podisti, che all’inizio della quarantena è stata ritenuta da politici e da parte dei mezzi di informazione come possibile responsabile dell’aumento dei casi di Covid-19; nel corso di una telefonata con il presidente del consiglio, Conte, egli avrebbe affermato di aver chiesto un «massiccio utilizzo dell'Esercito come presidio, insieme alle forze dell'ordine, per garantire il ferreo rispetto delle regole vigenti, partendo dalle 'corsette' e dalle passeggiate in libertà». Eppure nessun intervento del governo centrale ha mai vietato l’attività motoria all’aperto, limitandola in seguito al giro del palazzo a causa delle richieste, a mio giudizio assurde, di molti presidenti di regione. Fatto sta, al di là del merito riguardante la possibilità di un runner di infettare qualcuno in una strada poco frequentata, che anche in questo caso si chiede un intervento repressivo, addirittura dell’esercito con il supporto della polizia giudiziaria, per garantire “il ferreo rispetto” di regole limitative della libertà personale alla quale, è bene ripeterlo, noi cittadini abbiamo rinunciato volontariamente per salvare vite.
    In occasione della Pasqua ancora Fontana ha diffuso un video in cui, rivolgendosi ai lombardi, si è espresso nel modo seguente: «Amici, le giornate sono belle, la primavera è iniziata la voglia di uscire è tanta. Ma non si può. Non si può ancora, non abbiamo ancora raggiunto nessun obiettivo. Dobbiamo concludere la nostra opera […]. Vi prego ed insisto, non uscite di casa». Proprio a ridosso della stessa festività un’altra amministratrice locale, la sindaca di Roma Virginia Raggi, aveva dichiarato in un twitter: «A Roma potenziati i controlli della Polizia Locale per le festività di Pasqua e Pasquetta. Verifiche ci saranno anche di notte. Se fate i furbi vi pizzichiamo. Non vanifichiamo tutti i sacrifici fatti finora. Non è il momento di abbassare la guardia». Il termine “furbo” appare ricorrente nei suoi twitter. Lo aveva usato il 21 febbraio scorso: «I ricavi di Atac continuano a crescere, di pari passo con la lotta ai furbetti che non pagano il biglietto». E l’11 aprile, sui buoni spesa: «Vorrei fosse chiara una cosa: nessuno pensasse di fare il furbo sui buoni spesa, perché vi becchiamo. Facciamo controlli molto scrupolosi sulle dichiarazioni che ci arrivano. Se sono false ce ne accorgiamo».
    Questo tipo di interventi manifestano un paternalismo non giustificato nei confronti di quelli che, a seconda del momento, sono chiamati concittadini, elettori, romani, italiani, lombardi e, anche, furbetti. Tutti, indistintamente, proiettando nel futuro immediato il giudizio su un loro eventuale errore. Manca sempre il necessario distacco verso il cittadino e il rispetto per il suo senso di responsabilità dimostrato con coscienza in questo tempo in cui il primo fine è salvare vite. Ma lo è veramente, e lo sempre?
    Nella settimana seguente la Pasqua si è cominciato a discutere di fase 2. Cosa è la fase 2 e quali sono le condizioni? La fase 2 è il periodo successivo al lockdown, in cui riprenderanno le attività economiche ma il virus non sarà scomparso e quindi nessun lavoratore sarà veramente garantito. I numeri, che sono stati giustamente ricordati dai presidenti di regione in molte occasioni, sono così differenti da pochi giorni o da una o due settimane fa, da prospettare una riapertura a breve?
     Non sembra. Intanto, come si è detto, R0 deve essere minore di 1 per consentire una riapertura che non metta nuovamente in crisi in breve tempo il sistema sanitario, e ancora non ci siamo. In secondo luogo, i dati quotidiani non si discostano molto da quelli del passato, se non per un elemento non secondario, ma che da solo non basterebbe a farci allentare la chiusura, quello delle terapie intensive, in calo da alcuni giorni. Prendiamo i numeri dei decessi, senza porci il problema se siano sottostimati, come molti dicono: un mese fa, il 16 marzo, erano stati 349 e il 17 marzo 345; il 16 aprile 525, il 17 aprile 575. Il 27 marzo è stato il giorno che ha registrato più decessi: 919; dopo è cominciata una irregolare discesa fino al 12 aprile, con 431, ma dal 13 sono nuovamente aumentati sempre abbondantemente sopra i 500. Non siamo fuori dall’emergenza e forse siamo appena entrati nella fase di plateau. I decessi, così come i positivi ufficiali, salgono e scendono in modo irregolare. Tra l’altro, abbiamo capito con molto ritardo, perché non siamo stati informati prima, che i nuovi positivi corrispondono in linea di massima ai nuovi ricoveri di persone già malate da tempo che si trovano in casa con sintomi meno gravi, senza essere tamponate, e che di giorno in giorno peggiorano. Non sappiamo, invece, la percentuale, tra quanti escono dalle terapie intensive, di persone decedute o migliorate; né conosciamo il loro numero assoluto e il numero di quanti, peggiorando, entrano quotidianamente in terapia intensiva. Dunque, se da una parte i cittadini sono trattati come furbetti potenziali untori senza senso di responsabilità e pronti a vendere la pelle del vicino per una passeggiata in più, dall’altra non sono informati in modo preciso da chi avrebbe il dovere di farlo sulla reale evoluzione dell’epidemia.
