giovedì 14 maggio 2015

LE PAROLE DELLA SCUOLA






Boicottare le prove INVALSI in relazione a questo governo e alla sua riforma della scuola è una sciocchezza. Questo governo non ha a che fare con le prove più di quanto non ne abbiano avuto i precedenti. Sono dell'opinione, invece, che bisognerebbe ci fosse da parte di tutti una problematizzazione della questione. Che cosa testano le prove INVALSI? E perché? Quali conseguenze comportano i risultati? Che tipo di scuola e quindi anche di politica scolatisca implicano? Le prove tendono ad accertare le competenze, parola ricorrente già da qualche anno e divenuta “chiave”, tanto che gli insegnanti ora devono programmare “per competenze”. La parola può essere intesa come una serie di abilità, capacità e conoscenze complesse, ma può anche essere svilita a un semplice “saper fare” privo di contenuti. Ed è questo secondo modo di intenderla che a mio avviso sta alla base delle prove di cui parlo. L'alunno o allievo viene messo di fronte ad un problema, in senso lato, di tipo linguistico o matematico o geometrico o statistico a cui deve dare la risposta. E tutto finisce lì. Non c'è interazione tra le discipline testate, non è rischiesta la capacità di collegamento, di un ragionamento che metta a confronto diverse aree del sapere. Come se la mente fosse fatta a compartimenti stagni, a settori che non interagiscono tra loro. Come mai? Da molti anni ci siamo persi una parola molto importante nel processo educativo e di apprendimento: interdisciplinarietà. Hanno introdotto nella scuola primaria, quella che dà la forma mentis al bambino e futuro cittadino, una pluralità di maestri per singola classe sostenendo che più il docente era specializzato nella disciplina, più l'insegnamento sarebbe stato efficace. Ma questo ha fatto sì che le discipline non parlassero più tra loro (è difficile mettere d'accordo due o più teste, soprattutto quando sono abituate a lavorare per conto proprio e quando sono gelose del proprio sapere e metodo). Mi spiego: se ho un'ora di educazione all'immagine, posso fare nel contempo geometria, geografia, storia, musica e fare sviluppare al bambino capacità deduttive, basta che scelga di far loro disegnare il motivo geometrico di un vaso mettiamo greco, ma ritrovato magari a Siracusa. Come ci è finito lì? Facciamo delle ipotesi, troviamo una risposta, scopriamo la Magna Grecia, mentre disegnamo ascoltiamo musica antica. Non voglio dire che non ci siano insegnanti che operano in questo modo, certo che ci sono, ne conosco più di qualcuno e spesso vengono ripresi dai colleghi che percepiscono il loro metodo come una invasione di campo, ma non è questo il punto. Il punto è l'impostazione scolastica attuale e la formazione che ne deriva. Ci siamo persi un'altra parola a mio avviso piuttosto importante: programma nazionale. I programmi come li abbiamo conosciuti noi che siamo ormai di una o due generazioni fa, non ci sono più da qualche anno, sono stati sostituiti dalle “Indicazioni nazionali” dal sapore molto anglosassone, e che sembrano pensati per favorire la tanto sbandierata autonomia. “Indicazione” non fornisce i contenuti, dice solo cosa gli studenti devono essere in grado di fare, fornisce indicazioni appunto sul periodo da trattare, ma che cosa poi sappiano di geografia, storia, letteratura, cultura dei paesi stranieri di cui si studiano le lingue, non è affare dello stato. Ognuno ci metta quello che vuole, a seconda del territorio in cui vive. Si rischia ancora parcellizzazione, perdita progressiva dello sguardo d'insieme.
Le prove INVALSI servono, secondo alcuni, a verificare la capacità di insegnare dei docenti e a quanto pare ci credono pure loro stessi, tanto che alcuni piegano un anno di insegnamento alla preparazione ai test. Ma insegnare è faccenda molto più complessa e in questo modo si perde di vista la funzione molto articolata che la scuola deve, ma vien voglia di dire dovrebbe, avere nella formazione della persona cittadino. È svilente e dannoso per tutti. Gli insegnanti dovrebbero preoccuparsi di difendere il proprio lavoro, prima del posto di lavoro e dello stipendio, pur sacrosanti.
A corollario della prove viene allegato un questionario dal quale dovrebbero emergere dati di tipo sociologico (composizione familiare, grado di istruzione e professione dei genitori, quantità di libri non scolastici presente in casa, collegamenti a internet...), psicologico e motivazionale (come mi sento a scuola, che studente penso di essere, se sono stato oggetto di bullismo o se sono io stesso un bullo, se le lezioni di italiano sono noiose...), ed altro. In forma anonima giustamente, ma fino a che punto è giusto somministrarlo? Fino a che punto gli studenti sono sinceri in alcune risposte?
Vorrei infine capire perché certe fondazioni legate al potente mondo industriale conducano ricerche sulla scuola, un ambito così lontano dal loro e che non dovrebbe riguardali. Che cosa hanno a che fare soprattutto con la primaria? Domanda retorica, naturalmente.
Nella scuola entrano moltissime altre parole importanti, concetti e princìpi basilari e irrinunciabili di cui tutti si riempiono la bocca in questi giorni. Oggi ne ho aggiunte due che ormai nessuno nomina più, ma che stanno dalla parte di insegnanti e apprendenti.

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