domenica 26 gennaio 2025

Aljaksandr Lukašėnka rieletto Presidente della Bielorussia per la quinta volta


 

Non poteva andare diversamente. Dopo la durissima repressione che colpì l'opposizione bielorussa cinque anni fa, Lukašėnka non teme più alcun male. Senza la minima vergogna il settantenne ultra-presidente o presidente a vita della Bielorussia viene rieletto con più dell'80% dei consensi in elezioni farsa, o non-elezioni, come più giustamente dovrebbero essere chiamate. Gli altri candidati, infatti, sono teste di legno, o ballerini di supporto, vicini al regime e che servono soltanto per dare una parvenza di verità a una pratica che di democratico non ha nulla. I cittadini sono costretti a votare, e a votare "giusto", dai luoghi di lavoro, di residenza, dalle scuole, le università ecc. 

 Lukašėnka è nato il 30 agosto 1954 a Kopyś, nel distretto di Orša,  e si è laureato in economia all'Istituto di Mahilëŭ nel 1974 (dalla giovane età del laureato, venti anni, si dovrebbe comprendere il livello della laurea, del tutto simile a quello delle nostre scuole superiori dell'epoca, e neanche delle migliori). Ha svolto il servizio militare ed è stato direttore di una azienda agricola collettiva, completando un nuovo ciclo di studi nel 1985 in agronomia. Nel 1990, approfittando delle riforme gorbacioviane, si candidò a deputato del Soviet bielorusso e in seguito fondò il partito-ossimoro "Comunisti per la Democrazia" che avrebbe dovuto guidare l'Unione Sovietica a diventare un Paese democratico seguendo i principi comunisti. Nel 1994, nella prima e unica elezione democratica della Repubblica bielorussa (6 furono i candidati al ruolo di Presidente), venne eletto presidente dopo una campagna elettorale in cui aveva denunciato la corruzione e promesso di difendere i salari dall'inflazione. Forte, a parole, fu anche l'opposizione alla privatizzazione selvaggia, che caratterizzò in quegli anni tutte le ex repubbliche sovietiche. Il paese, però, non risolse i suoi problemi principali, ossia la fortissima dipendenza dalla Russia, da dove importava gas e energia. Nel 1995, inoltre, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale sospesero i prestiti alla Bielorussia data la mancanza di riforme economiche. Le successive elezioni lo videro sempre trionfare, mentre la sua politica mise la Bielorussia nell'orbita di Mosca come stato quasi-federato, amico fedele e alleato numero uno. Questa è gente così, che pensa di essere indispensabile, di fare il bene del proprio popolo, e che se dovesse lasciare la Bielorussia cadrebbe in mano ostili. Intollerante verso il dissenso, è ormai diventato il capo di un governo criminale che soffoca ogni forma di opposizione, bloccando il paese in un inverno senza fine, osteggiando le menti più brillanti e favorendo l'ascesa di politicanti mediocri, capaci soprattutto di dare ragione al capo. Non si può mai dire, a volte le cose accadono comunque. Ma per adesso tutto lascia pensare che egli sarà presidente a vita. 











venerdì 24 gennaio 2025

L'Egiziano Al Masry Njeem Osama

 



Rientrato in Libia con un aereo del nostro Stato, Al Masry (l'Egiziano in arabo), appare sorridente, anzi raggiante. Si comprende perché. Ha rischiato di rispondere delle accuse direttamente di fronte alla Corte penale internazionale dell'Aja, che proprio l'Italia aveva contribuito a far nascere nel 1998, ospitando a Roma la conferenza fondativa.  

    Al Masry era stato arrestato su mandato internazionale a Torino il 18 gennaio scorso. Si è trattato, evidentemente, di un errore, perché il governo italiano ha provveduto immediatamente al suo rilascio, ufficialmente per un problema procedurale. 

    La legge 237 del 2012 sulla cooperazione tra l'Italia e la Corte stabilisce che le richieste della stessa sono gestite direttamente dal ministro della Giustizia, che deve trasmetterle al procuratore di Roma perché le esegua. Quindi gli uffici di Torino, dove è stato fatto l'arresto, avrebbero dovuto informare immediatamente il ministero. L'irregolarità, banale, poteva essere corretta in breve tempo, anche perché non violava alcun diritto dell'arrestato. Così, però, non è stato e il ministro non è intervenuto. 