    Grazie a questa ignoranza generalizzata, la fase 2 viene prospettata in modi diversi; sarà un periodo lungo, si dice, in cui dovremo convivere con il virus, in cui ci saranno nuovi focolai mentre ognuno di noi sarà seguito, contingentato, limitato nei movimenti, controllato nelle sue condizioni di salute, multato in caso di violazione di una nuova norma. Dal punto di vista della limitazione della libertà personale, la fase 2 si presenta come il proseguimento della fase 1 con altri mezzi. Sarà determinante per cambiare le nostre esistenze? Cerchiamo di capire cosa intendiamo con la parola “cambiamento”. Se intendiamo che le nostre esistenze saranno limitate nel diritto costituzionale che riconosce come inviolabile la libertà personale, sì, sarà così. Se, invece, intendiamo che la fase 2 e il mondo che ci aspetta durante e dopo sarà diverso, la risposta è no. La fase 2, verso la quale spinge da tempo Confindustria e diversi dirigenti politici locali specialmente al Nord nelle regioni più colpite e quindi meno sicure, non è pensata per permettere al cittadino di fare una passeggiata al parco con amici o figli ma per rimettere in moto la macchina produttiva del paese, con la promessa, impossibile da mantenere, di impiegare la forza lavoro nel rispetto di norme sanitarie aggiuntive a quelle di sicurezza che già dovrebbero essere presenti nei luoghi di lavoro. Si tratta di un ponte pieno di incognite verso la fase 3, quella del vaccino o più probabilmente della cura, che permetterà di tornare al dicembre 2019, quando tutto potrà ricominciare come prima. In questo modo la presa di coscienza di quanto sta accadendo, ossia che stiamo salvando ogni giorno migliaia di vite, che lo stiamo facendo tutti insieme e che questo è il nostro principale dovere e merito, passerà in secondo piano. Lo Stato non interverrà in soccorso delle famiglie in difficoltà, perché “permetterà” loro, a rischio della vita, di tornare a lavorare; anzi, toglierà loro il merito del grande sacrificio fatto, di aver impiegato la propria libertà a favore degli altri, e farà credere che tutto si risolva con la ripresa delle attività produttive. Porterà esempi, attraverso i mezzi di informazione, raccontando che in fondo si rischia la vita anche in autostrada e non per questo si vietano le automobili, e si disimpegnerà dal dovere di curare i malati e proteggere i deboli, lasciando che il virus circoli liberamente purché il PIL riprenda a crescere fino al raggiungimento (ma nessuno sa con certezza se esistono le premesse scientifiche) della immunità di comunità, o fino alla scomparsa del virus per un qualche colpo di fortuna.
    Stando a casa e osservando bene la vita, però, ci stiamo accorgendo che non abbiamo bisogno di vestiti nuovi, di scarpe, di Europa e di Banche centrali, del campionato di calcio e degli aerei, forse neanche delle vacanze. Non abbiamo bisogno neanche di trasporti locali contingentati, di controlli della temperatura costanti o di plexiglas nei bar e nei luoghi di ritrovo. Tutto quello che ci viene presentato come parte della fase 2 è irrealizzabile da un punto di vista organizzativo, a meno che non si rinunci alla propria libertà personale a tempo indeterminato, ponendola nelle mani di chi fino ad ora non ha dimostrato rispetto per la nostra volontaria rinuncia.
    Se vogliamo davvero che questa vicenda muti le nostre esistenze, dobbiamo prendere coscienza del valore del nostro sacrificio e sapere che ogni giorno passato in casa ha contribuito a quanto di più grande e profondo possa fare un essere umano per un altro essere umano; che questo è il grande aumento di PIL nel 2020, e che il nemico non è il virus ma sono quei politici che continuano a non rispettarci, a trattarci da volgo e a convincerci che il lavoro e la produzione sono più importanti della vita stessa. Se non capiremo ciò, tutto questo dolore non sarà servito a cambiare né noi, né il mondo che sta arrivando.

