martedì 17 ottobre 2017

CRONACHE DALLA RIVOLUZIONE (1)



CRONACHE DALLA RIVOLUZIONE

Dopo 100 anni siamo qui a chiederci cosa resti oggi di attuale della Rivoluzione di Ottobre. Poco, probabilmente quasi niente. Ma noi siamo storici e ci interessa di più cosa cambiò allora, in Russia e nel mondo. Comincia oggi una cronaca di quei giorni, vista attraverso gli occhi dei nostri diplomatici. Si tratta di un lavoro originale preparato per il blog e che sarà pubblicato solo su queste pagine.



Sferragliando, cigolando e stridendo 
cala sopra la Storia della Russia 
una cortina di ferro.
Lo spettacolo è finito
Il pubblico si è alzato.
E’ ora di mettersi la pelliccia e tornare a casa
Ci si guarda intorno. 
Ma non ci sono più né pellicce, né case

Vasilij V. Rozanov, un certo giorno dopo la rivoluzione


La Pietrogrado dell’ottobre del 1917 da un punto di vista iconografico era qualcosa di assolutamente originale se paragonata a quella che era stata la capitale dell’Impero zarista. Su molte statue che ne abbellivano le piazze erano state montate delle bandiere rosse mentre grandi striscioni con le parole d’ordine rivoluzionarie sventolavano dai palazzi del centro; gli stemmi zaristi con le aquile bicefale che ornavano la città erano stati tolti o, a volte, ricoperti con un telo. Dal febbraio la Russia non era più una monarchia sebbene, nell’attesa dell’Assemblea costituente, nessuno ancora poteva dire se sarebbe divenuta una repubblica parlamentare, presidenziale o a sistema misto. La famiglia imperiale era stata inviata a Tobolsk, ma l’esercito continuava a combattere e la burocrazia zarista garantiva con la sua presenza la continuità dello Stato. La Russia, insomma, era cambiata, ma ancora non si vedevano i concreti effetti della trasformazione: all’inizio di luglio i bolscevichi avevano tentato, fallendo, un colpo di mano contro il governo provvisorio e Lenin era stato costretto a riparare in Finlandia, ma le sconfitte militari, che incidevano sempre di più sul morale dei soldati, stanchi e poco propensi a resistere al nemico, e la presenza dei Soviet, che costituivano un vero contropotre  specialmente nei quartieri operai della capitale «Viborskij» e «Nevskij», erano il segnale della possibile ulteriore evoluzione di una situazione fluttuante. In città, poi, la vita cominciava a farsi difficile; la svalutazione del rublo e l’inflazione, unite allo stato di guerra, costringevano le fasce più deboli della popolazione a munirsi di mezzi di sussistenza eccezionali e mentre la povertà generale aumentava, la rete assistenziale zarista crollava, sia per mancanza di fondi, sia per l’impreparazione di fronte alle nuove condizioni create dalla guerra e dalla rivoluzione di febbraio. 
I partiti rivoluzionari che avevano dato vita ai Soviet si erano stabiliti nell’ex collegio dell’Istituto Smol’nyj della capitale, sostituendo nella prestigiosa scuola femminile le figlie dell’aristocrazia con quadri menscevichi, socialisti democratici, bolscevichi, socialisti rivoluzionari e anarco-comunisti. Il 25 ottobre/7novembre si sarebbe aperto il II Congresso panrusso dei Soviet. Per quel giorno i bolscevichi guidati militarmente da Trockij programmarono una nuova insurrezione e se, come si vedrà, l’azione ebbe successo, seguirono anni di guerra civile e torbidi, il sorgere di diversi governi in varie parti dell’ex impero e l’occupazione straniera di vaste regioni, a dimostrazione che il destino della Russia fosse tutt’altro che segnato e che l’impreparazione del governo provvisorio a fronteggiare una situazione rivoluzionaria fosse quantomeno relativa.