    Al Masry fino a oggi era un nome poco noto al grande pubblico, ma conosciuto tra le organizzazioni che difendono i diritti umani. Generale, capo della polizia giudiziaria libica, è stato accusato di torture all'interno della prigione di Mitiga, a Tripoli. La sua detenzione, però, avrebbe messo in pericolo l'accordo che l'Italia ha con la Libia sul contenimento della migrazione verso il nostro paese. Gli arresti e le torture secondo l'accusa sono stati commessi con continuità e con il suo aiuto da membri della Special Deterrence Forces, o Rada. A dire dei giudici della Corte «I crimini hanno avuto luogo nella prigione di Mitiga contro persone detenute per motivi religiosi (come cristiani o atei) o per non aver rispettato l’ideologia religiosa della Rada (comportamenti immorali e omosessualità)». Episodi, dunque, gravissimi. La corte ha raccolto testimonianze sufficienti per l'incriminazione da parte di persone scampate in qualche modo alle violenze, oltre a filmati e racconti di operatori umanitari presenti nei centri di detenzione. Accanto a questo esistono a centinaia di referti medici che illustrano stupri e violenze. Mantenere quell'accordo, siglato anni fa da un governo di centro-sinistra, vuol dire complicità nella repressione o, quantomeno, ignavia. In Italia, viene da dire, i guai si combinano sempre in coppia. O il centro-sinistra fa una legge (o conclude un accordo come in questo caso) e la destra non la cambia, specie se è liberticida, o avviene il contrario. 

    Il ministro ha dichiarato che l'espulsione è stata dovuta alla pericolosità del soggetto, che probabilmente avrebbe potuto organizzare una sala delle torture in un qualche carcere italiano, oppure avrebbe potuto arrestare cittadini innocenti, facendoli poi sparire come avviene in Libia. O forse no? Forse non glielo avremmo concesso. Nel dubbio, si è deciso per l'espulsione, che somiglia però a un rientro a casa concordato. 

    L'Italia ha commesso una serie di errori in una vicenda cominciata male e conclusa peggio. Non è la prima volta. In casi simili nel passato sono stati coinvolti criminali nazisti o persone in fuga da regimi autoritari e restituite ai loro aguzzini per superiori motivi diplomatici. 

Ne parleremo in un prossimo post. 












mercoledì 22 gennaio 2025

Libertà da Orenburg al Kazakhstan


 



Roma, inizio gennaio 2025. Ricevo una telefonata da Evgenija Kulakova, che conosco da tanti anni. Abbiamo lavorato insieme dentro Memorial, collaborato, condiviso. Per anni. Mi dice che Vitja, suo marito, finalmente sta per essere rilasciato e che non sanno dove andranno a vivere. Probabilmente si recheranno in Kazakhstan, dice, dove Vitja è nato e dove vive la madre. E così è andata, per adesso. 
    Orenburg, 22 gennaio 2025. Viktor Filinkov è libero. Era stato arrestato sette anni fa con l'accusa di terrorismo. Sarebbe stato uno dei componenti li gruppo "Set'" [Network o rete] e avrebbe addirittura avuto in mente di far saltare in aria l'edificio che sulla piazza Rossa ancora oggi ospita le spoglie di Lenin. Il mausoleo, che prima del 1991 era tappa forzata di ogni turista occidentale e che dopo tale data è diventato un luogo di ritrovo per nostalgici, ma sempre turisti. Non solo. Vitja e gli altri membri di Set', in tutto una decina di ragazzi sui vent'anni, avrebbero potuto/voluto sovvertire l'ordine costituzionale [!] russo. Perché un certo ordine, in effetti, esiste. Lo vedremo. In tutto per l'affare Set' sono stati condannati dieci ragazzi, gente di sinistra, anarchici, antifascisti. Compagni, insomma. Viktor, come gli altri, negò l'esistenza stessa di questa organizzazione e fu il primo a parlare pubblicamente di tortura subita subito dopo l'arresto. Per le violenze subite inizialmente riconobbe le accuse, ma pochi giorni dopo ritrattò e denunciò i suoi accusatori. 
    Il processo si svolse a San Pietroburgo e in questa città Vitja conobbe Evgenija, militante in difesa dei diritti umani, che divenne sua difensora civica. La madre, Natalija, che come oggi viveva in Kazakhstan, aveva molta difficoltà raggiungere la seconda città russa. 
    Dopo la condanna a sette anni di lavori forzati Vitja è stato trasferito a Orenburg in una colonia penale. Ogni due mesi Evgenija lo è andato a trovare. Nel corso della prigionia ha subito percosse e centinaia di giorni di isolamento e di cella di punizione. Una volta anche per aver sorriso mentre cuciva un vestito durante le le ore di lavoro (Vitja ha fatto il sarto in cattività). Dei 40 ricorsi per maltrattamenti, 20 sono stati vinti e il giudice gli ha riconosciuto 200mila rubli.
    Nel 2023 Vitja e Evgenija si sono sposati in carcere. Appena libero, Vitja è stato accompagnato al confine con il Kazakhstan. Da lì i due ripartiranno per costruire la loro vita in libertà. 
    Proprio il Kazakhstan sta diventando in questi anni di guerra uno dei luoghi in cui trovano più facilmente ricovero persone che non condividono la politica del Cremlino, ma che non vogliono lasciare del tutto l'areale russo per l'Europa occidentale.