In ricordo di Otello Conisti:
l’ironia contro le carceri e le leggi speciali
di Sandro Padula
Martedì 11 settembre 2012. A Roma
un sole caldo illumina il Verano e le sue mura costeggianti un bel tratto della
via Tiburtina. Degli amici raggiungono il cuore del cimitero senza prendere il
bus elettrico. Li sento col cellulare. Non mi posso muovere dal posto di
lavoro. Le regole sono regole. E un semilibero non può andare ad un funerale
senza averne l’autorizzazione. Ho saputo qualcosa nel tardo pomeriggio di ieri.
Una telefonata, parole rapide a zig zag, carceri come Rebibbia Nuovo Complesso
e Bellizzi Irpino, il solito cancro, aveva lavorato con “Sensibili alle foglie”
e rivedo l’immagine sorridente del roscio Otello Conisti, un mio coimputato.
Quando potevo chiedere di partecipare alla commemorazione? Stamattina? Nel
migliore dei casi mi avrebbero risposto dopo questa giornata.
E così, pur
essendo lontano dalla Sala del Tempietto egizio, laddove stamattina si svolge
la cerimonia in modo laico,
immagino la scena. Molte persone attorno alla bara, poltroncine foderate
di velluto, qualcuno proferisce parole semplici ma sentite, alcuni si
riabbracciano per la prima volta dopo gli anni ’80 trascorsi nelle patrie
galere, altri portano delle corone di fiori.
Una piccola comunità reale,
frantumata dai mille travagli della vita e della storia, sembra ricomporsi col
ritmo solenne di un classico brano jazz. Risorge dopo lunghi tempi di frenetica
monotonia. Usa linguaggi verbali e non verbali come strumenti dei ricordi.
Chi era Otello? Sfoglio un vecchio decreto di citazione
per il processo Moro bis: Conisti Otello, nato a Poggio Fidoni 11.3.1958,
detenuto Casa Circondariale Rebibbia N.C..
Arrestato nel maggio del 1980 a
Roma, città in cui viveva da tempo, era accusato di far parte del Movimento
Proletario di Resistenza Offensivo, cioè di un’area di simpatizzanti delle Br.
Il 21 giugno 1982, nel corso del
processo Moro bis in Corte d'assise, fa prima “sapere che chi lo ha inserito
nel nuovo gruppo di «dissociati» ha preso un abbaglio” e poi dice “al presidente Santiapichi di
revocare il mandato al difensore e di non voler rispondere ad alcuna domanda” (La Stampa, 22.06.1982).
Dopo il mio arresto, avvenuto nel novembre 1982, lo
conobbi. C’era la fase finale del processo Moro bis e Otello lo ricordo con la
faccia simpatica, un paio di jeans, un maglione color arancio e uno zuccotto di lana in testa quasi per
anticipare di un ventennio l’estetica del cantante Manu Chao.
Non aveva reati di sangue o per
specifiche azioni armate ma il Pubblico Ministero Nicolò Amato propose di
donargli 18 anni di galera, una condanna superiore a quella prospettata per i
“pentiti” pluriomicidi. Due pesi e due misure.
In seguito la pena gli fu ridotta
ma trascorse in carcere il decennio successivo all’arresto.
Superò quell’esperienza con la
forza dell’ironia, del ragionamento e della volontà di costruire una nuova e
dignitosa prospettiva di vita.
Com’era di carattere? È semplice
dirlo: gioviale, scanzonato, arguto in stile romanesco. Gli piaceva giocare col
dialetto pur non essendo romano de Roma.
Mai aggressivo verso gli altri,
sempre disposto al dialogo ma fermo nei valori della solidarietà contro le
oppressioni, nella critica alle leggi premiali, nell’assunzione delle proprie
responsabilità e quindi nel rifiutare una rapida libertà mandando in galera
altre persone o facendosi attrarre dalla logica dell’abiura denominata
“dissociazione”.
In un quadro di mestizia aveva la
capacità di fare battute ironiche e produrre il buon umore anche ai più depressi.
Nel carcere di Bellizzi Irpino, dove fu catapultato a metà degli anni ’80,
diceva ad esempio e in modo salomonico: “Qui non si soffre come cani ma come
cinque canili”.
I gradi di sofferenza nelle
carceri erano da lui paragonati al numero dei canili.
Aveva ragione. Ogni carcere è
simile ad una specifica quantità di canili. Di vario grado e affollamento.
Mentre scrivo queste cose a mo’
di diario, tanto per mantenere per sempre il ricordo di Otello, un amico mi
telefona: “c’erano molte persone. Ho rivisto alcuni che lavoravano e altri che
ancora lavorano con “Sensibili alle foglie”. Parecchi ex compagni di carcere.
La moglie Mara, colleghi di lavoro di quest’ultima, e la figlia Egle di 21
anni. Sembrava che il sole di oggi volesse asciugare le lacrime e donare un
sorriso a tutti”.
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