In tale caotica temperie le varie missioni diplomatiche dell’Intesa seguirono gli avvenimenti con fatica, nel tentativo di comprenderne la portata, ma la loro opera si rivelò insufficiente al compito richiesto, tanto per motivi oggettivi, come la pessima situazione alimentare, le epidemie, l’isolamento, gli arresti e il terrore, quanto per la miope posizione dei governi rappresentati, interessati, come si vedrà, soprattutto al proseguimento della guerra sul fronte orientale. Per quanto riguarda la missione diplomatica italiana, poi, alle difficoltà generali se ne aggiunsero presto altre peculiari: non solo, infatti, l’ambasciatore Andrea Carlotti era stato assegnato ad altra sede [Madrid], e avrebbe lasciato inspiegabilmente la Russia il 9 novembre nonostante gli accadimenti, ma anche le notizie provenienti dal fronte italiano, riguardanti la sconfitta di Caporetto, avevano già contribuito a creare un certo sconvolgimento nelle fila della diplomazia della penisola e nel novembre 1917 Roma era distolta dagli avvenimenti internazionali in quanto lo shock provocato da Caporetto non era stato superato. Moltissimi erano i profughi provenienti dalle zone invase dagli austriaci e, mentre in Russia il potere passava nelle mani dei comunisti, i muri delle città italiane si riempivano di manifesti, di cui quello apparso a Desio il 14 novembre 1917 ne costituisce un paradigma: «Con una violenza superiore ad ogni previsione, dileggiando ed insultando il nome nostro, il più brutale nemico ha invaso la bella contrada friulana apportandovi ovunque minacce e terrore. Il popolo nostro che già con animoso esempio seppe mostrare nel lungo periodo della guerra come non gli sia grave nessun sacrificio, si mantenne fermo anche nella presente strettezza ed anzi si riaffermò unanime in quel sentimento di nazionalità che fa sacro ogni palmo del suolo della patria, in quel sentimento che sarebbe profondamente ferito ove la minimissima parte d’Italia dovesse cadere sotto il giogo straniero. [...] I barbari saranno ricacciati al di là delle alpi, assicurata una libertà durevole, il mantenimento dell’ordine e dell’esistenza [...] mentre però le provincie occupate dal nemico sono in preda al lutto ed alla desolazione, vada il nostro soccorso a mitigare il loro dolore e ad unirci sempre più in scambievole affetto fraterno». Ancora alla vigilia del 7 novembre l’ambasciata italiana a Pietrogrado era impegnata nel lavoro di propaganda al fine di far passare sui giornali russi le veline che in qualche modo ridimensionassero la catastrofe di Caporetto e gran parte del corpo diplomatico si trovò spiazzata dagli avvenimenti. Quando nel dicembre 1917 giunse a Pietrogrado il nuovo reggente l’ambasciata italiana, Pietro Tommasi della Torretta, egli non poté che adeguarsi all’impostazione generale data al momento dello scoppio della rivoluzione bolscevica di comune accordo da tutte le Potenze e che si può riassumere nella speranza che si trattasse di un passaggio transitorio, un incidente di percorso che nulla avrebbe mutato nel più generale quadro strategico europeo. Mancò, allora, la visione ampia di una situazione assolutamente complicata, il colpo del diplomatico geniale in grado di adeguare azione e previsioni alla realtà così bruscamente rinnovata rispetto ai mesi precedenti. Latitò, insomma, quella libertà intellettuale, unita alla spregiudicatezza, arma necessaria dell’uomo politico, per comprendere che il governo dei soviet, per quanto avverso, fosse davvero l’unico