sabato 2 giugno 2018

LA FINE E L'INIZIO. LABORATORIO ITALIA



L’Italia è di nuovo laboratorio politico. Se ci fermiamo alla fine della guerra fredda, abbiamo avuto Berlusconi e una certa idea di democrazia e di potere, un’idea che ha messo in crisi l’opposizione, convinta di combatterlo sul piano giudiziario, lasciando ampi spazi politici alla magistratura, ma anche a altre potenziali forze politiche, che hanno trovato uno sviluppo impressionante negli ultimi dieci anni. Oggi siamo punto e capo, ma con la differenza, positiva, che la magistratura non ha più lo spazio degli anni berlusconiani. Al potere ci sono forze sovraniste (un nuovo modo di chiamare il nazionalismo novecentesco, di cui sono l’evoluzione), e populiste. Chiariamo cosa si debba intendere con questa ultima espressione, perché se ne sono sentite di ogni. Non c’entra nulla il populismo russo del XIX secolo, il “narodnichestvo”, al quale si sono richiamati alcuni importanti giornalisti. Senza entrare in lezioni di storia, quello era un piccolo movimento di persone illuminate che esortavano una “andata al popolo” (un popolo a loro abbastanza alieno) per trarlo fuori dalla propria ignoranza.
Oggi le forze populiste sono sostenute dal popolo, dalla gente, che di fronte a problemi sociali enormi, come la disoccupazione, la povertà e l’emarginazione ha trovato risposte facili: «sono i politici che rubano, sono gli immigrati che ci tolgono lavoro, è l’Europa che ci opprime». Le due forze che rappresentano in modo diverso queste istanze sono ad oggi il più vecchio partito italiano (Lega), con un presidente a vita - Bossi -, e un movimento nuovissimo, i 5S, che è un marchio registrato della Casaleggio Associati, che può concedere a chiunque il logo e la lista, ma può anche toglierlo in qualsiasi momento. È un nuovo modo di far politica alleato alla tradizione della Lega. Ma anche la Lega parla direttamente ai propri elettori in una sorta di campagna elettorale permanente. L’organizzazione della macchina propagandistica è fondamentale e la crisi dell’intermediazione (i politici rubano) è sostituita con una sorta di democrazia diretta (altro elemento di populismo) che si muove all’interno degli umori immediati della gente. A coordinare il tutto - un primo ministro sconosciuto fino a poche settimane fa, la figura ideale per dimostrare ai propri sostenitori che in fondo l’esperienza non serve, che il politico di professione (ricordate Berlusconi?) è un male non necessario e che se si è onesti e si segue un programma tutti possono fare tutto.
In questo contesto di democrazia diretta alle piazze e ai mercati della Lega si sono affiancati i social media, che non sono altro che la forma ultramoderna del megafono da piazza: dirette facebook e tweet hanno contribuito a cambiare paradigma e fase di sviluppo, al punto che il presidente della repubblica è stato accusato di tradimento attraverso una telefonata a Fabio Fazio. Almeno Berlusconi lo aveva chiamato, ormai secoli fa, per protestare contro di lui e il suo modo di condurre. Oggi si è lasciato usare come megafono. 
Non esiste un ministero propaganda solo perché non ce n’è più bisogno. La comunicazione è libera e inarrestabile.

