venerdì 24 gennaio 2025

L'Egiziano Al Masry Njeem Osama

 



Rientrato in Libia con un aereo del nostro Stato, Al Masry (l'Egiziano in arabo), appare sorridente, anzi raggiante. Si comprende perché. Ha rischiato di rispondere delle accuse direttamente di fronte alla Corte penale internazionale dell'Aja, che proprio l'Italia aveva contribuito a far nascere nel 1998, ospitando a Roma la conferenza fondativa.  

    Al Masry era stato arrestato su mandato internazionale a Torino il 18 gennaio scorso. Si è trattato, evidentemente, di un errore, perché il governo italiano ha provveduto immediatamente al suo rilascio, ufficialmente per un problema procedurale. 

    La legge 237 del 2012 sulla cooperazione tra l'Italia e la Corte stabilisce che le richieste della stessa sono gestite direttamente dal ministro della Giustizia, che deve trasmetterle al procuratore di Roma perché le esegua. Quindi gli uffici di Torino, dove è stato fatto l'arresto, avrebbero dovuto informare immediatamente il ministero. L'irregolarità, banale, poteva essere corretta in breve tempo, anche perché non violava alcun diritto dell'arrestato. Così, però, non è stato e il ministro non è intervenuto. 

    Al Masry fino a oggi era un nome poco noto al grande pubblico, ma conosciuto tra le organizzazioni che difendono i diritti umani. Generale, capo della polizia giudiziaria libica, è stato accusato di torture all'interno della prigione di Mitiga, a Tripoli. La sua detenzione, però, avrebbe messo in pericolo l'accordo che l'Italia ha con la Libia sul contenimento della migrazione verso il nostro paese. Gli arresti e le torture secondo l'accusa sono stati commessi con continuità e con il suo aiuto da membri della Special Deterrence Forces, o Rada. A dire dei giudici della Corte «I crimini hanno avuto luogo nella prigione di Mitiga contro persone detenute per motivi religiosi (come cristiani o atei) o per non aver rispettato l’ideologia religiosa della Rada (comportamenti immorali e omosessualità)». Episodi, dunque, gravissimi. La corte ha raccolto testimonianze sufficienti per l'incriminazione da parte di persone scampate in qualche modo alle violenze, oltre a filmati e racconti di operatori umanitari presenti nei centri di detenzione. Accanto a questo esistono a centinaia di referti medici che illustrano stupri e violenze. Mantenere quell'accordo, siglato anni fa da un governo di centro-sinistra, vuol dire complicità nella repressione o, quantomeno, ignavia. In Italia, viene da dire, i guai si combinano sempre in coppia. O il centro-sinistra fa una legge (o conclude un accordo come in questo caso) e la destra non la cambia, specie se è liberticida, o avviene il contrario. 

    Il ministro ha dichiarato che l'espulsione è stata dovuta alla pericolosità del soggetto, che probabilmente avrebbe potuto organizzare una sala delle torture in un qualche carcere italiano, oppure avrebbe potuto arrestare cittadini innocenti, facendoli poi sparire come avviene in Libia. O forse no? Forse non glielo avremmo concesso. Nel dubbio, si è deciso per l'espulsione, che somiglia però a un rientro a casa concordato. 

    L'Italia ha commesso una serie di errori in una vicenda cominciata male e conclusa peggio. Non è la prima volta. In casi simili nel passato sono stati coinvolti criminali nazisti o persone in fuga da regimi autoritari e restituite ai loro aguzzini per superiori motivi diplomatici. 

Ne parleremo in un prossimo post. 












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