soggetto che avesse una linea politica in grado di poter decidere per la Russia. Né, d’altro canto, rifiutando la realtà si agì in modo aperto, deciso e forte per contrastarla. Insomma, e questa è certamente la critica maggiore che si può fare alle diplomazie occidentali, si tentò di mantenere in vita le motivazioni della guerra del 1914 in un mondo che nel 1917 non era più lo stesso. E se è vero che furono la guerra mondiale e le sconfitte patite dall’impero zarista a preparare il terreno per il colpo di mano bolscevico, si deve chiarire che il mondo mutò non solo per il corso della guerra, ma per il conflitto in sé, che con la sua violenza inaudita in precedenza pose gli uomini di fronte a valori completamente diversi rispetto a quelli che solo tre anni prima ne guidavano le coscienze. Tra i funzionari italiani che ebbero la ventura di seguire in prima persona l’evolversi della situazione in Russia non ci fu una personalità in grado di emergere dal grigiore generale che ben presto divenne caratteristica peculiare dei quadri governativi. Il console di Pietrogrado, Raffaele Pirone, da anni viveva sulle rive della Neva ma era un medico e non un diplomatico di carriera. Conosceva certamente la Russia imperiale empiricamente, ma non dimostrò, né allora né in seguito, di aver colto i bagliori del nuovo che avanzava e le motivazione dei giovani estremisti, bolscevichi o socialisti rivoluzionari, che stavano prendendo il potere. Affrontò con coraggio un destino tragico, ma il risentimento e la collera che si portò dentro, e che esplosero negli anni successivi nel corso della stesura dei suoi ricordi, furono indirizzati più che altro contro gli ebrei russi, indicati come i colpevoli delle sue sofferenze in una visione fideista di un mondo diviso in buoni e giusti e dannati, perché diversi e quindi avversi. 
Lo stesso discorso vale per Cesare Majoni, console italiano a Mosca e, secondo le parole di Vladimir Zabughin, il funzionario italiano di chiare origini russe, «più energico, più americamente indefesso che conobbi all’estero», che profuse un grande impegno e un’energia adeguata alla situazione, ma che rivelò nelle pagine del diario la sua vera natura di uomo avverso per principio agli ebrei, che riteneva la causa di ogni male. Zabughin si differenzia da questi uomini solo perché, originario della Russia, aveva quel paese nel sangue, ma non dimostrò alcuna qualità peculiare e le sue analisi risultano oggi prevedibili, superficiali e distorte dal pregiudizio. 


Il 7 novembre 1917, come detto, era prevista l’apertura del II congresso panrusso dei soviet. Quella data fu scelta da Lenin e dalla direzione del partito comunista russo bolscevico come la più opportuna per rovesciare il governo provvisorio. Si trattò, più che di un’insurrezione di popolo, di un’operazione militare che previde l’uso dei cannoni da sei pollici di cui era munita l’Aurora, alla rada di fronte al Palazzo d’Inverno, mentre altre torpediniere pattugliavano la zona di fiume tra l’isola Vasil’evskij e il Nevskij, in una situazione di assoluta anarchia nella quale i bolscevichi del soviet ebbero buon gioco affermando di difendere la rivoluzione: «Si prepara un colpo di alto tradimento contro il soviet di Pietrogrado», recitava un proclama dello Smol’nyj; «un complotto controrivoluzionario è diretto contro il Congresso panrusso dei Soviet alla vigilia della sua apertura, e contro l’Assemblea costituente, contro il popolo. Il Soviet di Pietrogrado monta la guardia alla rivoluzione».