Da un punto di vista politico vedremo cosa vorrà fare questo governo Jamaica. Il primo obiettivo del neo ministro Salvini è l’aumento degli stipendi della PS e la caccia agli immigrati clandestini: legge e ordine, ovviamente a discapito dei più deboli. Poi c’è lo stop alle grandi opere: Barbara Lezzi, ministro del Mezzogiorno, vuole la chiusura del Tap. Il gasdotto in costruzione che arriva in Puglia e i cui lavori sono stati contestati da una parte della popolazione.

Quindi si cercheranno i fondi per la riforma fiscale e per il reddito di cittadinanza, mentre il rapporto con l’Europa è tutto da scrivere.

Nel frattempo, l’opposizione è inesistente, priva di bussola, ritardataria, isterica e risentita, ma di slogan e ideologia straripano i fiumi della storia. Oggi servono idee e iniziative.

martedì 29 maggio 2018

LA MARCIA SULLA REPUBBLICA


LEGA e 5S stavano colpendo  le nostre istituzioni: hanno delegittimato  il ruolo del parlamento. Questa crisi è stata tutta extraparlamentare; i presidenti delle camere non hanno detto una parola, i capigruppo neanche; ruolo: meno di zero. 
Hanno delegittimato il ruolo del presidente del consiglio. Uno qualunque vuole dire: ci può andare anche il mio vicino Totoro. Non è lì che si decide. Stavano delegittimato il ruolo del presidente della Repubblica: prima imponendo Conte, poi non cedendo su Savona, provocando Mattarella e mettendolo in un angolo.  Se il capo dello stato cedeva su Savona non contava più niente, e con lui il suo ruolo. 
Dopo 20 minuti dal fallimento di Conte sono partite le prime ipotesi di impeachment. Una reazione immediata, politicamente grave, anche se costituzionalmente prevista.
Si è aggiunto, quindi, il richiamo a Roma per il 2 giugno, la festa della Repubblica. Mentre ai Fori Imperiali sfileranno i carri e i militari, di fianco ci saranno i 5S con le bandiere italiane contrapposte a Mattarella e a questa Repubblica. 
 Siamo di fronte a una spaccatura netta del paese sul nostro futuro. Il nostro modo di pensare, i nostri valori, il nostro rapporto con le istituzioni sono messe in discussione dai sostenitori di uno Stato etico nel quale pochi hanno in tasca i paradigmi di convivenza mentre il popolo bue li segue. Scardinando l'euro e costringendo Roma a uscire dall'UE si mette il paese in ginocchio economicamente. Chiuderanno le frontiere prima ai capitali, poi alle persone. La povertà spingerà il popolo a chiedere un governo ancora più forte in grado di proteggerle dal nemico esterno. Prima erano i migranti, poi la politica europea che permetteva gli sbarchi, infine gli stranieri europei di Berlino e Parigi. Il nemico esterno è impalpabile, inosondabile, invisibile e dunque sempre presente, dunque sempre minaccioso. Un paese già impaurito avrà sempre più timore e sarà manipolabile più facilmente. Il 2 giugno i 5S e i Leghisti non vanno a difendere la costituzione ma a darle una prima spallata sfidando il Quirinale a casa sua nel suo giorno. È la prima marcia sul colle, alla quale ne seguiranno altre. Prepariamoci a difenderci.

MC

lunedì 26 marzo 2018

VIA FANI. L'AVVOCATO DI FAMIGLIA


Via Fani, quando l’avvocato della famiglia Ricci accusava Moro «per la nauseante puzza di petrolio che si sentiva in aula»


Rivelazioni – Il carteggio tra l’avvocato Edoardo Ascari, legale della famiglia dell’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci e il Vice comandante dell’Arma dei carabinieri, generale De Sena. Un inedito che apre nuovi squarci sulla genesi del paradigma vittimario



