martedì 12 marzo 2013

SESSANTESIMO DELLA MORTE DI STALIN

Lacrime e pregiudizi sulla figura di Stalin
A sessanta anni dalla morte del dittatore georgiano il dibattito storiografico è aperto. Il problema principale è quello di scindere la ricerca storica dal giudizio morale, cosa difficile in un mondo che, anche dopo la conclusione della guerra fredda, tende a dividere o unire con e attraverso l'ideologia. Gli zar, ha scritto in passato Laura Satta Boschian, sono stati tutti dei despoti, ma due di loro sono stati anche "grandi": Ivan IV il terribile e Pietro I Romanov. Non si può escludere che in un futuro si dirà la stessa cosa di alcuni dirigenti comunisti del Ventesimo secolo, ponendo l'aggettivo "grande" accanto al nome del georgiano di Gori, uno dei pochi governanti russi a non aver perduto un solo centimetro della propria terra. Il'ja Erenburg, intellettuale al di sopra di ogni sospetto, provò già negli anni Sessanta a definire la "grandezza" del dittatore, nonostante i suoi crimini, provocando la reazione del mondo del dissenso, sintetizzata in una bellissima lettera aperta di Ernst Henry pubblicata sulla rivista "Feniks 66". Erenburg fu il primo, forse all'oggi l'unico a tentare un giudizio "a-morale" sul dittatore. Eppure, lo si sa, Stalin fu "pianto" e definito "grande" dai suoi contemporanei, non soltanto sovietici e non solo comunisti: alla morte del generalissimo, per esempio, oltre la pletora di comunisti italiani che ormai tutti hanno dimenticato, il presidente finlandese J.K. Paasikivi espresse costernazione e disperazione per la gravissima perdita. Il 9 marzo 1953 fu organizzato un concerto funebre alla filarmonica di Helsinki, mentre il primo ministro Urho Kekkonen partecipò ai funerali a Mosca rappresentando con enfasi il dolore della sua nazione. Solo oggi alcuni storici dell'Accademia di Abo (Turku), K.A. Fagerholm e Max Engman, parlano di quel dolore come di "krokotiilinkyyneliin" o lacrime di coccodrillo (con un significato leggermente diverso che in italiano), lacrime false, dettate dalla situazione geopolitica (il fenomeno è noto come "finlandizzazione") che aveva fatto della Finlandia un Paese neutrale e costretto dal lungo confine con l'Urss a una politica estera remissiva e ben orientata. La documentazione originale, ora disponibile, chiarisce l'atteggiamento di Helsinki e aggiunge nuovi elementi per la ricostruzione di un epoca ormai da consegnare definitivamente alla storia fuori da pregiudizi e moralismi che contribuiscono, tra l'altro, a liberare la politica da riflessioni che sarebbero a lei maggiormente appropriate, a Mosca come altrove, ma che si preferisce delegare ad altri, operanti in campi indicati come contigui, sebbene non lo siano.

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