Pietrogrado fu divisa in settori controllati dalla guardia rossa e verso le due del mattino del 6 novembre cominciarono le operazioni principali. Furono occupate le stazioni, la centrale elettrica, gli arsenali, i depositi dei viveri, alcuni ponti, tra cui quello che collegava la piazza del Palazzo all’Isola Vasil’evskij, la Banca di Stato, la Posta. Tutto accadde in una tale fretta, che Lev Trockij poté affermare anni dopo che «i resoconti sugli episodi di quella notte sono miseri e incolori: sembrano verbali di polizia. Tutti i protagonisti sono presi da una febbre nervosa. Nessuno ha il tempo di osservare e di registrare». Quasi tutto il centro cittadino fu posto sotto il controllo delle forze rivoluzionarie, che organizzarono posti di blocco e il giorno dopo i giornali uscirono con un certo ritardo, così come la città stentava ad animarsi. Verso la fine della mattinata del 7 novembre l’occupazione dei posti chiave fu completata: furono sbarrate molte strade adiacenti a Palazzo Mariinskij, dove i membri del preparlamento erano in procinto di dar vita a una riunione, interrotta prontamente da marinai della guardia rivoluzionaria; le strade intorno al Palazzo d’Inverno, poi, furono pattugliate dai marinai e dai soldati del reggimento Pavloskij, fedeli al soviet. Nel primo pomeriggio il Nevskij cominciò a ripopolarsi: «l’insurrezione?» si chiedeva la gente, «ma questa è un’insurrezione? Si tratta solo di un cambio della guardia tra le sentinelle di febbraio e quelle di ottobre», al punto che in serata la via principale della città era di nuovo affollata e si «concedeva ai bolscevichi tre giorni di vita». Anzi, le truppe della guardia rossa «non facevano più paura» e sebbene attorno al Palazzo d’inverno cominciasse a concentrarsi una certa forza, la gente, secondo le parole di Trockij, non sembrava preoccuparsi più di tanto. Claude Anet, un giornalista francese, «era sinceramente stupito: questi assurdi russi fanno una rivoluzione in modo diverso da quello che raccontano i libri. La ville est tranquille». 
Se la memorialistica vicina ai bolscevichi tese a dipingere la presa del potere del partito di Lenin come un indolore, e quindi «naturale» passaggio tra il vecchio e il nuovo, i più attenti osservatori tra coloro che si trovarono allora a Pietrogrado hanno lasciato molte pagine in cui raccontano, assieme alle proprie vicende, quelle del Paese che li ospitava all’interno di una cornice fatta di impressioni generali e tentativi di spiegazione degli avvenimenti, che offrono la possibilità di ricostruire, accanto a quei frangenti, il retroterra culturale, il retaggio politico che in quegli anni sembrò essere denominatore comune per tutti loro. E ne risulta, intanto, che al città, quel giorno, fosse tutt’altro che «tranquilla». 
Il 7 novembre Raffaele Pirone si trovava nei locali della legazione italiana, di fronte al Conservatorio e al Teatro Mariinskij, relativamente distante dal Palazzo d’Inverno, quando qualcuno lo chiamò al telefono esortandolo a tornare a casa, perché sarebbero stati levati i ponti, tagliando in due la città, mentre presto il coprifuoco e la sospensione della circolazione dei tram avrebbero reso impossibile qualsiasi movimento. Pirone scese immediatamente in strada: «I passanti», raccontò, «si affrettavano tenendosi lungo le case, sicché le vie larghe apparivano anche più deserte; agli angoli del ponte Nicola un po’ di folla era tenuta d’occhio da pattuglie di marinai delle navi da guerra ancorate in mezzo alla Neva; su tutti i volti una preoccupazione, una tristezza, resa anche più cupa da un cielo scuro, e da un vento di tempesta, che urlava come solo sulla Neva sa fare». Secondo il più famoso testimone del colpo di mano bolscevico, John Reed, invece, «i tram correvano sul Nevskij; uomini, donne, fanciulli si aggrappavano a ogni sporgenza. I negozi erano aperti e la folla, nella strada, pareva molto meno inquieta che la vigilia. La notte aveva fatto sbocciare sui muri una nuova fioritura di appelli ai contadini, ai soldati del fronte e agli operai di Pietrogrado contro l’insurrezione». 