(Acs, Migs, Busta 11, E. Ascari, Lettera al Vice comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Generale Mario De Sena, p. 3)
Era franco e diretto l’avvocato Edoardo Ascari, autore delle parole indicate nel riquadro, scritte per conto della signora Maria Rocchetti, vedova dell’appuntato dei Carabinieri Domenico Ricci ucciso la mattina del 16 marzo 1978 in via Fani da un gruppo di fuoco delle Brigate rosse mentre conduceva la Fiat 130 con a bordo il presidente del Consiglio nazionale della Dc Aldo Moro. Originario di Modena, ritenuto un principe del foro, ex ufficiale degli alpini scampato alla campagna di Russia, difensore storico dell’Arma dei Carabinieri, Ascari è scomparso nel 2011 all’età di 89 anni. I cronisti della giudiziaria lo consideravano uno dei “quattro moschettieri” dell’avvocatura, insieme a Franco Coppi, Vittorio Chiusano e Gioacchino Sbacchi. Nella sua lunga carriera di penalista, oltre al processo Moro aveva seguito altre importanti vicende giudiziarie che segnarono la storia della prima Repubblica: nel primo dopoguerra si era occupato dei procedimenti contro i partigiani accusati delle uccisioni di ex esponenti del regime fascista nel cosiddetto “triangolo della morte” (Castelfranco, Manzolino, Rastellino), successivamente patrocinò le parti civili nel giudizio sul disastro del Vajont, sostenne anche i parenti di undici dei sedici morti nella strage fascista di Piazza Fontana, prese parte al processo per il sequestro dell’Achille Lauro da parte di un gruppo di guerriglieri palestinesi, partecipò al giudizio sulla morte del commissario Calabresi e difese Giulio Andreotti, insieme a Franco Coppi, accusato della morte di Mino Pecorelli.
Ma torniamo al 6 dicembre 1985 quando, incassata da pochi settimane (il 15 novembre 1985) la sentenza di Cassazione che metteva fine all’iter giudiziario del primo processo Moro, nel quale erano confluite le istruttorie Moro 1 e 1 bis, confermando per i 57 imputati chiamati a giudizio i 22 ergastoli pronunciati in appello, sommati ad altre centinaia di anni di carcere (per 17 di loro ci fu un rinvio in appello per una nuova rideterminazione della pena), l’avvocato Ascari scriveva una lettera al Vice comandante dell’Arma dei carabinieri, Generale De Sena, lamentando il comportamento delle altre parti civili.
Nella missiva contestava la posizione minimalista tenuta dagli avvocati Fausto Tarsitano, Guido Calvi, Giuseppe Zupo, Armando Costa, Luciano Revel e Antonio Capitella, che su mandato del Partito comunista – secondo quanto scrive Ascari – avevano rappresentato nel processo gli interessi dei familiari degli agenti di polizia Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino e Giulio Rivera, oltre che della famiglia del giudice Palma. In sostanza, il legale della famiglia Ricci, a sua volta incaricato dall’Arma dei Carabinieri, riteneva che «gli avvocati di ubbidienza comunista» avevano operato nel corso del processo «in modo da non danneggiare le tesi del loro partito […] avendo il Pci sposato la causa di pentiti e dissociati», come sintetizza il rapporto [pubblicato a fine articolo] che accompagnava la lettera di Ascari, redatto il 23 dicembre 1985 dal II Reparto dello Stato maggiore, Ufficio criminalità organizzata dei Carabinieri, testo che porta, tra gli altri, timbro e sigla dell’allora Capo sezione coordinamento, tenente colonnello Mario Mori (Acs, Busta 11).
Scriveva Ascari:
«Anzitutto i patroni delle famiglie degli Agenti di P. S. Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera – Avv.ti Tarsitano, Calvi ed altri – hanno semplicemente letto le loro conclusioni senza discuterle. Il fatto è che il P.C.I., che era il vero mandante – era dalla parte dei “dissociati” e dei “pentiti” e, quindi, l’Avv. Tarsitano e i suoi colleghi hanno preferito ubbidire agli ordini del Partito che li pagava, anziché ai doveri che loro derivavano dal mandato ricevuto, almeno formalmente, dalle famiglie degli Agenti di P.S. assassinati».
A questo punto il legale della famiglia Ricci rivelava al Generale De Sena un episodio accaduto prima dell’avvio del processo Moro in Corte d’Assise, nel 1983:
«Desidero qui ricordare che la cosa, da me largamente prevista, dette luogo a un aspro – molto aspro – scambio di “opinioni” tra il Gen. Corsini [capo di Stato maggiore dell’Arma dei Carabinieri] e l’allora Ministro dell’Interno Rognoni: l’episodio accadde quando io segnalai che il P.C.I. si era attivato avvicinando le famiglie degli Agenti, lasciate sole, sussidiandole e promettendo loro ogni assistenza gratuita».
Nella seconda parte della lettera Ascari rivendicava a sé (escludendo polemicamente tutte le altre parti civili, compreso il collega patrocinante la vedova del maresciallo dei carabinieri Leonardi) il merito di aver condotto la Suprema Corte, presieduta per l’occasione da Corrado Carnevale, a rivedere la propria giurisprudenza restrittiva sulla disciplina del concorso morale, estendendola «ai capi promotori» per i delitti commessi dagli altri associati sulla semplice base di questa «loro qualità». Impostazione che in due precedenti sentenze non era stata recepita dai giudici di Cassazione.
La corte d’Assise, presieduta da Severino Santiapichi, aveva comminato ben 32 ergastoli. Sempre in primo grado vennero inflitte 27 condanne per un episodio mai avvenuto [leggi qui, qua e ancora qui], come i fantomatici spari che da una moto sarebbero stati indirizzati contro Alessandro Marini, un occasionale passante che transitava all’incrocio tra via Fani e via Stresa. Nel successivo giudizio di appello, una più attenta definizione delle responsabilità personali e l’applicazione della legislazione premiale sulla dissociazione e la collaborazione permisero una parziale riduzione del numero degli ergastoli e dello stratosferico monte pene iniziale.
Ma è la parte finale della lettera che riserva le maggiori sorprese:
«Per quanto riguarda i patroni della famiglia Moro, il loro comportamento è stato vicino alla vergogna.
Infatti, essi hanno chiesto sostanzialmente alla Corte di dichiarare che Moro era un brav’uomo – il che non è, anche per la nauseante puzza di petrolio che si sentiva in aula – e che i terroristi, poi, in fondo, andavano “compresi” nelle loro motivazioni e nei loro “retroterra culturali”.
Quanto, poi, ai dissociati, il perdono della famiglia doveva portare con sé tutti gli altri perdoni umani e divini.
Per dire le cose da vecchio alpino, uno schifo».
Ascari non risparmiava parole per censurare la linea processuale dei legali della famiglia Moro, accusata di avere avuto attenzione solo per la tutela della onorabilità dello statista e ritenuta troppo disponibile al perdono verso i dissociati. Attaccava pesantemente la stessa figura del leader democristiano, alludendo al suo coinvolgimento nello “scandalo petroli”, un gigantesco giro di frodi fiscali (2 mila miliardi di lire) venuto alla luce nei primi anni 80 e da cui scaturivano anche finanziamenti occulti per alcune correnti Dc. L’inchiesta e il successivo processo videro coinvolti Sereno Freato, capo della segreteria personale di Moro, altri dipendenti dello studio personale dello statista democristiano, situato in via Savoia, il capo del servizio informazioni della Guardia di Finanza, Donato Lo Prete, il Generale Raffaele Lo Giudice, Comandante generale della Guardia di Finanza, numerosi petrolieri, tra cui Bruno Musselli, grande elemosiniere della corrente politica del dirigente democristiano, molto attivo nei giorni del sequestro quando fornì la propria disponibilità a coprire una eventuale richiesta di riscatto, al pari dell’avvocato Agnelli. Alla fine dell’iter giudiziario, dopo la metà del decennio 80, Freato che trascorse anche un periodo in carcere uscì indenne dalle accuse di partecipazione diretta alla frode e alla truffa. Il processo lambì la stessa moglie dello statista democristiano. Anche se le responsabilità politiche non vennero evidenziate, l’episodio in qualche modo annunciò quanto sarebbe accaduto di lì a pochi anni con le inchieste di “Mani pulite” che travolsero il sistema politico della Prima repubblica.
Seguendo le indicazioni dell’ufficio che aveva redatto un’analisi dei contenuti della lettera, e nella quale si segnalava come Ascari sottolineasse di «essersi trovato col solo appoggio del PM a sostenere i buoni diritti delle vittime dei terroristi» (accanto alla frase si legge una glossa manoscritta, «posizione giustificabile»), e auspicasse «che il comportamento delle parti civili sia reso noto in opportuna sede», a fine anno il Generale De Sena rispose con un diplomatico ringraziamento – preparato dallo stesso ufficio – per «le notizie fornitemi» congratulandosi con il legale per il suo operato processuale. (Acs, Migs, Busta 11)
Il rapporto dell’ufficio tecnico dello Stato maggiore dei CC che analizza la lettera dell’avvocato Ascari (Acs, Migs, Busta 11):