Verso la parte alta del Nevskij, dopo il canale Ekaterinskij, si vedevano ancora «la folla, le vetrine illuminate, le réclame elettriche dei cinematografi; la vita continuava come al solito». Tutta la città, anzi, «sembrava essere uscita a passeggiare sul Nevskij. A ogni angolo di strada folle immense si accalcavano attorno a gruppetti che discutevano animatamente. Ai crocicchi, picchetti di soldati con le baionette in canna, uomini anziani avviluppati in pellicce lussuose, tendevano i pugni contro di essi, rossi di furore. Donne eleganti li ingiuriavano». Solo verso l’imbrunire, poco prima che Pirone scendesse in strada, all’angolo tra il Nevskij e la via Morskaja fu sistemata un’autoblinda. Alcune altre sopraggiunsero (portavano i nomi dei primi condottieri kieviani, Oleg, Rjurik, Svjatoslav), mentre i tram smisero di circolare e i passanti si fecero più rari. 
Quel 7 novembre si trovava a Pietrogrado un altro funzionario del governo italiano, F. M. Taliani, inviato in Russia con incarichi speciali, che fu messo al corrente degli eventi in modo analogo a Pirone: «Sono ancora a letto quando una voce che non riconosco mi annunzia per telefono che i bolscevichi hanno assediato il palazzo del Governo. Mi precipito fuori. Nella piazza del Teatro, nelle strade adiacenti non c’è nessun sintomo nuovo. Continuo verso il centro: strade tranquille. All’imbocco della Morskaja un soldato mi viene incontro [...]. Mi dice che non solo il palazzo del Governo ma tutta la città è in mano ai bolscevichi [...]. Soldati appaiono a poco a poco dovunque: sbarrano i ponti e i crocevia, tengono sgombra la Prospettiva Nevskij. Qualche colpo di fucile [...] mi hanno fermato tre volte per chiedermi il passaporto». Taliani provò repentino disprezzo per i primi rappresentanti del nuovo potere; la guardia rossa era composta da «operai di ogni età, facce scavate dalla miseria, occhi bruciati, sventolare di stracci, grida rauche: sono armati di vecchi fucili, di carabine rugginose»; è «un’accozzaglia nella quale sono stati gettati i rifiuti della società». Proseguendo nel suo cammino vide un’autoblinda guidata dagli junker che «ferma all’imbocco di un ponte, lo spazzava con la sua mitragliatrice. Allora dieci guardie rosse strisciando sull’asfalto l’hanno aggirata [...]. Dallo spiraglio hanno scaricato nell’interno i revolver [...]. I quattro junker sono stati tirati fuori che si dibattevano ancora e gettati nella Mojka». Taliani e Pirone si trovarono negli stessi minuti intorno al Palazzo d’Inverno, dove stava per raccogliersi il governo provvisorio per una seduta di emergenza e videro entrambi le prime sparatorie, sempre più fitte finché esse, come ricorda Pirone, «verso le 10 [le 22] si intramezzarono con fuochi di mitraglia nutriti e colpi di cannone sempre più frequenti tirati da vari punti, ma specialmente dalle navi. Noi potevamo vedere i tiri, perché l’incrociatore Aurora si trovava proprio dirimpetto alla nostra casa. Né fu difficile capire che si tirava sul Palazzo Imperiale, la cittadella della resistenza, guardato dalle uniche truppe fedeli al governo provvisorio: i cadetti delle scuole militari. Verso le 4 del mattino l’uragano scemò, i colpi si diradarono e si ebbero le prime notizie. Forti nuclei di bolscevichi dalle caserme, dalle navi, armati come per un vero e proprio assalto […] si erano impadroniti dei punti nodali della città, poi avevano fatto convergere i loro sforzi sul palazzo imperiale, la cui difesa aveva dovuto cedere. Gli assalitori, durante l’attacco, non avevano dimenticato le cantine del palazzo e, nell’ubriachezza, si erano perfino uccisi tra loro. Infine si erano abbattuti sui difensori e ne avevano fatto scempio in un’orgia di sangue, di cui molti più tardi menarono vanto».
Dall’ambasciata italiana partirono immediatamente i primi, confusi rapporti sugli avvenimenti. Il 7 novembre l’ambasciatore Carlotti informò Sonnino che le truppe di Pietrogrado e «masse disordinate e imbelli» passate dalla parte dei bolscevichi, avevano occupato e tenevano sotto controllo alcuni uffici governativi. Di Kerenskij si diceva che avesse abbandonato la città per porsi alla testa delle truppe fedeli al governo provvisorio, con le quali avrebbe presto riconquistato la capitale. Destava, comunque, preoccupazione, il fatto che il governo «avrebbe da tempo potuto padroneggiare situazione ove avesse proceduto con energia contro i perturbatori». Come detto, però, Carlotti non poté dare un ulteriore contributo perché lasciò inspiegabilmente la capitale russa il 9 novembre; la direzione della legazione italiana fu provvisoriamente presa dal  consigliere Giuseppe Catalani, che il 10 novembre scriveva a Roma di aver incontrato il ministro del Belgio Jules Destrée; questi lo aveva rassicurato riguardo alla decisa intenzione dei funzionari statali e degli ufficiali di boicottare il nuovo potere, destinato, quindi, a fallire. Non si escludeva, inoltre, un intervento diretto della Germania al fine di rovesciare i comunisti e occupare Pietrogrado. Sempre in quel giorno Catalani confermava la prossima fine del movimento bolscevico, il ritorno di Kerenskij, ormai a Carskoe Selo, pochi chilometri a sud di Pietrogrado, e la fuga di Lenin e Trockij verso un luogo imprecisato.
Tra i funzionari italiani presenti a Pietrogrado il 7 novembre un posto particolare è occupato dal già ricordato Zabughin, inviato nel maggio 1917 in Russia da Vittorio Scialoja, ministro senza portafoglio per la Propaganda di guerra, con incarichi di propaganda da assolvere a stretto contatto con la diplomazia ufficiale e la missione militare. Giunto Russia, dopo aver lavorato in diverse regioni russe nonché in Romania per tutta l’estate, era rientrato nella zona delle due capitali poco prima del 7 novembre. A Mosca aveva seguito per diversi giorni le manifestazioni che si susseguivano in attesa dell’apertura del congresso dei Soviet a Pietrogrado ed era stato colpito dal discorso «caldo, forte, convincente» di «un avvocato ebreo di Mosca, uno di quegli ebrei che non vollero mai cambiare cognome, come fecero tanti suoi correligionari», a parere del quale, la Russia era in grave pericolo perché i veri Russi, «l’ex razza dominante» sarebbe decaduta «per l’abuso della vodka, per il groviglio di sfacciate bugie onde fu avvelenato l’animo suo e per la sfrenata bestiale ingordigia. Se la Russia sarà salva, lo sarà per opera dei polacchi, degli ebrei, dei piccoli russi, dei fratelli slavi oppressi d’oltre confine: mai per opera della Grande Russia»; «La civilissima Mosca», del resto, «vedeva dilagare un cocainismo e morfinismo epidemico, un’orgia di perversioni più atroci», e neanche la capitale, da cui Zabughin scrisse il 5 novembre, sembrava foriera di novità positive: «Degli umori dell’enorme folla assiepata sulla piazza Kazan’ un osservatore europeo avrebbe potuto indurre la possibilità di un colossale massacro degli ebrei [...]. Mi ricorderò finché avrò vita una donna sulla quarantina [...] che arringava un gruppetto di studenti, di commessi del Gostinnyj Dvor e di impiegatucci: «I maledetti – urlava – non ci lasciano nemmeno pregare! Aspettate ancora, chiuderanno le nostre chiese e vorranno essere pagati per lasciarci entrare [...]. Ci vorranno convertire al giudaismo»». La notte tra il 5 e il 6 novembre Zabughin vide Pietrogrado «percorsa da decine di automobili, blindate ed ordinarie, piene di gente seria, affaccendata, cupa [...]. Sulle vie principali una folla fitta, taciturna, curiosa, stazionava avida di sensazioni e di novità», mentre la sera del 7 novembre registrò le medesime impressioni di Pirone e Taliani: «il fracasso era infernale. Cannonate di medio calibro, mitragliatrici, fucilate. Credevo che al riapparire del giorno almeno mezza Pietrogrado sarebbe [stata] demolita. L’albergo tremava, i vetri tentennavano, il pubblico, benché avvezzo alle più apocalittiche situazioni, s’informava premurosamente delle prossime partenze dei treni. Una notte d’inferno, insonne». Nell’alba leninista, poi, «si ammazzava alla spicciolata», si violentava «alla tedesca», come pure «teutonica fu la sorte riservata agli allievi ufficiali». Gli uomini di Lenin sono definiti senza mezzi termini «agenti turco-teutonici» e «fanatici imbottiti di denaro tedesco», mentre «la storia insegnerà un giorno l’esatta portata dell’aiuto prestato ai cavalieri della Germania [...]. La presenza di ufficiali tedeschi tra le guardie rosse mi viene affermata da buona fonte, né credo che senza un comando straniero codesta plebaglia si sarebbe battuta così bene [...]. Non saranno stati molti: ma bastarono». L’8 novembre Zabughin si recò assieme all’ambasciatore italiano alla vigilia della sua partenza al commissariato agli Esteri e osservò che molte guardie non sapessero bene quale governo servissero: «chiedevano meticolosamente dei lasciapassare, accontentandosi però, come di prammatica, di qualunque carta timbrata», mentre «una folla discreta stazionava dinanzi al Palazzo d’Inverno, il naso per aria, a mirare le impercettibili screpolature della facciata [...]. Manifesti bianchi e gialli ingiungevano al popolo di riprendere le abituali occupazioni, annunziandogli altresì in termini pomposi la caduta del regime borghese e l’avvento dell’era millenaria sotto un Governo operaio e contadino. [...] Tutti aspettavano Kerenskij. Dov’era?». La domenica, quattro giorni dopo il colpo di mano bolscevico, la situazione era tale da far pensare ad una imminente riconquista di Pietrogrado, ma arrivò il lunedì, e «Kerenskij non si faceva ancora vivo». Ormai prossimo alla partenza, Zabughin ebbe un incontro con Trockij allo Smol’nyj, dove si era recato il 14 novembre per ottenere i visti di uscita. La sede del governo sembrava «un festino aristocratico dei più bei tempi dell’impero. Nell’interno era un formicaio operoso [...]. Membri del Soviet che correvano alla seduta; facce convinte della propria alta missione, unti dal Signore, per davvero, seri e composti, soldati, marinai [...]. Trockij [...] è in rendigote, come si conviene a una non eccellenza socialista, e ha l’aria annoiata di colui che aspetta un mondo d’affari, senza che ne venga neppur uno. [...] Il compagno è chiomato, barbuto e molto brizzolato: somiglia vagamente al Černov». Dopo aver ottenuto il permesso di partire Zabughin si recò in un ufficio per la vidimazione del visto: «un estremo lembo porporino fendeva netto le nubi nerissime. Il mio interlocutore era chino sulla tavola, pensoso. Era piccolo, grassoccio, simpatico. Un anno fa doveva appartenere a qualche Lega di Michele Arcangelo per lo stermino degli Ebrei», ma ora tutto era mutato.
Secondo l’analisi di Zabughin, contenuta anche in un rapporto compilato per il ministero romano (e coincidente con il giudizio di Taliani), la rivoluzione bolscevica era non giunta inattesa: «Il suo graduale appressarsi e le misure di precauzione che il governo provvisorio di coalizione [...] era in dovere di adottare, mi tolsero la possibilità di proseguire l’opera mia di propaganda nelle scuole militari e nelle caserme di Pietrogrado». La rivoluzione «la prevedevano tutti sino dal mese di agosto». La «fenomenale illimitata insipienza e debolezza del governo provvisorio, basato sul vuoto e scevro di qualsiasi autorità in provincia, la criminosa condiscendenza del ministro di grazia e giustizia Maljantovič, che man mano rimise in libertà dietro cauzione quasi tutti i capi bolscevichi arrestati dopo i moti di luglio [...] il crescente disagio delle masse popolari, tra le quali la propaganda pro “pane e pace” [...] esercitava l’effetto di una lampada accesa su di uno stuolo di farfalle, tutto insomma cospirava ad affrettare l’avvento al potere di codesti cavalieri dell’Elmo Chiodato». Nessuno, però, si sarebbe aspettato una durata sensibile dei bolscevichi, essendo due settimane il massimo «che si concedeva di governo alla lega tedesco-romanovista-anarchico-ladresca». Infatti Lenin giunse al potere per demerito altrui, sebbene Kerenskij «difficilmente avrebbe potuto agire, nei giorni di martedì 6 e mercoledì 7 novembre diversamente dal come si comportò scappando cioè sotto bandiera americana». Il giudizio sugli uomini della diplomazia occidentale, comunque, in parte responsabili secondo Zabughin di non aver contrastato il colpo di stato bolscevico, è negativo: l’ambasciatore inglese George Buchanan, che è considerato «ostetrico e padrino della prima rivoluzione di marzo», addirittura «aveva perso quella non eccessivamente grande quantità di cervello che tiene in testa. Agevolò indirettamente la defezione dei cosacchi, giacché in un ricevimento solenne [...] li assicurò che l’Inghilterra non li avrebbe mai abbandonati né avrebbe fatto una pace separata a spese della Russia». Ma come Buchanan, neanche gli altri diplomatici, digiuni di cultura e storia russa, potevano comprendere la gravità di quanto stava accadendo. Anche nel rapporto ministeriale, infine, Zabughin tornò sulla presenza tedesca accanto ai bolscevichi: l’assalto al potere «si svolse con un programma prestabilito con un’accuratezza tedesca e con disciplina idem» e la presa stessa del Palazzo d’inverno fu condotta «sembra, sotto il comando di ufficiali germanici». 
Questo, in sintesi, il suo giudizio sulla rivoluzione bolscevica. Come altri suoi colleghi, il funzionario non sembra brillare per equilibrio e si ha la sensazione che ricavasse le impressioni fondendo le voci di strada con l’osservazione empirica, senza un riscontro oggettivo. A cavallo tra la vendetta ebraica e il complotto filotedesco, neanche per lui la rivoluzione di ottobre fu «una storia russa», bensì «anzitutto una Rivoluzione asiatica». Per questo, enfatizzava, «gli alleati non possono abbandonare la Russia al suo triste destino [...]. Essi debbono lottare anche sul teatro orientale per restituire la Russia a se stessa, alle sua forze sane, ai suoi uomini onesti. Unico mezzo è [...] un intervento rapido, energico, compiuto d’accordo tra le potenze dell’intesa, ma soprattutto da forze americane e giapponesi. [...] Se vogliamo, e dobbiamo volerlo a ogni costo, che il mostro teutonico sia schiacciato per sempre, dobbiamo aiutare la parte migliore della Russia a darsi un governo degno di lei e aiutare l’esercito russo a guarire e ricostruirsi. [...] Cosacchi, vecchi credenti, polacchi, romeni, caucasiani - ecco quanto basterebbe per tenere a bada assieme a qualche armata americana e giapponese, le scarsissime forze tedesche sulla fronte russa, anzi, per batterle e togliere a esse parte del frutto delle facili vittorie [...] occorre anche un intenso e continuo apostolato intellettuale».



  












































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